PERDERSI NEL QUARTIERE

Nelle città è possibile trovare quartieri che da un anno all’altro scompaiono, case che per lunghi decenni rimangono disabitate, giardini sempre chiusi, periferie che si espandono come piovre e angoli che resistono all’attacco del tempo, rimanendo sempre uguali, luoghi dell’anima dove il vissuto non è passato, si respira ancora l’aria che si respirava quando eravamo bambini. Un vecchio bar all’incrocio di via dei Passi Perduti con via delle Botteghe Chiuse, aperto anche di notte, là tra le nebbie del ponte sul fiume. Un cinema con le poltroncine di velluto strappate. Un tempietto con il lume ancora acceso per la pietà di non si sa chi.

Ci si illude di conoscere tutto del quartiere, ma in realtà non si sa che una minima parte di quello che in esso avviene o è avvenuto. Storie sulla bocca di tutti e storie che si svolgono in modo sotterraneo, di cui nessuno sa niente. Solo frammenti, impressioni, parole rubate dal vento. Nel quartiere si entra o si sprofonda, vi sono luoghi che non sono luoghi, ma voragini, di tempo e di spazio e ci si può perdere nel quartiere come ci si perde in una foresta o tra le pagine di un libro. Si entra e non si sa dove si va a finire. Un lettore si era addentrato nei meandri di un libro enorme, labirintico, monumentale, sicuro di seguire un orientamento e ben presto si era trovato in un luogo oscuro simile ad una catacomba dove regnano solo ombre e non ne era più uscito.

Florinda Bolkan in "Metti una sera a cena" di Patroni Griffi, 1969 

C’era una casa che non credevo di ritrovare, quando sono tornato dal lungo viaggio che mi aveva tenuto lontano da quel posto per così tanto tempo, in fondo alla via, dove ero stato ad abitare per qualche tempo, per riuscire a capire come si erano svolte le vicende alle quali io ero stato presente pur senza aver visto niente, in quel periodo in cui, non avendo una occupazione stabile, avevo avuto molto tempo libero e tanta curiosità per quello che mi appariva incongruente con l’idea che avevo della vita mia e degli altri. Avevo con me un vecchio taccuino che avevo ritrovato prima di partire, tra le cose abbandonate da tempo e dimenticate; era un quadernetto sul quale avevo appuntato brevi note, osservazioni di quel tempo che mi avevano colpito per qualche motivo particolare. E tra essi ritrovai alcuni accenni relativi ad aspetti singolari di quella vicenda, per come mi si erano presentati.

La prima cosa che suscitò la mia curiosità fu che in quella casa non si faceva mai il bucato: sul terrazzo coperto c’erano ben visibili tre stenditoi, di cui uno sospeso, col saliscendi, uno mobile a terra e l’ultimo pensile da balcone, ma per tutto il tempo della mia permanenza nel quartiere, solo alcune volte avevo visto dei panni stesi ad asciugare, pochi e di scarso interesse, che però venivano lasciati sullo stenditoio per settimane intere, senza che nessuno si preoccupasse di ritirarli, quasi come se fossero stati lasciati lì per dimenticanza. La seconda fu che le finestre erano quasi sempre chiuse e gli avvolgibili abbassati, come se la casa fosse disabitata, mentre invece, la sera, ad una certa ora una luce si accendeva ad una finestra con la tapparella in parte sollevata. Alcune volte anche sul terrazzo si accendeva una luce, anche se non si vedeva mai nessuno passare o trattenervisi. In un angolo del terrazzo dimorava un grosso cane dall’aspetto pacifico, molto silenzioso.

Ma il mistero principale della casa era costituito dagli abitanti della stessa. Da principio erano quattro, poi divennero tre, poi due ed ora sembrava che fosse rimasta una sola persona, una ragazza di colore, con gli occhiali, la quale molto raramente si affacciava sul terrazzo, per spazzare velocemente il pavimento e poi spariva. Non si vedeva uscire; col cane, per esempio, come avrà fatto? Nella casa mai un rumore, mai una voce. Sembrava che chi vi abitava volesse nascondersi ad occhi ed orecchie indiscreti. Ah! Sì, la casa era stata dotata di impianto satellitare per la ricezione di spettacoli televisivi e sul terrazzo, lungo l’intera balconata era stata impiantata una rete sostenuta da paletti di ferro, che sporgeva sul bordo del davanzale di circa mezzo metro. Protezione bambini che non c’erano, o forse per impedire al cane di saltare sotto? I lavori erano stati eseguiti da un uomo, giovane ed aitante, che portava con sé un ragazzo; poi, erano andati via. Una sola volta avevo visto la donna in compagnia della ragazza di colore uscire, entrambe felici e sorridenti, salire su una macchina posteggiata dal lato opposto della strada, vicino al portone e partire velocemente. Al volante la bionda. La vettura era di media cilindrata, nuova, di un bel colore azzurro.

