GIUSTACUORE

Nel primo pomeriggio di un giorno di febbraio insolitamente tiepido del 1756, messier Francois-Marie Arouet, in arte e scienza Voltaire, era diretto a passo lento alla sede dell'accademia dove un gruppo di illuministi si riunivano per discutere degli argomenti da includere nella "Encyclopedie", che essi stavano compilando sotto la direzione di Denis Diderot.

Giustacuore
Indossava una giacca lunga che gli arrivava al ginocchio, stretta in vita e ben attillata, elegante ma comoda, con ampi risvolti alle maniche e decorazioni sulle tasche e sul collo. Si sentiva a suo agio e, pensando a quello che lo attendeva di lì a poco, si compiaceva di quella bella atmosfera di collaborazione che si era creata tra gli intellettuali, la maggior parte parigini e qualche straniero, riuniti intorno a quel compito grandioso di fare la prima grande opera monumentale che avrebbe dovuto raccogliere tutto il sapere del mondo. Esposto non più con gli occhi bendati da tradizionalismi, pregiudizi superstiziosi e religiosi, ma con il coraggio della ragione. Rimuginava sull'indirizzo da dare al lavoro, tema sul quale aveva avuto un diverbio con l'amico ginevrino Jean Jacques Rousseau. Le loro opinioni divergevano sul punto se farne o meno un'opera di divulgazione rivolta a tutti, o un'opera di scienza, diretta solo agli iniziati.

Per la verità i motivi di dissenso con quel figlio di orologiaio svizzero, erano diversi e vertevano proprio sulla loro comune appartenenza al movimento degli illuministi in quanto propugnatori di una pacifica rivoluzione che metteva in discussione le fondamenta stesse della attuale società con l'uscita dell'umanità dallo stato di minorità, nel quale era rimasta fino ad allora, per mancanza di coraggio intellettuale, che tutti loro denunciavano, dividendosi poi sul modo di realizzare il cambiamento.
Giunto che fu alla sala della riunione, trovò alcuni del gruppo che lo avevano preceduto.

Giustacuore di produzione sartoriale un tempo di mio padre (G.S Aielli)
Rousseau, che indossava un abito borghese, da insegnante delle elementari, vedendolo così agghindato, forse spinto dall'acredine per i recenti dissapori sorti fra loro due, esclamò in tono sarcastico "Ecco il principe dei filosofi. Non gli basta ridurre a pezzi il povero Leibniz, smontando tutte le sue teorie, ma anche nel vestire vuole dimostrare la sua superiorità".

"Caro Jean Jaques", rispose l'interpellato, leggermente seccato da quella facezia, ma ancora tranquillo,  "tu parli a vanvera, a volte mi sembra che tu sia ancora più fanciullino di quel tuo Emilio del quale mi parli sempre, intorno al quale vuoi costruire, con un libro che stai scrivendo, un nuovo modello didattico per la gioventù. Ma bando alle chiacchiere, sono qui per lavorare e non per sentire vanesie".

Diderot, posati gli occhiali sul libro che stava leggendo, sollevò lo sguardo verso gli amici contendenti e disse "Calmatevi entrambi; l'abito che indossa Jean è un giustacorpo, che gli italiani impropriamente chiamano giustacuore perché non hanno capito il senso della parola".

D'Alambert, si affacciò sulla soglia della stanza accanto, attratto dalle voci e ristette ad ammirare la giacca che portava Voltaire:

"E' arrivato Candido", disse e rivolto a tutti, "se non lo sapete, anche Voltaire sta scrivendo un libro su un giovane che chiama Candido; quando sarà pubblicato credo che ci sarà da discuterne parecchio, insieme all'Emilio prossimo venturo. Lasciatelo passare e, prego Denis, illuminaci sul tipo di giacca che porta il nostro maestro".
"Purché non sia la tonaca di un prete", interloquì il barone d'Holbach, "per me va sempre bene".

