PICCOLO HOTEL GIARDINO
In centro non è facile trovare un albergo con giardino, recintato e protetto con mura alte a difesa della privacy e della tranquillità degli ospiti. “Il Giardino” fa eccezione per la sua collocazione proprio nella parte più viva della città, con un ampio spazio intorno adibito a parco-giardino, alti alberi di tipo mediterraneo che fanno molta ombra, aiuole, fiori, panchine per riposare. Un piccolo paradiso. Venti stanze in tutto, distribuite su tre piani; al terzo c’è anche l’appartamento dei proprietari e le stanze riservate alla servitù. Al pianterreno, oltre alla hall, la sala ristorante, la cucina e i servizi. Due ascensori, uno per gli ospiti, l’altro adibito anche a montacarichi, tre stelle, cucina casalinga.
Il proprietario è un vedovo di mezza età che ha una figlia sordomuta di quattordici anni, convive con una compagna molto più giovane di lui. La ragazza frequenta la scuola alberghiera del posto, con ottimi risultati; è convinta che la sua condizione non le impedirà un giorno di poter continuare il lavoro del padre. Gli affari vanno abbastanza bene, l’albergo è quasi sempre al completo, i clienti affezionati, dopo il primo soggiorno, tornano volentieri e si sentono a proprio agio, per l’affabilità del gestore e la cortesia del personale, formato da due cameriere per il servizio in camera, due per quello ai tavoli, un cuoco, due sguatteri, un tuttofare ed un barista giovane e brillante, esperto in coctails e altre magie dietro al banco. C’è anche una comunità religiosa, di tipo new age che periodicamente occupa tutte le stanze dell’albergo per periodi che variano da pochi giorni ad alcune settimane per convegni e cerimonie che si svolgono in un salone posto sotto il livello stradale, adibito anche a taverna e Night Club. In queste occasioni l’albergo assume l’aspetto di una comunità hippy, con personaggi molto particolari che invadono tutti gli ambienti del fabbricato.
Goffredo è il nome del proprietario, Elena quello della figlia, Marta la compagna di Goffredo. Elena ha una tutor che la guida in ogni sua azione ed è l’insegnante di sostegno della scuola alberghiera, che ha preso molto a cuore il caso della ragazza affetta dalla sua disabilità e cerca in tutti i modi di far emergere le qualità notevoli di intelligenza e di carattere della giovane allieva. Per questo ha appreso il linguaggio per segni dei sordomuti ed è in grado di capire ogni piccola manifestazione della sua volontà. "In tanti anni di esercizio", si vantava Goffredo con Marta, "mai nessun incidente o fatto scabroso", nel suo albergo. Ma sentiva che prima o poi qualcosa doveva succedere. E tutto cominciò, quando meno se lo aspettava, nel mese di giugno di quell’anno funesto, con l’arrivo del gruppo dei religiosi new age, capitanati da una specie di santone che si faceva chiamare Dr. Hupper e indossava una giacca con risvolti di raso, tipo quella che portano i direttori dei circhi. Come uomo era un tipo insignificante, ma tutti dicevano che quando parlava si infervorava tanto da diventare irriconoscibile e trascinava la folla che delirava per lui. Era sempre seguito a breve distanza da una specie di guardia del corpo, che i più vicini chiamavano “il Corso”. Questi aveva occhi di falco, movenze da pantera ed un aspetto sempre guardingo, come chi temesse un agguato improvviso.
La comunità era molto cresciuta di numero e le camere non erano sufficienti ad ospitarli tutti. Per questo, un certo numero di adepti si sistemarono in giardino con tende e sacchi a pelo, in una confusione che fece allarmare non poco Goffredo e tutto il personale. Fu necessario assumere altre cameriere, un aiuto cuoco e sospendere il servizio di giardinaggio, reso impossibile dalla presenza di tutte quelle attrezzature da campeggio. Per una settimana l’albergo fu irriconoscibile, c’era un continuo viavai di gente di tutti i tipi e colori, la hall sempre affollata, i saloni tutti occupati da gruppi e gruppetti dai colori vivaci. I riti, con canti, effluvi di vapori speziati, luci e stravaganze di ogni genere si svolgevano nel locale adibito a taverna e night club, con la partecipazione di quasi tutti i convenuti. L’anno scolastico era terminato da poco ed Elena si aggirava per l’albergo, svagata, senza nulla di preciso da fare, un po’ disorientata. Il secondo giorno di quella bagarre, la ragazza, senza farsi notare, per curiosità, si affacciò nel locale della riunione e vide tutte quelle persone, vestite variamente, alcune con abiti di tipo orientale, sedute per terra, mentre un uomo, da un piedistallo improvvisato, parlava, agitandosi con tutto il corpo e disegnando strane figure con le mani. Riuscì a capire poco del discorso perché l’oratore usava termini che lei non conosceva e data la distanza dal palco, la lettura labiale le riusciva difficile. Presto si stancò di quello spettacolo e con discrezione abbandonò la sala, dirigendosi all’ascensore per salire in camera, ma vide che il pulsante era sempre rosso sulla scritta “occupato”. Attese un bel po’, poi alla fine si decise a salire per le scale. Giunta al pianerottolo del secondo piano, capì per quale motivo l’ascensore era bloccato: il corpo di un uomo era riverso per terra, metà dentro l’ascensore, metà fuori e non accennava a muoversi.
