DEJA' VU
Caro fratello, con i tuoi ricordi molto dettagliati, di quel giorno tristissimo del 2 marzo 1960, in cui morì nostro padre, hai risvegliato in me l’ondata emotiva, più di quanto non abbia fatto lo scritto rivisitato che ho pubblicato sul blog qualche giorno fa. Quello che tu hai vissuto è, secondo me, un fenomeno simile al dejà-vu, che consiste nel rivivere per pochi attimi episodi della vita passata, o addirittura, se si accetta la teoria della reincarnazione, verificatisi in una vita precedente, di cui a livello conscio non abbiamo nessuna memoria. L’espressione francese infatti significa “già visto” e fa riferimento alla sensazione di familiarità che si avverte all’improvviso con le immagini che stiamo guardando, che appaiono come già presenti nell’archivio della nostra memoria e che riemergono a tratti.
Dev’essere stato veramente emozionante, vedersi proiettato all’improvviso a parecchi decenni addietro e rivivere le sensazioni di quel giorno, alla presenza di tante persone care, che non ci sono più. Una strana assemblea di fantasmi muti, occhi persi nel vuoto, che fanno la veglia funebre ad un uomo sul letto di morte. E altri ricordi scabrosi, di difficile interpretazione, come quei maccheroni alla chitarra, fatti da una accondiscendete zia Gina, pur con il cuore in pena, per venire incontro ad un ultimo desiderio del fratello, il quale voleva che l’evento tragico che pur doveva accadere, non venisse a rovinare la festosità del carnevale per noi figli, abituati a quel cibo speciale per la ricorrenza pur essa quanto mai fuori luogo. E la beffa orrenda di quel sugo alle mosche, quasi un presagio funesto del peggio che doveva venire.
Un attimo di iper-realtà in una situazione di forte disagio psicologico che durò tutta la notte tra il martedì e il mercoledì delle Ceneri tra gli ultimi clangori notturni del Carnevale morente ed il silenzio di un triste grigio mattino, in cui finalmente si verificò la piena corrispondenza tra la ricorrenza e l’evento: il monito dell’uomo che torna ad essere cenere si addiceva al momento del trapasso, che si sarebbe verificato di lì a poco.
E poi l’episodio, da me rimosso, perché dolorosissimo, di quando nostro padre, riavutosi da un assopimento durato vari minuti, fece cenno di uscire a quanti affollavano la camera in quel momento, dicendo a me di rimanere. “Bruno, solo Bruno” furono le sue parole, appena udibili. E fu per me il momento più terribile e più esaltante. Chiusa la porta fummo soli, lui ed io, lui si protendeva verso di me con difficoltà, io mi accostai al suo letto e non sapevo che fare per agevolarlo nel suo estremo tentativo di trasmettermi qualcosa. Furono parole convulse, sussurrate fra rauchi borbottii. Mi stava passando il testimone, come fa il corridore con l’ultimo della staffetta che è sempre quello sul quale si punta per la vittoria. Il più scattante, il più veloce. Povero papà, nonostante le delusioni che gli avevo dato, puntava ancora su di me. Con gli occhi parlava, o, quantomeno, comprendevo più l’espressione del suo sguardo amorevole, che non le sue parole. Ero sopraffatto dalle emozioni; la mia mente non capiva più niente, come uno investito da un fulmine. Mio padre cercava di dirmi quello che non ci eravamo detti nel corso della nostra vita, ed avrebbe avuto bisogno di altro tempo e di energie, che invece lo stavano abbandonando del tutto. Cessò di parlare, gli occhi erano aperti, ma vuoti, il respiro affannoso si placò. Non credevo a quello che stava accadendo. Accostai il viso alla sua bocca, per sentire se c’era ancora in lui un minimo di fiato: niente. Era morto tra le mie braccia. Baciai il suo volto e per alcuni attimi rimasi solo con lui, nell’ultimo abbraccio, ma le sue braccia pendevano inerti. Un’idea mi attraversò il cervello: forse l’anima, che da poco aveva abbandonato il suo corpo, aleggiava ancora nella stanza e poteva vedermi. La cercai con gli occhi, come impazzito. Forse era possibile un estremo contatto, prima che sparisse. Poi riaprii la porta e chiamai gli altri.