Dopo quella volta, la ragazza bianca, giovane, snella, di una bellezza un po’ arrogante, non l’ho più rivista, cosa per cui pensai che fosse andata via e che al momento nella casa abitasse solo la ragazza nera. La quale però non si vedeva mai. Era sempre chiusa in casa, come per un ordine superiore o per scelta monacale. Era successo solo una volta, che alle sette del mattino, aprendo una finestra di casa mia, l’ho colta sul terrazzo, nei pressi della balaustra, che fotografava qualcosa e poi, con un pizzico di civetteria, si faceva un selfie con un telefonino. Accortasi della mi presenza, si era rapidamente allontanata, rientrando in casa. La prima ipotesi fu la prostituzione. In quella casa si nascondeva qualcuno che si prostituiva. Oppure sfruttamento della prostituzione, qualcuno costringeva qualcun altro a prostituirsi. Forse con l’aggravante della minore età del soggetto costretto a vendersi. Nessun nome sul cartellino vicino al campanello e sulla cassetta della posta. L’ipotesi sembrava sempre più verosimile. Ostava però il fatto che da quella porta non si vedeva entrare o uscire nessuno. Possibile che il traffico si svolgesse tutto di notte? Ma anche in questo caso, credo che segni visibili sarebbero trapelati. Chessò, una porta lasciata aperta, motori di macchine che si spengono o si riaccendono, un insolito via vai notturno. Invece niente. Anche sugli stenditoi, da tempo non veniva più steso niente ad asciugare, come se fossero cadute le remore che in un primo tempo avevano rese necessarie quelle simulazioni. E se si fosse trattato di un caso di reclusione? Qualcuno teneva lì nascosta questa ragazza, per motivi imperscrutabili, in attesa di chissà quale destinazione? L’ipotesi non sembrava realistica, perché la ragazza in casa sembrava libera di muoversi come voleva. Libera anche di lasciare la casa e andare via. Ma non lo faceva. Rilessi un appunto sul taccuino, che mi parve illuminante, anche se al momento, quando lo scrissi, mi doveva essere sembrato come una resa. "Adesso, da lunghi giorni, non si vede più nessuno nella casa e non appaiono segni che essa sia effettivamente abitata da qualcuno. Solo, la sera una luce tenue trapela da una finestra, con l’avvolgibile sollevato a metà".

Qui finivano i miei appunti e la mia curiosità rimasta insoddisfatta non avrebbe certamente potuto trovare sfogo adesso, dopo tanto tempo e chissà quanti avvenimenti accaduti nel frattempo. Però io mi trovavo davanti a quella costruzione, non per caso, qualcosa mi aveva ricondotto in quella via, davanti a quel cancello per metà coperto dalla vegetazione di quello che un tempo era un giardino, ora una selva inestricabile. Attraversai la strada quasi di corsa, il cuore mi batteva in affanno non capivo per quale motivo. Avevo deciso che avrei provato ad entrare in quella casa. Mi guardai intorno, nessuno nelle vicinanze, spinsi il cancello che cigolò sui cardini arrugginiti ed entrai attraverso lo stretto passaggio che si era aperto, percorsi il breve vialetto e giunsi di fronte alla porta d’ingresso. Ero cosciente del fatto che quelle che a me erano apparse come particolarità di quella abitazione, in fin dei conti, non erano prove che qualcosa di anormale fosse accaduto lì, tanto più che nel quartiere sembrava che nessuno si fosse accorto di nulla. Ciononostante qualcosa mi spingeva ad andare avanti. Notai che il campanello ora recava l’indicazione di un nominativo che il tempo aveva reso quasi illeggibile. Doveva essersi trattato di un nome slavo, di difficile pronunzia. Tastai la porta e la spinsi leggermente. Sentii che cedeva e lentamente si apriva. Ancora nessuno intorno che potesse vedermi e mi introdussi furtivamente nel varco dell’ingresso. Accostai la porta dietro di me e rimasi avvolto in una penombra abbastanza spessa, non tanto tuttavia da impedirmi di vedere quello che avevo davanti. Un cortile infestato da piante rampicanti con due porte sbarrate con un lucchetto ed una scala a chiocciola che portava al piano di sopra. La scala terminava su di un ballatoio che correva lungo tutto il perimetro interno della costruzione, come nel chiostro di un convento. Ai lati, verso l’esterno, si aprivano delle porte che davano su stanze strette come celle di monaci ed una che immetteva in un ampio spazio adibito a cucina con un grande camino. Il complesso doveva essere stato ideato come convento per monaci. Un’ala della casa era stata ristrutturata ed era quella che affacciava sulla strada principale. L’aspetto era quello di un moderno appartamento strettamente collegato con il resto della costruzione, che però aveva ancora tutte le caratteristiche di un convento, abbandonato da tempo e, al momento, mezzo diroccato.