Il primo impulso fu di scappare. Poi pensò che doveva avvertire subito suo padre ed intanto si precipitò per le scale, in cerca di aiuto. Per quanto cercasse, non trovò nessuno libero al quale rivolgersi. Non sapendo cosa fare, alla fine si decise a risalire al piano e vedere se in qualche modo poteva soccorrere l’uomo disteso per terra. La sua sorpresa fu grande quando vide che il corpo dell’uomo era scomparso e l’ascensore era di nuovo libero. Sul pianale dell’ascensore, però, dalla parte dove prima era la testa dell’uomo, era rimasta una macchia rossa che pensò dovesse essere sangue, che qualcuno aveva cercato di pulire molto frettolosamente. Per essere sicura di non stare sognando, con il cellulare fece una foto della macchia, a futura memoria e tornò di sotto, in cerca del padre. Goffredo era fuori per commissioni, Marta minimizzò la cosa: “Vabbè, qualcuno è caduto nell’ascensore, ha perso del sangue, poi si è riavuto ed è andato via, cercando di pulire alla meno peggio il pavimento. Non ci vedo nulla di strano o di misterioso”. Ma Elena non era affatto convinta e nel corso della giornata, tornò a guardare sul pianerottolo del secondo piano ed esaminò l’ascensore. Ora il pianale era perfettamente pulito. Entrò nell’abitacolo e si chinò a guardare dove prima era la macchia. In quella posizione vide un uomo passare davanti alla porta, il quale si fermò a scrutarla con occhi biechi. Siccome non accennava ad andare via, si sollevò in posizione eretta e lo fissò in viso. Notò che aveva in mano una borsa. La sua bocca si muoveva e lesse sulle sue labbra “Se parli, ti ammazzo”. Con uno strattone, lo scansò dal vano della porta e corse via.
Solo a sera riuscì a parlare con suo padre e raccontargli quanto le era capitato e lui le disse per il momento di non accennare del fatto a nessuno. Il terzo giorno di quella adunata tra persone che sembravano in cerca di qualcosa tra spiritualismo e materialismo (molte coppie non facevano nulla per tenere riservate certe manifestazioni di affetto), cominciò a circolare la voce che non si riusciva a trovare il Dr. Hupper, il guru senza cui non si poteva andare avanti nello svolgimento delle cerimonie, il capo assoluto del movimento, colui che era stato il promotore, l’animatore, l’imbonitore del gruppo. Sembrava scomparso dall’albergo e non si sapeva dove fosse andato. Quello naturalmente fu un giorno di grande agitazione tra i fedeli. Tutti si chiedevano come sarebbe andata a finire quella storia, tanto più che c’era stata di mezzo una raccolta di fondi tra tutti i convenuti per la costruzione di una sede comune ove tutti potessero essere accolti e consolati, di cui non si sapeva assolutamente niente, per quanto riguardava l’entità della somma raccolta e a chi ne fosse stata affidata la custodia. La raccolta infatti si era svolta al di fuori di ogni regola, essendo stato fatto tutto in gran segreto e senza alcuna formalità, né ricevute, data l’alta finalità dell’iniziativa e la fiducia che tutti avevano nella assoluta onestà del capo spirituale del movimento. Qualcuno insinuò che forse il capo tanto onesto non era. Molti cominciarono ad avere dei dubbi: e se il “santo”, infischiandosene dei suoi stessi principi, avesse preso il malloppo e fosse fuggito? Era un’ipotesi plausibile, altrimenti perché quell’assenza e quel silenzio?
Il quarto giorno un ispettore di polizia in borghese bussò alla porta dell’ufficio di Goffredo, chiedendo l’elenco di tutti i nomi degli ospiti presenti in albergo ed in giardino, perché, disse, era stata segnalata in Questura, la possibile presenza nel gruppo di un pregiudicato che avrebbe dovuto essere individuato ed arrestato per una serie di truffe ai danni di ingenui sottoscrittori di polizze e altri titoli. Allora Goffredo accennò all’ispettore quanto le aveva narrato la figlia due giorni prima. L’ispettore disse che a questo punto era necessario procedere ad un regolare interrogatorio della ragazza in Questura e Goffredo e la figlia furono invitati a presentarsi dal commissario capo, dr. Spinaci, Vice Questore. L’interrogatorio ebbe luogo il giorno stesso, alle quattro del pomeriggio e, siccome nessuno capiva il linguaggio simbolico di Elena meglio di lei, fu invitata ad assistervi in qualità di interprete, anche l’insegnante dell’istituto alberghiero, la prof.ssa Anita Valente. Il Commissario ascoltò il racconto dalla bocca di quest’ultima che traduceva i segni che l’emozione rendeva di difficile interpretazione; da parte sua fece poche domande. “E’ in grado di descriverci l’uomo che ha visto presso l’ascensore?” chiese alla ragazza. Alla risposta affermativa della stessa, fece chiamare un esperto disegnatore e, sulla scorta di quanto da lei descritto, fu redatto un identikit del soggetto che fu inserito nella cartellina contenente una copia del verbale d’interrogatorio e pochi altri documenti, con su scritto “Denuncia contro ignoti”.
Il quinto giorno molti ospiti cominciarono a lasciare l’albergo e sorsero molte contestazioni sul conto da pagare, in quanto il patto interno tra i convenuti, prevedeva che a pagare le spese di tutta l’organizzazione fosse stato il capo del gruppo, con una parte delle somme raccolte con la sottoscrizione. In sua assenza, Goffredo pretese il pagamento da parte di ognuno. Anche le tende del giardino furono smontate e gli occupanti si dileguarono in varie direzioni.
Il sesto giorno avvenne il fatto più clamoroso. Presso una discarica a pochi chilometri dalla città fu rinvenuto dagli addetti alla manutenzione, il cadavere di un uomo di circa quaranta anni, avvolto in un lenzuolo che risultò proveniente dall’Albergo Giardino, già in stato di putrefazione, col volto irriconoscibile perché in parte rosicchiato dai topi o beccato dai gabbiani. Indosso non aveva documenti. Il morto risultò sconosciuto nella zona. Goffredo, chiamato a pronunciarsi sul riconoscimento o meno di esso, disse che sì, avrebbe potuto essere il capo dell’organismo religioso che aveva trattato con lui per l’affitto dell’albergo e che lui aveva visto solo poche volte, ma che, dato lo stato di disfacimento dei tessuti, non era in grado di affermare con assoluta certezza che fosse effettivamente lui. Lo stesso dissero alcuni appartenenti al movimento, ancora presenti nell’albergo al momento del ritrovamento del cadavere.