Avrei dovuto fare una corona di quelle ultime parole, perle cadute dalle tue labbra esangui, che avrei dovuto raccogliere e custodire come un tesoro di verità e amore, ma io ero di fronte a qualcosa di troppo grande, il mistero della morte, affrontato per la prima volta, che mi travolse ed esse si persero nell’aria. Ancora una volta – l’ultima – non fui all’altezza delle tue aspettative.
Vittorio AIELLI aveva aggiunto al post:"2 Marzo 1960" un commento, che riporto di seguito, per la migliore comprensione del testo.
"L’altra sera, leggendo quanto avevi scritto sul 2 marzo 1960, (revisione 2019) mi è capitato un fatto strano che non mi era mai capitato prima sebbene non fosse la prima volta che hai trattato l’argomento della morte di nostro padre. Leggendo mi sono trovato come accade nei film di fantascienza con i viaggi spazio-temporali, proiettato nel passato e precisamente all’epoca dei fatti. Si è trattato di un attimo tanto che sembra impossibile che in quell’attimo io abbia potuto avere tante immagini che si sono sovrapposte nella mia mente. Ho rivisto chiaramente tante figure care, anch’esse ormai scomparse da tempo, con la mamma, la zia Gina, la zia Dora, lo zio Orlando per parlare solo delle figure più vicine a noi. Queste in primo piano, poi sulla sfondo in posizione più arretrata e sfocata alte figure di zii, parenti, cugini ecc.
Ho rivissuto il giorno della domenica di carnevale (se non ricordo male papà mori il giorno delle ceneri) quando nostro padre ormai agli sgoccioli si preoccupava di noi ed esortava la zia Gina a fare per noi i maccheroni alla chitarra, come soleva fare tutti i giorni di festa. Ma quella evidentemente non era giornata: la zia Gina pur nel suo dolore, acconsentì alla richiesta per fare contento il fratello morente e condì la pasta con una bottiglia di pomodoro regalata dai parenti di zio Orlando da Larino. Quella bottiglia era un concentrato di mosche e la pasta rimase inconsumata.
Poi arrivò il giorno delle ceneri in cui il destino di papà si concluse. Egli volle vederti da solo e parlarti da uomo ad uomo senza la presenza di nessuno e solo tu sai quello che ti disse.
Seguono le scene strazianti della vestizione e del funerale riprese fotograficamente dall’allora coinquilino Di Nicola. Poi la visione si offusca e man mano scompaiono tutte le figure presenti ed io mi sono ritrovato solo senza alcun punto di riferimento, come chi abbia smarrito la strada e non sa cosa fare e dove andare.
Poi come in una dissolvenza tutto è tornato normale lasciandomi comunque un senso di incolmabile vuoto struggente".
Disease #2 - 2019 |
Dev’essere stato veramente emozionante, vedersi proiettato all’improvviso a parecchi decenni addietro e rivivere le sensazioni di quel giorno, alla presenza di tante persone care, che non ci sono più. Una strana assemblea di fantasmi muti, occhi persi nel vuoto, che fanno la veglia funebre ad un uomo sul letto di morte. E altri ricordi scabrosi, di difficile interpretazione, come quei maccheroni alla chitarra, fatti da una accondiscendete zia Gina, pur con il cuore in pena, per venire incontro ad un ultimo desiderio del fratello, il quale voleva che l’evento tragico che pur doveva accadere, non venisse a rovinare la festosità del carnevale per noi figli, abituati a quel cibo speciale per la ricorrenza pur essa quanto mai fuori luogo. E la beffa orrenda di quel sugo alle mosche, quasi un presagio funesto del peggio che doveva venire.
Un attimo di iper-realtà in una situazione di forte disagio psicologico che durò tutta la notte tra il martedì e il mercoledì delle Ceneri tra gli ultimi clangori notturni del Carnevale morente ed il silenzio di un triste grigio mattino, in cui finalmente si verificò la piena corrispondenza tra la ricorrenza e l’evento: il monito dell’uomo che torna ad essere cenere si addiceva al momento del trapasso, che si sarebbe verificato di lì a poco.
