LARGO GHIOTTI

Conservo pochi ricordi di Città S. Angelo, il paese di mio padre, arroccato su una collina, dove egli è vissuto fino a quando, diplomato maestro, se ne allontanò per non farvi più ritorno. La piccola-grande casa dove abitavano i miei parenti, aveva l’ingresso su quel piccolo mondo a sé che era Largo Ghiotti, da due lati casupole basse dove vivevano modesti lavoratori, a fianco la via con un muraglione e davanti la mole di Palazzo Ghiotti come una fortezza di cui noi vedevamo la grande facciata di pietra con le inferriate alle finestre sempre chiuse. Mio padre aveva trascorso lì la sua vita da giovane, insieme a suo padre, nonno Saverio, proprietario di piccoli fazzoletti di terra coltivati direttamente, la madre, nonna Rita, (Ritina o Rituccia per i vicini di casa), casalinga e contadina, due sorelle e un fratello.

Palazzo Ghiotti (aut. scon.)

Dobbiamo aver condotto una vita separata, se per tutto il tempo che siamo stati insieme, mio padre non mi ha quasi mai parlato della sua famiglia e del suo paese. E’ vero che eravamo distanti, loro là sulla collina vicino a Pescara, non ancora Provincia, a poche decine di chilometri, ma a quel tempo le distanze erano maggiori, noi in città, a Teramo, borghesi integrati, non ci vedevamo quasi mai. Dovevano però esserci stati dei dissapori in famiglia, chissà forse essi si aspettavano un aiuto economico da mio padre, unico dei fratelli ad essersi sollevato dalla condizione di indigenza proletaria, ma mio padre, con la sua famiglia, della quale aveva chiamato a far parte una sorella, Gina e cinque figli da crescere, non era in grado di fare granché per loro. Certo è che egli non tornava volentieri al paese e non parlava molto dei suoi.

Noi ragazzi, invece, tutte le volte che ci si prospettava di fare un viaggio a Città S. Angelo, eravamo felici, non solo perché venivamo sempre accolti con calore dalla nonna (il nonno purtroppo era già deceduto) e dagli zii, ma per il piacere di rivedere quella casetta così diversa dalla nostra, il paese, la campagna dove ci recavamo con lo zio Luigi che tutte le mattine andava là a lavorare e tutto ci sembrava meraviglioso ed inconsciamente ci faceva sentire il fascino delle radici.

Ma la maggior parte del tempo la passavamo a Largo Ghiotti con giochi diversi e qualche escursione sulle vie laterali, con l’emozione di nuove scoperte. Era uno spiazzo non grande, al riparo dal traffico, non quello delle auto, allora quasi inesistente, ma anche delle persone, per cui ci sentivamo a casa nostra anche fuori. Alle ore di punta, la nonna o una zia, ci chiamavano a tavola ed era sempre un cibo dal sapore buonissimo e da un aroma particolare, non quello di casa nostra, ma per questo più piacevole.

Di questo palazzo misterioso che avevamo davanti, non abbiamo saputo mai niente, né visto qualcuno alle finestre. Sapevamo soltanto che i Ghiotti erano gran signori e che era prudente non avvicinarsi troppo al muro per non sporcarlo.

Per entrare in casa, bisognava salire una ripida scaletta di pochi gradini che sporgevano sullo slargo, si entrava in una cucina con un gran camino e poi d’infilata due camere, la seconda con una finestra che dava su un terrazzo con belvedere: un panorama grandissimo con la vallata aperta tra le colline degradanti verso il mare, a perdita d’occhio. Per il bagno, che non era un bagno, ma una specie di bugliolo, si doveva uscire fuori ed entrare in una porta accanto, scendere alcuni gradini ed immergersi nel buio di una cantina, luogo misterioso e maleodorante, ma anche quella meta delle nostre esplorazioni e scoperte.

Ma il posto più emozionante era un antro che si apriva dietro un angolo della nostra casa, dove, attraverso una porta chiusa con una catenaccio senza chiavistello, si accedeva ad un vasto locale sotterraneo, nel quale si scendeva lungo una scala che sembrava sprofondare nel vuoto. Era stata l’abitazione di un lupo mannaro, così ci dicevano gli zii per farci spaventare – sempre per gioco – un uomo che usciva solo di notte per vagare non si sa dove e rientrare la mattina, sazio di nebbie. Una mattina, era ancora buio, rientrando ubriaco, ruzzolò per le scale e morì, il cadavere fu scoperto tempo dopo. In paese era noto con il nome di “Cucuzzone”, lo spauracchio di tutti i bambini, l’uomo nero di tutte le comunità, un povero diavolo morto di solitudine.

Perso dietro il ricordo dell’uomo-ombra, dimenticavo di parlare del laboratorio dello zio Antonio, il marito di zia Gaetana, la seconda sorella di mio padre, uno stimato artigiano del legno. La sua falegnameria era situata in una via laterale, sul lato esterno del paese, aperto sulla vallata. La stanza non era molto grande, ma abbastanza da contenere il materiale, un grande tavolo da lavoro e pochi altri attrezzi. Era un altro luogo mitico, nel quale io e mio fratello ci addentravamo con circospezione, ma senza rinunciare ad andare toccando tutto, con preoccupazione dello zio, il quale seguitava a lavorare mite e silenzioso come sempre.

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