Restava il mistero delle somme raccolte nel primo giorno della convention. Se ne ignorava l’ammontare e la destinazione. Il commissario, prima della grande fuga di tutti gli aderenti al movimento, aveva fatto mettere alcuni osservatori nella hall dell’albergo, con in tasca una copia dell’identikit dell’unico personaggio che sembrava rilevante per lo sviluppo delle indagini, col compito di intercettare l’uomo a cui il disegno si riferiva e di condurlo in Questura per essere interrogato. Non venne fuori nulla; l’uomo sembrava volatilizzato. Nessuno diceva di conoscerlo e nella hall non passò di certo, né il primo giorno, né nei successivi. Doveva aver lasciato l’albergo prima del ritrovamento del cadavere. Ed ora chissà dove poteva trovarsi. Anche Elena era in possesso di una copia di quell’identikit e tutte le volte che guardava quel volto, le sembrava di vedere le labbra muoversi e pronunciare le parole “…ti ammazzo.” Non ne parlava con nessuno, nemmeno con suo padre, ma viveva in uno stato di terrore. Aveva sempre paura di vederselo comparire davanti da un momento all’altro e, specialmente di notte, evitava di uscire per strada. Una notte si svegliò con un urlo strozzato in gola che non sapeva come emettere: aveva visto gli occhi dell’uomo accanto al suo letto che la fissavano cattivi. La mattina, appena sveglia, decise che sarebbe andata a trovare la sua insegnante Anita, l’unica disposta a dare credito alle sue angosce e di chiedere consiglio a lei su cosa fare per liberarsi di quella ossessione. Anita fu molto comprensiva; la fece sfogare a gesti e per ogni domanda rispondeva nel suo linguaggio figurato. L’abbracciò e le disse di stare tranquilla: l’avrebbe aiutata a risolvere il suo problema in ogni modo. Per prima cosa si recarono in Questura a parlare con il commissario per sapere a che punto erano le indagini sull’omicidio del guru new age e se vi fossero notizie circa l’individuazione dell’uomo dell’identikit.
"Care signorine", esordì il commissario, "l’indagine che stiamo conducendo è a vasto raggio e prima o poi qualcosa verrà fuori. I partecipanti alla convention venivano da ogni parte d’Italia e anche dall’estero, per cui non è facile andare avanti con sicurezza. Noi però abbiamo un indizio ed è quello della segnalazione ricevuta quando l’adunata era ancora in corso. Qualcuno si era infiltrato fra gli adepti ed era molto vicino al capo. Potrebbe benissimo essere l’uomo che ha visto la signorina Elena e non dovrebbe essere lontano perché la segnalazione parlava di un uomo pericoloso, che è vissuto molto tempo all’estero, ma è di origine nostrana. Il guru assassinato era americano, ma per diffondere il suo “verbo”, aveva girato tutto il mondo. I due forse si erano conosciuti da qualche parte e potevano essere in combutta. Sembra che effettivamente il capo del movimento fosse un impostore, che sfruttava l’ingenuità delle persone che aggregava alla sua setta, sottomettendole a soprusi e costringendole a versare danaro per la causa, che poi intascava lui. L’altro, il presunto assassino, che fosse un complice del primo o che avesse capito il suo intento fraudolento, potrebbe aver agito per un dissenso sulla spartizione del bottino, o, addirittura per impossessarsi di tutto il malloppo. Prima o poi si tradirà e noi non ce lo faremo scappare".
Nel sentire che l’uomo poteva essere ancora nei dintorni, come temeva, Elena fu nuovamente presa da una forte emozione. Anita cercò di calmarla e la accompagnò in albergo, promettendole che sarebbe presto tornata per stare con lei il più a lungo possibile e proteggerla da ogni pericolo. Ma Elena non stava affatto tranquilla; ormai vedeva l’uomo dappertutto. Più tardi era ferma davanti alla porta dell’ascensore quando, dalla porta aperta con uno strattone uscì un uomo che si copriva il volto con un cappello abbassato sopra gli occhi e che sgattaiolò subito fuori, dirigendosi all’uscita. Elena ebbe un sobbalzo al cuore, perché secondo lei quell’uomo era lui, il ricercato ed era andato a trovare lei. Ora era certa di essere perseguitata. Anita si offrì di ospitarla a casa sua per qualche giorno; nel frattempo, però era necessario presidiare la hall per accertare se qualcuno cercasse di entrare senza essere notato; questo qualcuno doveva anche conoscere i connotati dell’uomo in questione. Ne parlarono con Goffredo e Marta e decisero che durante il giorno, uno di loro a turno sarebbe rimasto nella hall nel caso fosse tornato. Anita ritenne opportuno informare di ciò il commissario, il quale dispose che un agente avrebbe presidiato il locale 24 ore su 24, pronto ad intervenire in qualsiasi momento. Cominciò una lunga attesa che non portò ad alcun risultato utile.
Dopo qualche giorno, il commissario fece pubblicare sul quotidiano locale “L’Italia di mezzo”, un comunicato stampa che informava di una svolta nelle indagini sul cadavere trovato alla discarica. Annunciava che si era trovata una testimone in grado di fare rivelazioni importanti circa lo stesso e che la persona informata dei fatti sarebbe stata interrogata entro breve termine. Nel frattempo veniva tenuta nascosta sotto custodia della polizia. Era una trappola per costringere il sospettato ad uscire allo scoperto, tentando qualche azione al fine di eliminare la testimone che, così facendo, veniva esposta al rischio di fare da esca per la cattura del sospettato. Fu perciò creata una rete di protezione presso l’abitazione della professoressa, dove Elena era nascosta. A tre giorni dallo stratagemma, di notte, avvenne uno strano episodio. Un individuo fu visto avvicinarsi alla porta dell’abitazione, fare il giro della casa e tentare di entrare da una finestra aperta al primo piano. L’allarme scattò e l’uomo fu subito sopraffatto da due agenti di polizia che erano in agguato. Al subitaneo entusiasmo per la cattura, subentrò ben presto la delusione. L’uomo non rassomigliava all’identikit ed Elena confermò che non si trattava del suo persecutore. Interrogato, disse di voler solo rubare nell’appartamento e fu arrestato in attesa di accertamenti.
