PECULIARE

Noi siamo superiori e a queste cose non ci facciamo caso; per noi "peculiare" significa "ciò che contraddistingue una persona o una cosa". Che fa parte essenziale del suo modo di essere. Peculiare dell'opera d'arte è di colpire l’immaginazione dell’osservatore. Peculiare di taluni osservatori è la profondità dello sguardo e l'acume del giudizio. Ma soprattutto peculiare è per l'uomo di legge, perseguire sempre criteri di giustizia.

Monte Cimone (MO) - 2012

Ciò che contraddistingue e quindi è peculiare, in genere è un attributo di qualità, che ha carattere positivo, gratifica la persona o rende più appetibile la cosa, ma possono esserci dei casi in cui l'attributo esprime una caratteristica negativa: peculiare dell'assassino è di tornare sul luogo del delitto.

No, perché, in effetti, all'origine, peculiare significava cosa ben diversa e riferito a persona, voleva dire che il tizio di cui si trattava aveva gli sghei. Anzi le pecore, che era la stessa cosa.

La parola viene pari pari dal latino con "peculiaris", relativo al "peculium", che era la proprietà, la sostanza o come direbbe Mastro Don Gesualdo, "la robba".

"Pecus", bestiame, più propriamente "pecora" e "pecunia", denaro, nelle civiltà arcaiche e pastorali erano la stessa cosa. Non per niente il guardiano dei formaggi prodotti dalla comunità (una specie di ammasso), che in greco era chiamato "tiranno", col passar del tempo indicò chi deteneva effettivamente il potere e ne disponeva discrezionalmente.

Quindi "peculiare" significava "chi aveva la roba", che con un piccolo scivolamento semantico, passò ad indicare "di chi era propria", a chi apparteneva la ricchezza, riuscendo alla fine a dare corpo ad un senso più svincolato dal vile denaro e più attinente alla qualità delle persone o delle cose, cioè ad individuare l'elemento, unico, essenziale, che li distingueva rispetto alla massa, che fosse una ricchezza materiale o anche una spirituale.

Bel passo avanti in una società dove si insegna che la ricchezza non fa la felicità, perché peculiare dell'uomo è la continua ricerca della felicità e sapere che si può conseguirla anche senza avere sostanze, è una consolazione non da poco.

Riflettendo sul senso profondo delle parole, vien da pensare a quanto superficialmente noi ne usiamo e di alcune facciamo un uso intensivo quanto improprio.

"Banale", per esempio, è un termine che ha scomodato teorie filosofiche e psicologiche; cos'è il banale, esiste il banale, non è forse il banale la condizione normale di tutte le cose? Per essere da noi usato molto spesso nel senso di indifferente, scontato, che non ha rilevanza. Con forte connotazione negativa. Banale, nel senso più nobile, era il commesso viaggiatore Bloom, l'Ulisse di James Joyce, che dell'Ulisse omerico ha tutto, tranne la notorietà; egli si aggira nei meandri della società senza quasi lasciare traccia, ma è intelligente, colto, sagace, ha insomma tutte le qualità per passare indifferente tra la folla senza essere notato. Banale nel senso più meschino che noi gli diamo, può quasi fare da contraltare al peculiare di cui ho detto sopra. Un uomo banale è un uomo che non ha nulla che lo contraddistingua. Ma non è detto che ciò sia un male.

Piuttosto è utile confrontare "peculiare" con "congeniale". Il secondo aggettivo viene da con-genio ed indica qualche cosa che si addice in modo particolare ad un'altra. Riferito a persona, vuol dire che è conforme all'indole di essa.

Scrivere di cose banali, che poi non sono mai del tutto banali, è congeniale, cioè è conforme al genio, di un certo tipo di scrittore.

Robert Musil, più o meno nello stesso tempo in cui Joyce scriveva l'Ulisse, ha scritto "L'uomo senza qualità", il cui protagonista, nell'assunto, avrebbe dovuto essere un esempio di banalità, mentre, mano a mano che ci si inoltra nella lettura dei corposi tre volumi che compongono l'opera, ci si accorge che questo personaggio è molto complesso e di qualità dimostra di averne non poche.

Commenti