Quest'ultimo non perdeva occasione per ribadire il suo anticlericalismo accanito, sicuro della sua condizione privilegiata di aristocratico vicino al re, che lo metteva al riparo dalle insidie di una censura regale ancora prona al volere ecclesiastico, che colpiva severamente atei ed eretici. Come era successo al povero Helvetius, che per aver scritto un libro contro la religione, subito censurato, era stato messo in prigione. Diderot, rivolgendosi a tutti disse "accomodatevi" e, suonando un campanello, chiamò un cameriere che attendeva fuori della porta. "Per favore, Alberto, preparaci un buon the che berremo prima di iniziare i lavori e nel frattempo racconterò ai nostri dotti collaboratori, la storia del giustacuore".

Quello che disse Diderot in quella circostanza non ci è pervenuto. Nicolas de Condorcet, in qualità di più giovane del gruppo, aveva appena 14 anni, era incaricato di redigere un verbale delle sedute, appuntando di volta in volta gli argomenti trattati e le soluzioni date ad ogni problema. Quella sera però arrivo in ritardo, adducendo che aveva trovato un gran traffico di carrozze dalle parti della Bastiglia. Contrariato per il fatto di aver saltato la sua tazza di the (Alberto stava giusto ritirando le ultime tazze vuote degli astanti), si mise al lavoro di malavoglia e comunque, anche se avesse assistito, non avrebbe riferito della disquisizione sul giustacuore, non essendo materia di interesse della già corposa enciclopedia. Zelantemente però annotò che essendo intervenuto solo a quel punto, ignorava cosa si fosse detto prima.

E' noto che dopo quella sera Rousseau non si presentò più agli appuntamenti serali con gli altri studiosi, avendo avuto un litigio molto acceso con Voltaire, non più sul giustacuore, ma su questioni di fondo che riguardavano l'enciclopedia, come lo spazio da dare alle teorie deistiche e quello da riservare agli ateisti. Il barone d'Holbach voleva assolutamente dare preminenza alle tesi antireligiose e anticlericali, sposando le teorie ateistiche più radicali, mentre Voltaire e Diderot erano per quella che essi chiamavano una religione naturale, cioè una forma di deismo come credo universale. Quella sera, le crepe che già si erano verificate nell'unione tra i due, divennero sempre più evidenti e Rousseau abbandonò la seduta e ruppe con il gruppo. Sulla scorta dei pochi accertamenti condotti sulla rete, provo a dare una versione di quanto Diderot probabilmente disse a proposito del giustacuore, aggiornata ai tempi nostri.

Giustacuore è un nome piuttosto improbabile per un capo di vestiario, vero? Anche tenendo conto dell'epoca in cui veniva indossato, che era quella degli zerbinotti. Tutt'al più vien da pensare, se si sa che era un indumento, ad un corsetto, una fascia diaframmale, qualcosa che avesse a che fare col cuore, per vicinanza. L'epoca era quella del sei/ settecento europeo, il capo consisteva in una giacca come quella descritta sopra. Un vestito elegante, non certo come le braghe dei popolani o i calzoni a tubo di stufa dei borghesi. Il nome è frutto di un malinteso. Siccome al tempo dei romani un vestito aderente si chiamava "iuxta corpus", i francesi, dopo l'invasione dei Galli, avendo perso la purezza della lingua madre latina, adattarono quella espressione, parlando di Jiustacor(p)s, per dire appunto, di un vestito aderente al corpo. La parolina francese, giunta in Italia chissà per quali vie, fu fraintesa e letta come "Justacors" e quindi tradotta insensatamente con "giustacuore". Da qui lo strano nome di un capo che è durato nel tempo ed ha dato i natali alle nostre giacche, un tempo di produzione esclusivamente sartoriale, da tempo, dopo la fine della seconda guerra mondiale e la conseguente dipendenza dell'Europa dai gusti e costumi americani, acquistabili anche ai Grandi Magazzini.

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