Intanto però al giornale trapelò la notizia che presso la casa dell’insegnante c’era un presidio permanente di polizia e la notizia si diffuse per la città. Sicuramente venne all’orecchio del pregiudicato il quale ne trasse le dovute conseguenze. Se voleva trovare la ragazza, non doveva cercarla nell’albergo, bensì in casa dell’insegnante. Di lì a poco, sempre di notte, avvenne che dalla casa presidiata fu notato un fuoco acceso a poca distanza da essa. Uno dei poliziotti uscì cautamente a vedere cosa succedesse. Nello stesso tempo, nella casa venne a mancare la luce ed il secondo poliziotto andò in cerca di un mezzo di illuminazione. In quel momento, Elena era sola nella camera che le era stata assegnata e si vide un uomo tentare di entrare dalla finestra, ma non rassomigliava a quello che aveva visto quel giorno sul pianerottolo dell’albergo. Urlare non poteva, allora prese un vaso di coccio che era su di un tavolo e lo scagliò contro la parete. Mentre la finestra si apriva, dalla porta accorse Anita richiamata dal rumore. La donna era armata di una pistola che le era stata data da uno degli agenti e non esitò a sparare contro la figura che si insinuava dalla finestra aperta, nella camera. Per fortuna non colpì nessuno, ma costrinse l’individuo a fuggire dalla stessa finestra dalla quale era entrato. Il malvivente, però, trovò i due poliziotti che, udito lo sparo, si erano precipitati verso il punto dal quale il rumore proveniva. L’uomo fu bloccato senza difficoltà e uno degli agenti telefonò subito in Questura per avvertire dell’esito positivo dell’operazione e chiedere istruzioni. Gli fu ordinato di condurre subito l’arrestato in carcere, cosa che avvenne subito dopo.
Al primo interrogatorio del GIP, il sospettato fu molto reticente, e negò di essere lui l’assassino del dr. Hubert. Ma poi, messo alle strette alla fine crollò e rese ampia confessione di tutto l’accaduto. Confermò innanzitutto l’identità del defunto, poi disse di chiamarsi Ernesto Cavaroli, detto “il Corso”, perché era stato per qualche tempo ospite delle carceri di Ajaccio e confessò di essersi infiltrato tra gli adepti del movimento al fine di avvicinare il capo e portargli via l'ingente somma di denaro che egli aveva spillato ai suoi fedeli creduloni.
"Ci vuole descrivere le modalità con le quali è avvenuto l’omicidio?", lo interruppe il Vice Questore. Cavaroli parlò:
"Non si è trattato di omicidio, è stato un incidente. Mentre tutti erano alla riunione presso il locale sotterraneo, io ho seguito Hubert che si era ritirato nella sua stanza e l’ho colto che stava facendo il suo bagaglio per andare via. Aveva molti soldi; forse un milione di euro ed io gli ho chiesto una parte in cambio del mio silenzio. In fin dei conti erano stati presi a dei creduloni ed io l'ho minacciato di parlare e di dire loro che razza di farabutto era. Ma lui ha tirato fuori una pistola e mi ha minacciato. Io sapevo che non l’avrebbe fatto e così non è stato difficile disarmarlo. A questo punto però, ha preso una bottiglia che aveva sul comodino e mi ha colpito sulla testa. Sono caduto stordito ed egli ne ha approfittato per tentare di fuggire con la borsa. Mi sono ripreso e l’ho raggiunto davanti all’ascensore, dove l’ho colpito sulla testa con il calcio della pistola. È caduto battendo la testa contro lo spigolo della porta dell’ascensore che si è aperta davanti a lui. Poi ho sentito dei passi venire dalle scale, ho preso la borsa e mi sono nascosto. Era la ragazza che poco dopo se n’è andata. Quindi ho trascinato il corpo dentro quella camera insieme alla maledetta borsa ed ho cercato di asciugare la macchia di sangue che si era formata sotto la testa di Hubert. Non sapevo che fosse morto, ma in ogni caso non è colpa mia. Egli stava correndo ed è andato a sbattere, è stato un incidente."
“La ragazza è poi tornata?” chiese il Commissario.
“Sì, ma io non l’ho vista perché ero andato a cercare un carrello per il trasporto della biancheria sporca per portare il cadavere fuori dell’albergo”.
“Se non ha visto la ragazza perché l’avrebbe minacciata?”.
“Non è vero io non ho minacciato nessuno”.
“Ed allora cosa cercava l’altra notte, in casa della professoressa Valente?”.
“Non sapevo di chi fosse la casa in cui sono entrato. Avevo bisogno di soldi e speravo di poter rubare qualcosa”.
“E i soldi della borsa?” chiese il Vice Questore.
“Quando sono tornato nella camera, la borsa era sparita” rispose. “Io comunque ho dovuto sbarazzarmi del cadavere, cosa che ho fatto servendomi del carrello”.
“Naturalmente accerteremo ogni particolare di quanto ci ha riferito. Nel frattempo lei rimane in carcere per i capi di imputazione che le saranno notificati alla fine dell’istruttoria”.
Il processo fu lungo ed il piccolo hotel Giardino fu al centro dell’attenzione di tutti i mezzi di comunicazione, con una pessima pubblicità in quanto luogo del delitto. Il Corso fu ritenuto colpevole di omicidio e condannato a dieci anni di carcere. Ma i soldi della sottoscrizione non furono mai trovati e quello che il processo non riuscì a chiarire fu il fatto che il soggetto segnalato alla Questura come pregiudicato che si sarebbe infiltrato nelle file della comunità new age, non corrispondeva affatto al condannato, per cui resta il sospetto che ci fosse un terzo uomo, oltre a Hubert ed al Corso, di cui non c'è traccia nelle carte processuali. A dieci anni dalla fine del processo, Goffredo lasciò la direzione dell’hotel nelle mani della figlia Elena che oggi dirige il Piccolo hotel Giardino con professionalità e nonostante la sua menomazione. Qualcuno dei clienti ancora le chiede di vedere il punto dove aveva trovato il cadavere dell’uomo e i più audaci anche di fare una foto ricordo. Lei detesta quel genere di curiosità macabra, però acconsente a queste richieste, nell’interesse del suo albergo, perché la sua ex insegnante, con la quale è rimasta molto legata, le ha spiegato che una cattiva pubblicità può essere meglio di nessuna pubblicità. E lei sa se il Piccolo ne ha bisogno.
