VILLEGGIATURE

Se una cosa c'è stata nella mia infanzia di cui ora, alla mia età, possa ritenermi fortunato, è di aver avuto intorno a me persone di cui con naturalezza ho condiviso il rapporto di parentela, che mi portava ad amarle, ammirarle, per quello che erano ai miei occhi, i grandi ai quali si doveva rispetto, mentre solo dopo mi sono accorto che essi erano personaggi di una straordinaria varietà e singolarità, che hanno fatto parte della mia vita in maniera indissolubile. C'è da dire che allora, questo rapporto di parentela veniva vissuto in maniera molto diversa da oggi, in cui le famiglie sono divise ed ognuna sta per conto suo. A quel tempo, oltre ad una nonna ed una prozia, avevo nell'ambito della mia famiglia allargata, otto zie, sette zii, una moltitudine di cugini e cugine e le occasioni di vederci e stare insieme erano molto più numerose di oggi. Di ognuno di essi potrei dire quale era il lato caratteristico, perché, non scherzo, ognuno ne aveva almeno uno. Tra questi lo zio Vincenzo, maestro senza estro, marito della zia Ilda, una delle cinque sorelle di mia madre, anche lei insegnante elementare, ma con più capacità e lodevole attaccamento.

Relitto. Galway, Irlanda - 2017

L'estro di mio zio, invece erano gli affari, compravendita di terreni e case coloniche, intermediazione, conduzione di contratti di mezzadria, ecc. Erano gli ultimi anni di quel terribile decennio del '40. La guerra era finita da poco; i combattimenti cessati, ma le ferite ancora aperte. Macerie, una profonda divisione da guerra civile, odi e rancori, Democrazia Cristiana e Fronte Popolare, poi il Piano Marshall per la ricostruzione e i primi passi verso l'affermazione della giovane democrazia. Noi, da buoni borghesi, riprendemmo l'abitudine di passare le vacanze estive al mare, prendendo in affitto per un mese una casa in uno dei paesi della costa, che di solito era l'abitazione in cui vivevano gli stessi proprietari, che durante la stagione, costretti dal bisogno, se ne privavano, andando a vivere in condizioni a volte miserabili, in capanni, pur di guadagnare i soldi dell'affitto. Se la casa era abbastanza grande, le spese per l'affitto si condividevano fra più famiglie, per alleggerirne l'onere. Le mete preferite erano Giulianova o Tortoreto.

Quell'anno in cui tornammo, dopo una lunga parentesi, a rivedere il mare, i nostri genitori scelsero come luogo di villeggiatura Tortoreto, che in seguito è diventato il nostro luogo di elezione per le vacanze e la casa presa in affitto si trovava ad una certa distanza dal paese, in posizione isolata ed era un modesto casale, che i proprietari chiamavano villino, ma era abbastanza grande da contenere due famiglie, la nostra e quella di certi cugini. Nel prendere accordi con questi parenti per la condivisione della vacanza e delle spese, mia madre fece leva sul fatto che quella dove saremmo andati ad abitare, non era una semplice casa, ma un vero e proprio villino, dove saremmo stati molto comodi. A conti fatti eravamo la famiglia degli zii composta da cinque persone, più la nostra di otto, in totale tredici anime in quattro stanze che, almeno dal punto di vista dei relativi corpi, risultarono alquanto insufficienti. Noi eravamo arrivati sul posto per primi a bordo di un'auto di piazza, che si fermò di fronte al tanto vantato villino. A destra un cancello di ferro e un vialetto che portava alla costruzione in mattoni della nostra nuova dimora, a sinistra una duna di sabbia che impediva la vista del mare. Mio fratello che aveva circa 8, 9 anni, appena sceso dalla macchina, si arrampicò sulla duna, e giunto in cima ad essa, appena vide il mare, rimase abbagliato da quella visione e senza pensarci due volte, attraversò di corsa l'arenile e si immerse vestito. Naturalmente seguirono urli e grida dei miei genitori ma poi, passata l'emozione, entrammo a prendere possesso della casa.

