L'ARTE DELLA BANALITA'

Umberto Eco dall’alto del suo magistero poteva ben permettersi di dire che FB e tutti gli altri “social” fra i pochi meriti effettivi può annoverare il torto di aver dato la parola agli stupidi. Quelli che una volta consci della propria insipienza tacevano, ora parlano liberamente in quanto la tecnologia ha consentito loro di sproloquiare senza tema di essere smentiti o insolentiti, data la possibilità di nascondersi dietro l’anonimato. Penso che abbia tutte le ragioni di affermare questo, ma non mi azzarderei a ripetere la stessa cosa, perché allora dovrei anche interrogarmi sulla posizione che occupo io con i miei extra-vaganti scritti nella scala di questi valori o disvalori. Se rientro cioè tra quelli che possono parlare o tra gli altri che farebbero bene a stare zitti.

Diorama, 2013

Più che parlare della stupidità di cui alcuni fanno spudoratamente mostra o della volgarità che di solito ad essa si accompagna, appunterei la mia attenzione sulla banalità di molti che si scoprono portatori di messaggi e fanno considerazioni su dati di assoluta nullità, scontate affermazioni che altro non sono che sterili stereotipi inutili a qualsiasi fine, anche il più modesto, cioè quello di una semplice chiacchierata tra comari. Siamo tutti maestri dell’arte della banalità ed il nostro proporci come interpreti di chissà quali profonde verità, porta allo scoperto solo il nostro narcisismo, specie se constatiamo che il giudizio altrui ci gratifica o per pochezza o per millanteria. C’è chi dice che la vita è strana perché ci fa essere cattivi genitori quando non abbiamo ancora smesso di essere figli e quindi siamo immaturi e ci fa perfetti solo quando col passar del tempo, questa attitudine non serve più. Ho un’età avanzata e quattro figli adulti. Mai come ora mi sono sentito impreparato a sostenere questo ruolo che è sempre difficile e ci espone a molti rischi.

Leopardi che non aveva figli parlando in un contesto diverso più realisticamente si rammaricava che la vecchiaia togliesse agli uomini la possibilità di godere dei piaceri della vita senza togliergliene il desiderio. Quello che noi possiamo fare o non fare da vecchi per i nostri figli dipende non dal fatto che i figli siano cresciuti e quindi non abbiano più bisogno di noi, perché questo non succede mai, fin quando ci sono i genitori, i figli hanno sempre bisogno di loro, ma da quello che siamo diventati noi, che, lungi dall’essere perfetti, ci siamo lasciati sorpassare dal tempo e quindi siamo utensili in disuso.

Nel testo viene usata la parola “empatia” che mi si rimprovera di avere dimenticato quando nel mio post del 26 aprile scorso, intitolato ”Affetto e Pathos”, parlando dell’affettività, ho fatto il mio solito panegirico a ruota libera sui vari modi di intendere le parole, senza alcuna pretesa di aver esaurito l’argomento. A questo proposito vorrei aggiungere che – se non ricordo male – la mancanza di quella parola non era casuale ma voluta, in quanto debbo confessare che, a differenza di tanti che nei confronti di essa dimostrano un entusiasmo eccessivo, non nutro simpatia per questa “empatia” (scusate il bisticcio), che mi appare parola artefatta, cioè fatta ad arte per determinate questioni di carattere troppo tecnico e il cui uso principale dovrebbe essere di pertinenza della filosofia o della medicina, mentre nel campo del comune sentire essa si dirama in varie accezioni non ben determinate, al punto di risultare addirittura ambigua.

Questo “sentire dentro” che dovrebbe essere la principale caratteristica del termine, che ci mette in condizione di immedesimarci nella problematica dei nostri simili, di “metterci nei panni”, come si suol dire con espressione alquanto repellente, parla sì della proprietà di compenetrarsi degli stati d’animo di altre persone con esiti molto positivi e la volontà di aiutare, soccorrere, ma sembra che difetti proprio nel punto dell’affettività. Sarebbe quindi un’attitudine senz’anima, un prodotto del nostro essere solidali. Come nell’accoglienza dei migranti. Senti che lo devi fare, che devi accogliere ed aiutare lo straniero in difficoltà, ma non sei costretto a volergli bene.

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