Hotel abbandonato con opera d'arte pericolante (Pineto - TE, 2013) |
Il proprietario è un vedovo di mezza età che ha una figlia sordomuta di quattordici anni, convive con una compagna molto più giovane di lui. La ragazza frequenta la scuola alberghiera del posto, con ottimi risultati; è convinta che la sua condizione non le impedirà un giorno di poter continuare il lavoro del padre. Gli affari vanno abbastanza bene, l’albergo è quasi sempre al completo, i clienti affezionati, dopo il primo soggiorno, tornano volentieri e si sentono a proprio agio, per l’affabilità del gestore e la cortesia del personale, formato da due cameriere per il servizio in camera, due per quello ai tavoli, un cuoco, due sguatteri, un tuttofare ed un barista giovane e brillante, esperto in coctails e altre magie dietro al banco. C’è anche una comunità religiosa, di tipo new age che periodicamente occupa tutte le stanze dell’albergo per periodi che variano da pochi giorni ad alcune settimane per convegni e cerimonie che si svolgono in un salone posto sotto il livello stradale, adibito anche a taverna e Night Club. In queste occasioni l’albergo assume l’aspetto di una comunità hippy, con personaggi molto particolari che invadono tutti gli ambienti del fabbricato.
Goffredo è il nome del proprietario, Elena quello della figlia, Marta la compagna di Goffredo. Elena ha una tutor che la guida in ogni sua azione ed è l’insegnante di sostegno della scuola alberghiera, che ha preso molto a cuore il caso della ragazza affetta dalla sua disabilità e cerca in tutti i modi di far emergere le qualità notevoli di intelligenza e di carattere della giovane allieva. Per questo ha appreso il linguaggio per segni dei sordomuti ed è in grado di capire ogni piccola manifestazione della sua volontà. "In tanti anni di esercizio", si vantava Goffredo con Marta, "mai nessun incidente o fatto scabroso", nel suo albergo. Ma sentiva che prima o poi qualcosa doveva succedere. E tutto cominciò, quando meno se lo aspettava, nel mese di giugno di quell’anno funesto, con l’arrivo del gruppo dei religiosi new age, capitanati da una specie di santone che si faceva chiamare Dr. Hupper e indossava una giacca con risvolti di raso, tipo quella che portano i direttori dei circhi. Come uomo era un tipo insignificante, ma tutti dicevano che quando parlava si infervorava tanto da diventare irriconoscibile e trascinava la folla che delirava per lui. Era sempre seguito a breve distanza da una specie di guardia del corpo, che i più vicini chiamavano “il Corso”. Questi aveva occhi di falco, movenze da pantera ed un aspetto sempre guardingo, come chi temesse un agguato improvviso.
La comunità era molto cresciuta di numero e le camere non erano sufficienti ad ospitarli tutti. Per questo, un certo numero di adepti si sistemarono in giardino con tende e sacchi a pelo, in una confusione che fece allarmare non poco Goffredo e tutto il personale. Fu necessario assumere altre cameriere, un aiuto cuoco e sospendere il servizio di giardinaggio, reso impossibile dalla presenza di tutte quelle attrezzature da campeggio. Per una settimana l’albergo fu irriconoscibile, c’era un continuo viavai di gente di tutti i tipi e colori, la hall sempre affollata, i saloni tutti occupati da gruppi e gruppetti dai colori vivaci. I riti, con canti, effluvi di vapori speziati, luci e stravaganze di ogni genere si svolgevano nel locale adibito a taverna e night club, con la partecipazione di quasi tutti i convenuti. L’anno scolastico era terminato da poco ed Elena si aggirava per l’albergo, svagata, senza nulla di preciso da fare, un po’ disorientata. Il secondo giorno di quella bagarre, la ragazza, senza farsi notare, per curiosità, si affacciò nel locale della riunione e vide tutte quelle persone, vestite variamente, alcune con abiti di tipo orientale, sedute per terra, mentre un uomo, da un piedistallo improvvisato, parlava, agitandosi con tutto il corpo e disegnando strane figure con le mani. Riuscì a capire poco del discorso perché l’oratore usava termini che lei non conosceva e data la distanza dal palco, la lettura labiale le riusciva difficile. Presto si stancò di quello spettacolo e con discrezione abbandonò la sala, dirigendosi all’ascensore per salire in camera, ma vide che il pulsante era sempre rosso sulla scritta “occupato”. Attese un bel po’, poi alla fine si decise a salire per le scale. Giunta al pianerottolo del secondo piano, capì per quale motivo l’ascensore era bloccato: il corpo di un uomo era riverso per terra, metà dentro l’ascensore, metà fuori e non accennava a muoversi.
Il primo impulso fu di scappare. Poi pensò che doveva avvertire subito suo padre ed intanto si precipitò per le scale, in cerca di aiuto. Per quanto cercasse, non trovò nessuno libero al quale rivolgersi. Non sapendo cosa fare, alla fine si decise a risalire al piano e vedere se in qualche modo poteva soccorrere l’uomo disteso per terra. La sua sorpresa fu grande quando vide che il corpo dell’uomo era scomparso e l’ascensore era di nuovo libero. Sul pianale dell’ascensore, però, dalla parte dove prima era la testa dell’uomo, era rimasta una macchia rossa che pensò dovesse essere sangue, che qualcuno aveva cercato di pulire molto frettolosamente. Per essere sicura di non stare sognando, con il cellulare fece una foto della macchia, a futura memoria e tornò di sotto, in cerca del padre. Goffredo era fuori per commissioni, Marta minimizzò la cosa: “Vabbè, qualcuno è caduto nell’ascensore, ha perso del sangue, poi si è riavuto ed è andato via, cercando di pulire alla meno peggio il pavimento. Non ci vedo nulla di strano o di misterioso”. Ma Elena non era affatto convinta e nel corso della giornata, tornò a guardare sul pianerottolo del secondo piano ed esaminò l’ascensore. Ora il pianale era perfettamente pulito. Entrò nell’abitacolo e si chinò a guardare dove prima era la macchia. In quella posizione vide un uomo passare davanti alla porta, il quale si fermò a scrutarla con occhi biechi. Siccome non accennava ad andare via, si sollevò in posizione eretta e lo fissò in viso. Notò che aveva in mano una borsa. La sua bocca si muoveva e lesse sulle sue labbra “Se parli, ti ammazzo”. Con uno strattone, lo scansò dal vano della porta e corse via.