Il posto, a noi ragazzi piacque immediatamente. Gli altri, nostra zia e i nostri cugini arrivarono poco dopo. Lo zio Vincenzo era l'unico che mancava all'appello, ma aveva fatto sapere che sarebbe arrivato nel pomeriggio, dotato di mezzo proprio. Aveva un motorino, il famoso "Cucciolo" della Guzzi e con quello girava per strade e viottoli di campagna. Aveva detto che aveva cose da sbrigare nelle vicinanze, dove se non erro possedeva un piccolo podere. Era sempre intricato in una serie di affari e quindi eravamo abituati al fatto che la sua presenza era eventuale, ma quando c'era era difficile non notarlo. Gli piaceva il vino, questo sì, ma non l'ho visto mai ubriaco, tutt'al più alticcio. Quando cominciarono a scendere la prime ombre della sera e lo zio non era ancora arrivato, i miei si cominciarono a preoccupare. La zia ancora di più. La strada non era illuminata e nemmeno asfaltata. I pericoli molti. La preoccupazione crebbe col passare delle ore, fino a raggiungere il parossismo collettivo. Anche noi ragazzi, zitti in attesa trepidante. La cena non fu allegra. Verso mezzanotte, finalmente sentimmo il rumore scoppiettante del motorino e nella poca luce che proveniva dalla casa, vedemmo lo zio arrivare a bordo del suo mezzo che sbandava paurosamente con le ruote sui ciottoli della strada. Proprio quando giunse davanti al cancello della nostra abitazione, con un ultimo sobbalzo il motorino si rovesciò per terra portando con sé lo zio in una rovinosa caduta entro una nube di polvere. Tutti col cuore sospeso, affacciati alla finestra eravamo paralizzati dallo spavento che si fosse fatto molto male. Lo sentimmo sacramentare mentre con grande sforzo si rialzava barcollando.

Era in piedi davanti a noi, potevamo vederlo abbastanza bene, coperto di polvere, il viso smunto atteggiato a grande sorpresa. Si guardava intorno meravigliato, quasi incredulo e la prima cosa che disse fu: "E questo sarebbe tutto quel grande villino???" quasi non potesse credere ai suoi occhi lo sentimmo blaterare con voce beffarda ma impastata per il vino che aveva bevuto là dove era stato a regolare i suoi conti. La tensione cadde immediatamente: lo zio era ubriaco e nel prenderne atto con disapprovazione, non potemmo che rallegrarci del fatto che fosse riuscito ad arrivare fin lì incolume.

UN TRENO NELLA NOTTE

In quella casa c'era una stanza, alla fine di un corridoio che dava sulla scalinata di accesso, quindi nel punto più distante dal "centro" della casa, dove non si sapeva per quale motivo non arrivava la corrente elettrica e quindi era priva di illuminazione. Quella divenne subito la camera dei fantasmi e nessuno di noi bambini voleva dormirci, benché vi fossero due comodi letti singoli. Non volevamo, ma ne eravamo attratti. Facevamo scommesse a chi fosse capace di rimanervi una notte intera.

Mario, di qualche anno più grande, si vantava di esserne capace, ma, per affrontare la prova, voleva che qualcuno accettasse di passare la notte in quella stanza insieme a lui e fra tutti scelse me. Io non ero punto soddisfatto di quella scelta, ma non potevo tirarmi indietro per non apparire meno coraggioso di lui. Ci preparammo quindi a passare una notte insonne per dimostrare agli altri che eravamo i più coraggiosi. In camera con la candela, chiudemmo la porta. Il silenzio già sembrava foriero di sorprese. Una volta a letto, esitavamo a spegnere la candela, ma alla fine dovemmo pur farlo. Ogni cinque minuti uno dei due chiedeva all'altro "Dormi?", per essere certo di non essere solo quando si fossero presentati i fantasmi. Tutto andò bene fin verso mezzanotte e si sa che quella è l'ora in cui con maggiore probabilità si possono verificare fatti anormali. Posi quindi tutta l'attenzione ad ogni minimo movimento. Sentivo Mario agitarsi nel letto. Dalla finestra che dava sull'aperta campagna era possibile sentire il treno tutte le volte che passava: la ferrovia era a meno di un chilometro dalla casa. Quella notte, a quell'ora, un treno cominciò a passare con uno sferragliare lungo e lamentoso, sembrava che non avesse mai fine e quando cessava, per un breve attimo, subito dopo riprendeva, a volte più lontano, a volte più vicino. Un lungo, lugubre fischio lo accompagnava di tanto in tanto. La sua cadenza monotona mi ossessionava e mi faceva cadere in una specie di deliquio incosciente che mi toglieva le forze.