E poi l’episodio, da me rimosso, perché dolorosissimo, di quando nostro padre, riavutosi da un assopimento durato vari minuti, fece cenno di uscire a quanti affollavano la camera in quel momento, dicendo a me di rimanere. “Bruno, solo Bruno” furono le sue parole, appena udibili. E fu per me il momento più terribile e più esaltante. Chiusa la porta fummo soli, lui ed io, lui si protendeva verso di me con difficoltà, io mi accostai al suo letto e non sapevo che fare per agevolarlo nel suo estremo tentativo di trasmettermi qualcosa. Furono parole convulse, sussurrate fra rauchi borbottii. Mi stava passando il testimone, come fa il corridore con l’ultimo della staffetta che è sempre quello sul quale si punta per la vittoria. Il più scattante, il più veloce. Povero papà, nonostante le delusioni che gli avevo dato, puntava ancora su di me. Con gli occhi parlava, o, quantomeno, comprendevo più l’espressione del suo sguardo amorevole, che non le sue parole. Ero sopraffatto dalle emozioni; la mia mente non capiva più niente, come uno investito da un fulmine. Mio padre cercava di dirmi quello che non ci eravamo detti nel corso della nostra vita, ed avrebbe avuto bisogno di altro tempo e di energie, che invece lo stavano abbandonando del tutto. Cessò di parlare, gli occhi erano aperti, ma vuoti, il respiro affannoso si placò. Non credevo a quello che stava accadendo. Accostai il viso alla sua bocca, per sentire se c’era ancora in lui un minimo di fiato: niente. Era morto tra le mie braccia. Baciai il suo volto e per alcuni attimi rimasi solo con lui, nell’ultimo abbraccio, ma le sue braccia pendevano inerti. Un’idea mi attraversò il cervello: forse l’anima, che da poco aveva abbandonato il suo corpo, aleggiava ancora nella stanza e poteva vedermi. La cercai con gli occhi, come impazzito. Forse era possibile un estremo contatto, prima che sparisse. Poi riaprii la porta e chiamai gli altri.
Avrei dovuto fare una corona di quelle ultime parole, perle cadute dalle tue labbra esangui, che avrei dovuto raccogliere e custodire come un tesoro di verità e amore, ma io ero di fronte a qualcosa di troppo grande, il mistero della morte, affrontato per la prima volta, che mi travolse ed esse si persero nell’aria. Ancora una volta – l’ultima – non fui all’altezza delle tue aspettative.
Vittorio AIELLI aveva aggiunto al post:"2 Marzo 1960" un commento, che riporto di seguito, per la migliore comprensione del testo.
"L’altra sera, leggendo quanto avevi scritto sul 2 marzo 1960, (revisione 2019) mi è capitato un fatto strano che non mi era mai capitato prima sebbene non fosse la prima volta che hai trattato l’argomento della morte di nostro padre. Leggendo mi sono trovato come accade nei film di fantascienza con i viaggi spazio-temporali, proiettato nel passato e precisamente all’epoca dei fatti. Si è trattato di un attimo tanto che sembra impossibile che in quell’attimo io abbia potuto avere tante immagini che si sono sovrapposte nella mia mente. Ho rivisto chiaramente tante figure care, anch’esse ormai scomparse da tempo, con la mamma, la zia Gina, la zia Dora, lo zio Orlando per parlare solo delle figure più vicine a noi. Queste in primo piano, poi sulla sfondo in posizione più arretrata e sfocata alte figure di zii, parenti, cugini ecc.
Ho rivissuto il giorno della domenica di carnevale (se non ricordo male papà mori il giorno delle ceneri) quando nostro padre ormai agli sgoccioli si preoccupava di noi ed esortava la zia Gina a fare per noi i maccheroni alla chitarra, come soleva fare tutti i giorni di festa. Ma quella evidentemente non era giornata: la zia Gina pur nel suo dolore, acconsentì alla richiesta per fare contento il fratello morente e condì la pasta con una bottiglia di pomodoro regalata dai parenti di zio Orlando da Larino. Quella bottiglia era un concentrato di mosche e la pasta rimase inconsumata.
Poi arrivò il giorno delle ceneri in cui il destino di papà si concluse. Egli volle vederti da solo e parlarti da uomo ad uomo senza la presenza di nessuno e solo tu sai quello che ti disse.
Seguono le scene strazianti della vestizione e del funerale riprese fotograficamente dall’allora coinquilino Di Nicola. Poi la visione si offusca e man mano scompaiono tutte le figure presenti ed io mi sono ritrovato solo senza alcun punto di riferimento, come chi abbia smarrito la strada e non sa cosa fare e dove andare.
Poi come in una dissolvenza tutto è tornato normale lasciandomi comunque un senso di incolmabile vuoto struggente".
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