Solo a sera riuscì a parlare con suo padre e raccontargli quanto le era capitato e lui le disse per il momento di non accennare del fatto a nessuno. Il terzo giorno di quella adunata tra persone che sembravano in cerca di qualcosa tra spiritualismo e materialismo (molte coppie non facevano nulla per tenere riservate certe manifestazioni di affetto), cominciò a circolare la voce che non si riusciva a trovare il Dr. Hupper, il guru senza cui non si poteva andare avanti nello svolgimento delle cerimonie, il capo assoluto del movimento, colui che era stato il promotore, l’animatore, l’imbonitore del gruppo. Sembrava scomparso dall’albergo e non si sapeva dove fosse andato. Quello naturalmente fu un giorno di grande agitazione tra i fedeli. Tutti si chiedevano come sarebbe andata a finire quella storia, tanto più che c’era stata di mezzo una raccolta di fondi tra tutti i convenuti per la costruzione di una sede comune ove tutti potessero essere accolti e consolati, di cui non si sapeva assolutamente niente, per quanto riguardava l’entità della somma raccolta e a chi ne fosse stata affidata la custodia. La raccolta infatti si era svolta al di fuori di ogni regola, essendo stato fatto tutto in gran segreto e senza alcuna formalità, né ricevute, data l’alta finalità dell’iniziativa e la fiducia che tutti avevano nella assoluta onestà del capo spirituale del movimento. Qualcuno insinuò che forse il capo tanto onesto non era. Molti cominciarono ad avere dei dubbi: e se il “santo”, infischiandosene dei suoi stessi principi, avesse preso il malloppo e fosse fuggito? Era un’ipotesi plausibile, altrimenti perché quell’assenza e quel silenzio?
Il quarto giorno un ispettore di polizia in borghese bussò alla porta dell’ufficio di Goffredo, chiedendo l’elenco di tutti i nomi degli ospiti presenti in albergo ed in giardino, perché, disse, era stata segnalata in Questura, la possibile presenza nel gruppo di un pregiudicato che avrebbe dovuto essere individuato ed arrestato per una serie di truffe ai danni di ingenui sottoscrittori di polizze e altri titoli. Allora Goffredo accennò all’ispettore quanto le aveva narrato la figlia due giorni prima. L’ispettore disse che a questo punto era necessario procedere ad un regolare interrogatorio della ragazza in Questura e Goffredo e la figlia furono invitati a presentarsi dal commissario capo, dr. Spinaci, Vice Questore. L’interrogatorio ebbe luogo il giorno stesso, alle quattro del pomeriggio e, siccome nessuno capiva il linguaggio simbolico di Elena meglio di lei, fu invitata ad assistervi in qualità di interprete, anche l’insegnante dell’istituto alberghiero, la prof.ssa Anita Valente. Il Commissario ascoltò il racconto dalla bocca di quest’ultima che traduceva i segni che l’emozione rendeva di difficile interpretazione; da parte sua fece poche domande. “E’ in grado di descriverci l’uomo che ha visto presso l’ascensore?” chiese alla ragazza. Alla risposta affermativa della stessa, fece chiamare un esperto disegnatore e, sulla scorta di quanto da lei descritto, fu redatto un identikit del soggetto che fu inserito nella cartellina contenente una copia del verbale d’interrogatorio e pochi altri documenti, con su scritto “Denuncia contro ignoti”.
Il quinto giorno molti ospiti cominciarono a lasciare l’albergo e sorsero molte contestazioni sul conto da pagare, in quanto il patto interno tra i convenuti, prevedeva che a pagare le spese di tutta l’organizzazione fosse stato il capo del gruppo, con una parte delle somme raccolte con la sottoscrizione. In sua assenza, Goffredo pretese il pagamento da parte di ognuno. Anche le tende del giardino furono smontate e gli occupanti si dileguarono in varie direzioni.
Il sesto giorno avvenne il fatto più clamoroso. Presso una discarica a pochi chilometri dalla città fu rinvenuto dagli addetti alla manutenzione, il cadavere di un uomo di circa quaranta anni, avvolto in un lenzuolo che risultò proveniente dall’Albergo Giardino, già in stato di putrefazione, col volto irriconoscibile perché in parte rosicchiato dai topi o beccato dai gabbiani. Indosso non aveva documenti. Il morto risultò sconosciuto nella zona. Goffredo, chiamato a pronunciarsi sul riconoscimento o meno di esso, disse che sì, avrebbe potuto essere il capo dell’organismo religioso che aveva trattato con lui per l’affitto dell’albergo e che lui aveva visto solo poche volte, ma che, dato lo stato di disfacimento dei tessuti, non era in grado di affermare con assoluta certezza che fosse effettivamente lui. Lo stesso dissero alcuni appartenenti al movimento, ancora presenti nell’albergo al momento del ritrovamento del cadavere.
