CAPITOMBOLO

Mio cugino Marcello, che di fisime troppo ne aveva, e tra queste non ultima, una singolare considerazione per la propria persona, vista come possibile oggetto di irrisione altrui, camminava per strada facendo molta attenzione a non cadere, perché la cosa, diceva, sempre possibile, anche se certo non così probabile come lui temeva, gli avrebbe procurato, ne era certo, irrisione da parte di gente sempre pronta a godere delle disgrazie altrui, con conseguente perdita di dignità, per l’ilarità suscitata in chiunque per caso ne fosse stato testimone. E soprattutto questa cautela, insisteva, andava osservata nei locali chiusi ed affollati, dove un incidente del genere avrebbe acquistato un risalto maggiore, con una risonanza tutt’altro che favorevole per il povero malcapitato, esposto a feroci prese in giro da parte di quegli stessi maligni che lui immaginava.

Cammino dei Briganti, Cartore (RI - 2017)

Così, se andava al cinema, entrava sempre a luci spente, ed usciva in tutta fretta durante lo scorrimento dei titoli di coda, per evitare quello che per lui sarebbe stato il massimo delle sciagure. “Anche se il percorso, dalla entrata al posto a sedere, è breve”, mi diceva, “il difficile è farlo senza cadere. Pensa: dover attraversare il corridoio tra le due file di poltroncine quando il film non è ancora cominciato o è appena finito, con tutte le luci accese, sotto lo sguardo malevolo degli astanti, comodamente seduti e disposti a sghignazzare ad ogni minima occasione, significa offrirsi in pasto a loro, offrendo un ulteriore divertimento, con una caduta accidentale, che muoverebbe l’ilarità di tutti. In queste condizioni, come faresti ad attraversare la sala, senza cadere?”

Il buon Marcello, sebbene poi fosse il primo a ridere di queste sue esagerazioni, non aveva tutti i torti; una caduta plateale, sarebbe stato un evento spiacevole per chiunque. Ditemi infatti voi se nella parola “capitombolo” non ci siano già tutte le premesse per farsi una bella risata. Quando la caduta viene derubricata in capitombolo (“capi” testa e “tombola”, la caduta, ma anche la tombola, quando si fa saltare il banco), si capisce subito che non c’è nulla da temere. Essa infatti non sembra tanto pericolosa e devastante, quanto piuttosto divertente e spettacolare. Come il cader giù a capofitto, fare un ruzzolone, “raccogliere un portafoglio” che è l’ultimo, beffardo modo di dire per indicare l’uomo che cade e fa come se si fosse tuffato in terra per la fretta raccogliere un ricco bottino. Senza nessun riguardo per il fatto che, cadendo ci si può fare male, ma il danno principale non sembra essere questo, quanto piuttosto quello d’immagine: per una errata considerazione del concetto di dignità, che ci vuole riservati e contegnosi, mentre cadendo, mettiamo in evidenza le nostre debolezze, e ci scopriamo indifesi. L’umiliazione infatti è il sentimento prevalente da parte del caduto, una certa ilarità, mista ad apprensione, da parte di chi assiste alla scena.

D’altro canto sono convinto che tutti, più o meno abbiamo fatto un’esperienza del genere. A me è capitato una volta, di ritorno da Roma, dove mi ero recato per un convegno di lavoro, sceso dal pullman, che si era fermato su richiesta solo per me, presso una scalinatella che portava verso casa mia e pensando di mettere in mostra i miei (allora) buoni requisiti atletici, la ventiquattrore in una mano, l’ombrello nell’altra, feci un saltello verso il primo gradino senza tener conto dell’intorpidimento dei muscoli delle gambe, per l’immobilità del viaggio e feci un sonoro capitombolo, ruzzolando lungo le scale. Non feci in tempo a vedere i volti degli altri viaggiatori, con gli occhi puntati su di me dai finestrini del pulman, che si sganasciavano dal ridere, ma mi parve di udire, al di sopra del rombo del motore che si riavviava, un lungo, ingiurioso sghignazzo che mi inseguì fin sulla porta di casa.

E Vittorio, mio fratello, una mattina che lo aspettavamo in macchina, all’epoca in cui eravamo pendolari delle vacanze al mare, le famiglie in spiaggia e noi, mio fratello, io e altri, che partivamo ogni mattina per il lavoro, lo vedemmo arrivare completamente coperto da una polvere bianca, dal viso alla punta delle scarpe.

“Cos’hai fatto?” gli chiedemmo in coro, mentre faceva per entrare in macchina; lui, stizzito, con voce contraffatta, ci rispose: ”Mi sono data una bella incipriata! Non si vede?”. Più tardi, lungo il viaggio, quando si fu calmato un po', ci spiegò che uscito di casa, e camminando lungo il ciglio della strada, non aveva fatto caso che la cunetta a fianco era stata imbiancata di calce per disinfezione e lui, avendo messo un piede in fallo, ci era caduto dentro a capitombolo e non aveva avuto il tempo di spazzolarsi.

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