Indugiai alquanto in cucina; al centro, erano rimasti ancora un lungo tavolo grezzo e delle panche dove i monaci sedevano a consumare i loro pasti. Al lato del camino si apriva una porta che dava accesso ad uno sgabuzzino, adibito a suo tempo a rimessa della legna per il fuoco. Ora era vuoto ed ingombro di cartacce e rifiuti. In fondo allo sgabuzzino, una porticina quasi invisibile, si confondeva con la parete. Per passare bisognava chinare la testa. Si apriva su una scala che si perdeva nel buio più assoluto. Decisi che per il momento non era prudente avventurarsi, ma che sarei tornato al più presto con una lampada ed altri accessori, perché mi sembrava che lì si nascondesse il segreto di quella casa e che per scoprirlo bisognava fare ben altro tipo di esplorazione. Tornato alla luce del sole, sedetti in macchina per riflettere. Il vecchio monastero era dotato di un camminamento sotterraneo che portava chissà dove. Probabilmente si trattava di un percorso lungo e disagevole, che avrebbe potuto riservare brutte sorprese e quindi bisognava attrezzarsi di abiti e strumenti adatti.

Qualche giorno dopo, di notte, vestito con una tuta impermeabile e scarpe in gore-tex, con uno zainetto sulle spalle nel quale avevo messo attrezzature varie ed una bottiglia d’acqua ed una grossa lampada, rifeci tutto il percorso ed arrivai di fronte a quella porticina a fianco del camino, che si apriva sul nulla, pronto ad affrontare l’ignoto. Mi sembrava di essere in un altro mondo. Il Cunicolo sbucava nello stesso quartiere, ma in un punto che non conoscevo e tutto mi sembrava nuovo e innaturale. A cominciare dalla casa. Era una palazzina anonima che si confondeva con altre dello stesso stile, immersa in un giardino verde e rigoglioso, recintato da un muro alto ed un cancello. Il passaggio a fianco del camino era identico a quello dell’altra casa. E la sala sembrava ugualmente una cucina adatta ad accogliere una comunità di persone. Alcuni particolari, la disposizione dei pochi mobili, una tendina ancora appesa ad una finestra, facevano pensare ad una comunità di donne, quella casa avrebbe potuto essere la sede di un convento di monache. Mi tornarono in mente alcune nozioni di storia del monachesimo, nelle quali si diceva che questi collegamenti sotterranei fra vari luoghi ed ambienti nei quali si svolgeva una qualche attività di tipo religioso, non erano infrequenti ed erano serviti nelle varie epoche a fini diversi, tra i quali quello di assicurare una possibilità di contatto fra le varie comunità religiose, anche in periodi di grandi disordini, in cui girare per strada era molto pericoloso, specialmente per chi indossava un abito di tipo monastico. Il resto della casa non mostrava altre particolarità. In una delle celle, però, notai che, appesa alla parete c’era un foto, sbiadita che ritraeva l’immagine di un volto di donna, che per quanto con difficoltà, riconobbi, era la foto di quella ragazza nera che avevo visto nella prima casa tante volte, molto tempo prima. Nella foto appariva molto giovane e carina. Non so per quale motivo, la staccai dal muro e la misi al sicuro nel mio zaino.