Restava il mistero delle somme raccolte nel primo giorno della convention. Se ne ignorava l’ammontare e la destinazione. Il commissario, prima della grande fuga di tutti gli aderenti al movimento, aveva fatto mettere alcuni osservatori nella hall dell’albergo, con in tasca una copia dell’identikit dell’unico personaggio che sembrava rilevante per lo sviluppo delle indagini, col compito di intercettare l’uomo a cui il disegno si riferiva e di condurlo in Questura per essere interrogato. Non venne fuori nulla; l’uomo sembrava volatilizzato. Nessuno diceva di conoscerlo e nella hall non passò di certo, né il primo giorno, né nei successivi. Doveva aver lasciato l’albergo prima del ritrovamento del cadavere. Ed ora chissà dove poteva trovarsi. Anche Elena era in possesso di una copia di quell’identikit e tutte le volte che guardava quel volto, le sembrava di vedere le labbra muoversi e pronunciare le parole “…ti ammazzo.” Non ne parlava con nessuno, nemmeno con suo padre, ma viveva in uno stato di terrore. Aveva sempre paura di vederselo comparire davanti da un momento all’altro e, specialmente di notte, evitava di uscire per strada. Una notte si svegliò con un urlo strozzato in gola che non sapeva come emettere: aveva visto gli occhi dell’uomo accanto al suo letto che la fissavano cattivi. La mattina, appena sveglia, decise che sarebbe andata a trovare la sua insegnante Anita, l’unica disposta a dare credito alle sue angosce e di chiedere consiglio a lei su cosa fare per liberarsi di quella ossessione. Anita fu molto comprensiva; la fece sfogare a gesti e per ogni domanda rispondeva nel suo linguaggio figurato. L’abbracciò e le disse di stare tranquilla: l’avrebbe aiutata a risolvere il suo problema in ogni modo. Per prima cosa si recarono in Questura a parlare con il commissario per sapere a che punto erano le indagini sull’omicidio del guru new age e se vi fossero notizie circa l’individuazione dell’uomo dell’identikit.
"Care signorine", esordì il commissario, "l’indagine che stiamo conducendo è a vasto raggio e prima o poi qualcosa verrà fuori. I partecipanti alla convention venivano da ogni parte d’Italia e anche dall’estero, per cui non è facile andare avanti con sicurezza. Noi però abbiamo un indizio ed è quello della segnalazione ricevuta quando l’adunata era ancora in corso. Qualcuno si era infiltrato fra gli adepti ed era molto vicino al capo. Potrebbe benissimo essere l’uomo che ha visto la signorina Elena e non dovrebbe essere lontano perché la segnalazione parlava di un uomo pericoloso, che è vissuto molto tempo all’estero, ma è di origine nostrana. Il guru assassinato era americano, ma per diffondere il suo “verbo”, aveva girato tutto il mondo. I due forse si erano conosciuti da qualche parte e potevano essere in combutta. Sembra che effettivamente il capo del movimento fosse un impostore, che sfruttava l’ingenuità delle persone che aggregava alla sua setta, sottomettendole a soprusi e costringendole a versare danaro per la causa, che poi intascava lui. L’altro, il presunto assassino, che fosse un complice del primo o che avesse capito il suo intento fraudolento, potrebbe aver agito per un dissenso sulla spartizione del bottino, o, addirittura per impossessarsi di tutto il malloppo. Prima o poi si tradirà e noi non ce lo faremo scappare".
Nel sentire che l’uomo poteva essere ancora nei dintorni, come temeva, Elena fu nuovamente presa da una forte emozione. Anita cercò di calmarla e la accompagnò in albergo, promettendole che sarebbe presto tornata per stare con lei il più a lungo possibile e proteggerla da ogni pericolo. Ma Elena non stava affatto tranquilla; ormai vedeva l’uomo dappertutto. Più tardi era ferma davanti alla porta dell’ascensore quando, dalla porta aperta con uno strattone uscì un uomo che si copriva il volto con un cappello abbassato sopra gli occhi e che sgattaiolò subito fuori, dirigendosi all’uscita. Elena ebbe un sobbalzo al cuore, perché secondo lei quell’uomo era lui, il ricercato ed era andato a trovare lei. Ora era certa di essere perseguitata. Anita si offrì di ospitarla a casa sua per qualche giorno; nel frattempo, però era necessario presidiare la hall per accertare se qualcuno cercasse di entrare senza essere notato; questo qualcuno doveva anche conoscere i connotati dell’uomo in questione. Ne parlarono con Goffredo e Marta e decisero che durante il giorno, uno di loro a turno sarebbe rimasto nella hall nel caso fosse tornato. Anita ritenne opportuno informare di ciò il commissario, il quale dispose che un agente avrebbe presidiato il locale 24 ore su 24, pronto ad intervenire in qualsiasi momento. Cominciò una lunga attesa che non portò ad alcun risultato utile.
Dopo qualche giorno, il commissario fece pubblicare sul quotidiano locale “L’Italia di mezzo”, un comunicato stampa che informava di una svolta nelle indagini sul cadavere trovato alla discarica. Annunciava che si era trovata una testimone in grado di fare rivelazioni importanti circa lo stesso e che la persona informata dei fatti sarebbe stata interrogata entro breve termine. Nel frattempo veniva tenuta nascosta sotto custodia della polizia. Era una trappola per costringere il sospettato ad uscire allo scoperto, tentando qualche azione al fine di eliminare la testimone che, così facendo, veniva esposta al rischio di fare da esca per la cattura del sospettato. Fu perciò creata una rete di protezione presso l’abitazione della professoressa, dove Elena era nascosta. A tre giorni dallo stratagemma, di notte, avvenne uno strano episodio. Un individuo fu visto avvicinarsi alla porta dell’abitazione, fare il giro della casa e tentare di entrare da una finestra aperta al primo piano. L’allarme scattò e l’uomo fu subito sopraffatto da due agenti di polizia che erano in agguato. Al subitaneo entusiasmo per la cattura, subentrò ben presto la delusione. L’uomo non rassomigliava all’identikit ed Elena confermò che non si trattava del suo persecutore. Interrogato, disse di voler solo rubare nell’appartamento e fu arrestato in attesa di accertamenti.