"Sei sveglio, Mario, sei sveglio?", ripetetti più volte con voce alterata. Nessuna risposta. Mario si agitava e farfugliava sillabe sconnesse, senza senso. Pensai che fosse già preda dei fantasmi. Benché spaventato a morte, scesi dal mio letto e raggiunsi a tentoni il suo. Poi constatato che il suo corpo era come preso da una convulsione e che per quanto facessi scuotendolo non riuscivo a svegliarlo da quel torpore letale, barcollando raggiunsi la porta ed uscii sul corridoio. Raggiunsi il letto di mio fratello e brancolando nel buio chiesi asilo. Egli non fece tante storie. "Che succede?" chiese nel sonno e si fece da parte per ospitarmi. Il mattino successivo appresi che Mario, rimasto solo nella camera dei fantasmi, mi aveva seguito immediatamente, ma le sue sorelle non furono altrettanto contente di vederselo ficcare nel loro letto.

LA NOTTE DELLE STREGHE

Ora bisogna dire che lo zio Vincenzo aveva una vera passione per i fatti soprannaturali, che amava raccontare a noi bambini e sceglieva per farlo situazioni e luoghi idonei a fare da sfondo alle storie che improvvisava, in cui fantasmi e streghe si aggiravano indisturbati, con effetti che per noi piccoli erano veramente spaventevoli. Era quella casa vicino al mare, l'ultima della via, che lì cessava e diventava un sentiero tra le canne. Un avamposto sul nulla. Per vedere il mare bisognava salire al primo piano, altrimenti dal piano terra si vedeva soltanto la grande duna, superata la quale, si scendeva verso la spiaggia e si arrivava al mare. La sera, dopo cena, non esistendo ancora la TV e non essendoci altri svaghi, scendevamo tutti al mare e seduti sulla sabbia, formavamo un cerchio nel buio. Si parlava e si raccontavano storie.

C'era, abbandonato sulla spiaggia un vecchio barcone per la pesca, che faceva del posto un luogo privilegiato. Noi ci accampavamo sempre a ridosso di quella struttura, meta di tutte le nostre esplorazioni. Aveva uno scafo ampio con un ponte di legno ed una botola per scendere nella stiva, un albero con sartie, la prua rivolta verso terra, la poppa a mare. Di giorno l'esplorazione dell'interno non richiedeva doti di coraggio. Ma di notte era tutta un'altra cosa; il luogo appariva pieno di fascino e di mistero e solo i più arditi osavano avventurarsi oltre quel boccaporto pieno di pericoli. Ad un certo punto della notte, arrivava lo zio, come un sonnambulo per il fatto di aver bevuto abbastanza da avere un passo dondolante e si sistemava in mezzo al cerchio. Se nel frattempo avevamo acceso un fuoco, la scena, illuminata dal guizzare delle fiamme, diventava ancor più spettrale.

"Abball' cumpar' Bè ! Abball' cumpar' Bè" iniziava con voce ritmata, quasi in trance. Era l'inizio della storia del giovane zerbinotto che si reca a ballare di notte in un sito di campagna ignorando che era infestato dalle streghe, storia che lui ci aveva raccontato tante volte, ma che sempre ci prendeva e ci emozionava, specie nella parte in cui il povero giovane, appartatosi dietro un albero per un bisogno impellente, viene preso dalle streghe e costretto a ballare con i pantaloni abbassati, in un vorticoso carosello infernale.

Una volta che eravamo tutti là, ad ascoltare una delle tante storie di fantasmi che egli conosceva, attenti ad ogni rumore che si potesse avvertire alle nostra spalle, dal buio della notte, ad un tratto, sentimmo uno strepito di catene trascinate per terra che veniva dal ventre della barca, poi la botola si aprì ed un bagliore apparve entro una nuvola di fumo e qualcosa balzò fuori sul ponte e si mise a ballare una danza macabra. Un fantasma con tanto di lenzuolo bianco, due buchi all'altezza degli occhi che si agitava, urlava, cantava imprecava, creando in tutti noi uno spavento come mai avevamo provato prima di allora. Ci fu un fuggi fuggi generale, ma lo zio non si mosse. Dall'alto della duna, dove ci eravamo rifugiati, con il cancello di casa a pochi passi, vedevamo lo zio ed il fantasma - nel frattempo sceso a terra - stretti in una morsa mortale, che ballavano nella notte al lume di una sparuta candela.

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