"Ti interessano le foto d’epoca?", la voce del tutto inattesa, mi fece sobbalzare e mi girai dalla parte da cui proveniva. Sulla soglia della cella, un uomo, né giovane, né tanto vecchio, mi guardava con sguardo guardingo, ma non minaccioso.
"Sei forse un curioso cui piace frugare tra la polvere del passato? Sai che potrebbe essere poco igienico, vero??"
"Chi sei tu?", gli chiesi senza rispondere alle sue domande, "e da dove sei uscito?"
"Ti piacerebbe saperlo, vero? Io sono un fantasma che fa la guardia alle vecchie reliquie di un mondo che non esiste più; sono stato messo qua e questa è la mia condanna. Ma tu piuttosto dimmi chi sei e che cosa cerchi. Non è detto che non possa aiutarti."
"Conosci questa ragazza?", gli chiesi a bruciapelo, ponendogli sotto gli occhi la foto che avevo staccato dal muro.
"Suora Ines? Certo; era una delle dieci sorelle del convento e la più affezionata alla vita monastica. Ma un giorno incontrò il suo Egidio e perse la testa. Ricordi la monaca di Monza?  Ecco, lei ha fatto di peggio. Aveva scoperto questo passaggio segreto che portava alla casa abbandonata del vecchio convento dei frati cappuccini e ogni giorno lo percorreva per incontrare il suo amante. Fino a quando fu scoperta dalla madre superiora e cacciata dal convento. Ella, con l’aiuto di Egidio, si fece ristrutturare quell’ala del convento nel quale andò ad abitare, facendo vita riservata in modo da non dare nell’occhio. A tutte le esigenze della vita quotidiana pensava Egidio che le mise al fianco anche il grosso cane che svolgeva funzione di protezione e compagnia. Per anni ella ha fatto la vita della reclusa, fino a quando anche Egidio se n’è andato ed è restata sola. Povera Ines, da allora era diventata la creatura più triste del mondo, girava per il quartiere come una vagabonda e si prostituiva per poter vivere, perché era priva di qualsiasi risorsa. Ad un certo punto non se ne è saputo più niente. E’ come scomparsa, persa per le vie del quartiere, anche se a me è parso di vederla qualche volte dalle parti del convento delle suore, furtiva e smemorata come sempre, ma non sono sicuro che fosse effettivamente lei. Era una creatura dolce e sensibile che non meritava quella fine. Ma dimmi, tu perché ti interessi a lei, sei forse un suo parente? Oppure sei un investigatore incaricato di fare ricerche su di lei da suoi parenti?"

Mi guardava con sguardo appassionato: evidentemente aveva letto sul mio volto l’ansia per la storia di Ines e voleva effettivamente aiutarmi.

"Sai?, mi disse, anch’io ho sofferto per quella ragazza. E l’ho inseguita per tanto tempo. Fin da quando era suora. Io allora venivo chiamato ogni tanto dalla madre superiora a fare piccoli lavori di manutenzione o ad aggiustare qualcosa che si era rotto negli impianti del convento ed avevo perciò modo di vederla, piena di devozione, che mi sorrideva felice e fin da allora mi faceva stringere il cuore. Poi quando seppi della sua disavventura, ne provai un dolore profondo. Avrei voluto fare qualcosa per lei, ma non ho fatto mai nulla. Era diventata sfuggente e non voleva più vedermi. Una volta sola l’ho incontrata per strada e l’ho fermata: Vieni con me, le ho detto, potrai fare una vita normale: ti assisterò e farò in modo che non ti manchi niente".

Dopo un breve pausa continuò:

"Quella foto l’avevo messa io là. Questa era la sua cella da monaca. Per me era l’ultimo ricordo che avevo di lei. Ma posso farne a meno, vedo che a te serve anche più di me, puoi tenerla."

L’uomo allora sembrava più vecchio. Chissà da quanto aspettava qualcuno per raccontargli la storia di Ines che pesava sul suo cuore, nonostante il tempo trascorso. Rimase assorto, chiuso nel suo ricordo per qualche tempo, come dimentico della mia presenza, poi si riebbe con un sussulto e disse:

"Vuoi sapere altro? Ines è ancora da qualche parte qua intorno, ma non ti consiglio di cercarla: il cane che aveva portato con sé è morto e tu non la riconosceresti."

Quando uscii dal cancello, lui mi salutò con la mano:

"Torna quando vuoi chiedermi qualche altra cosa di questo convento, sono l’unico a conoscerne l’esistenza. Ines è stata una povera vittima, ma non è l’unica. Tu, piuttosto, qualunque sia il tuo scopo, stai attento a rimescolare nelle vecchie storie, specie quelle che nessuno conosce. Storie inventate, storie vere, storie incredibili. Ti potresti fare solo male. Come perdersi in un quartiere di cui credevi di essere padrone assoluto e invece eri nuovo."

Albeggiava e la città non mi sembrava la mia città. Era spettrale come il quartiere nel quale mi trovavo dove tutto mi appariva irreale. Come uscire dalle pagine di un libro di cui si era perso il filo del racconto e ci si era smarriti, disperando di riuscire un giorno a venirne fuori. Ma quello che trovavi fuori era ancora più oscuro di quello che avevi lasciato leggendo.

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