Intanto però al giornale trapelò la notizia che presso la casa dell’insegnante c’era un presidio permanente di polizia e la notizia si diffuse per la città. Sicuramente venne all’orecchio del pregiudicato il quale ne trasse le dovute conseguenze. Se voleva trovare la ragazza, non doveva cercarla nell’albergo, bensì in casa dell’insegnante. Di lì a poco, sempre di notte, avvenne che dalla casa presidiata fu notato un fuoco acceso a poca distanza da essa. Uno dei poliziotti uscì cautamente a vedere cosa succedesse. Nello stesso tempo, nella casa venne a mancare la luce ed il secondo poliziotto andò in cerca di un mezzo di illuminazione. In quel momento, Elena era sola nella camera che le era stata assegnata e si vide un uomo tentare di entrare dalla finestra, ma non rassomigliava a quello che aveva visto quel giorno sul pianerottolo dell’albergo. Urlare non poteva, allora prese un vaso di coccio che era su di un tavolo e lo scagliò contro la parete. Mentre la finestra si apriva, dalla porta accorse Anita richiamata dal rumore. La donna era armata di una pistola che le era stata data da uno degli agenti e non esitò a sparare contro la figura che si insinuava dalla finestra aperta, nella camera. Per fortuna non colpì nessuno, ma costrinse l’individuo a fuggire dalla stessa finestra dalla quale era entrato. Il malvivente, però, trovò i due poliziotti che, udito lo sparo, si erano precipitati verso il punto dal quale il rumore proveniva. L’uomo fu bloccato senza difficoltà e uno degli agenti telefonò subito in Questura per avvertire dell’esito positivo dell’operazione e chiedere istruzioni. Gli fu ordinato di condurre subito l’arrestato in carcere, cosa che avvenne subito dopo.
Al primo interrogatorio del GIP, il sospettato fu molto reticente, e negò di essere lui l’assassino del dr. Hubert. Ma poi, messo alle strette alla fine crollò e rese ampia confessione di tutto l’accaduto. Confermò innanzitutto l’identità del defunto, poi disse di chiamarsi Ernesto Cavaroli, detto “il Corso”, perché era stato per qualche tempo ospite delle carceri di Ajaccio e confessò di essersi infiltrato tra gli adepti del movimento al fine di avvicinare il capo e portargli via l'ingente somma di denaro che egli aveva spillato ai suoi fedeli creduloni.
"Ci vuole descrivere le modalità con le quali è avvenuto l’omicidio?", lo interruppe il Vice Questore. Cavaroli parlò:
"Non si è trattato di omicidio, è stato un incidente. Mentre tutti erano alla riunione presso il locale sotterraneo, io ho seguito Hubert che si era ritirato nella sua stanza e l’ho colto che stava facendo il suo bagaglio per andare via. Aveva molti soldi; forse un milione di euro ed io gli ho chiesto una parte in cambio del mio silenzio. In fin dei conti erano stati presi a dei creduloni ed io l'ho minacciato di parlare e di dire loro che razza di farabutto era. Ma lui ha tirato fuori una pistola e mi ha minacciato. Io sapevo che non l’avrebbe fatto e così non è stato difficile disarmarlo. A questo punto però, ha preso una bottiglia che aveva sul comodino e mi ha colpito sulla testa. Sono caduto stordito ed egli ne ha approfittato per tentare di fuggire con la borsa. Mi sono ripreso e l’ho raggiunto davanti all’ascensore, dove l’ho colpito sulla testa con il calcio della pistola. È caduto battendo la testa contro lo spigolo della porta dell’ascensore che si è aperta davanti a lui. Poi ho sentito dei passi venire dalle scale, ho preso la borsa e mi sono nascosto. Era la ragazza che poco dopo se n’è andata. Quindi ho trascinato il corpo dentro quella camera insieme alla maledetta borsa ed ho cercato di asciugare la macchia di sangue che si era formata sotto la testa di Hubert. Non sapevo che fosse morto, ma in ogni caso non è colpa mia. Egli stava correndo ed è andato a sbattere, è stato un incidente."
“La ragazza è poi tornata?” chiese il Commissario.
“Sì, ma io non l’ho vista perché ero andato a cercare un carrello per il trasporto della biancheria sporca per portare il cadavere fuori dell’albergo”.
“Se non ha visto la ragazza perché l’avrebbe minacciata?”.
“Non è vero io non ho minacciato nessuno”.
“Ed allora cosa cercava l’altra notte, in casa della professoressa Valente?”.
“Non sapevo di chi fosse la casa in cui sono entrato. Avevo bisogno di soldi e speravo di poter rubare qualcosa”.
“E i soldi della borsa?” chiese il Vice Questore.
“Quando sono tornato nella camera, la borsa era sparita” rispose. “Io comunque ho dovuto sbarazzarmi del cadavere, cosa che ho fatto servendomi del carrello”.
“Naturalmente accerteremo ogni particolare di quanto ci ha riferito. Nel frattempo lei rimane in carcere per i capi di imputazione che le saranno notificati alla fine dell’istruttoria”.
Il processo fu lungo ed il piccolo hotel Giardino fu al centro dell’attenzione di tutti i mezzi di comunicazione, con una pessima pubblicità in quanto luogo del delitto. Il Corso fu ritenuto colpevole di omicidio e condannato a dieci anni di carcere. Ma i soldi della sottoscrizione non furono mai trovati e quello che il processo non riuscì a chiarire fu il fatto che il soggetto segnalato alla Questura come pregiudicato che si sarebbe infiltrato nelle file della comunità new age, non corrispondeva affatto al condannato, per cui resta il sospetto che ci fosse un terzo uomo, oltre a Hubert ed al Corso, di cui non c'è traccia nelle carte processuali. A dieci anni dalla fine del processo, Goffredo lasciò la direzione dell’hotel nelle mani della figlia Elena che oggi dirige il Piccolo hotel Giardino con professionalità e nonostante la sua menomazione. Qualcuno dei clienti ancora le chiede di vedere il punto dove aveva trovato il cadavere dell’uomo e i più audaci anche di fare una foto ricordo. Lei detesta quel genere di curiosità macabra, però acconsente a queste richieste, nell’interesse del suo albergo, perché la sua ex insegnante, con la quale è rimasta molto legata, le ha spiegato che una cattiva pubblicità può essere meglio di nessuna pubblicità. E lei sa se il Piccolo ne ha bisogno.
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