IL TEMPO DEL VINO E DELLE ROSE

Ti ricordi di quando eravamo soli tu ed io a due passi dal mare e parlavamo sottovoce di cose importanti? E tu mi dicevi del cervello e delle sue capacità di farci superare i passaggi più difficili della vita, di come rapportarsi con il proprio cervello e di come un ammasso di cellule e materiale organico di dimensioni così ridotte come il cervello, possa generare la mente, che è quanto di più immateriale e vasto possa esistere? La capacità di giocare, dicevi, con il proprio cervello, dovrebbe essere una specie di nostro vademecum, un amuleto che possa proteggerci contro i nostri mali che spesso originano da noi stessi, e queste parole per me erano un toccasana, un filtro, una pozione magica, buona contro ogni male.

Eri la mia ispiratrice ed io adoravo la tua voce, i tuoi occhi, il tuo sorriso, le labbra dolcissime che sapevano pronunciare parole così confortevoli. Io prigioniero del mio "soma", il corpo che ci condiziona, tu libera e felice, dispiegavi la tua non fragile femminilità e le prerogative ad essa connesse, come Diana cacciatrice, gelosa del suo stato, che con uno sguardo trasformò in cervo l'incauto curioso che dietro la siepe la vide nuda mentre faceva il bagno nel lago. Ispiravi fiducia, forza e coraggio.

So poco di te; vieni dalla Siberia, conosci i rigori del Lago Baikal, i boschi parlanti del Kazakistan, i venti della steppa e della tundra, il silenzio inviolato dei grandi spazi e i "tepidi lavacri" del Mar Nero. Apparivi nel sole dell'estate come una maga benefica. Emanavi un'empatia tale che chiunque ti si avvicinasse era soggiogato dalla tua presenza magnanima e non poteva che ammirare la tua libertà di pensiero e indipendenza di azione. Ero totalmente incantato da te e so che ti amo come i poeti amano le muse, col cuore, con la mente, con la magia delle parole. L'estate, la nostra estate, anche se protratta all'infinito, è stata breve.

Tu hai continuato a solcare il mare, ormai deserto, guardando la riva dal largo, io sono tornato alle mie occupazioni di sempre in attesa del cupo inverno, che detesto. E' vero quanto afferma il poeta inglese Ernest Dowson, appartenente a quella genia di poeti maledetti, decadenti, della seconda metà dell'ottocento: i giorni del vino e delle rose non durano a lungo. "They are not long – The days of wine and roses", dicono i versi di quest'uomo mite, amico sfortunato dell'altrettanto infelice scrittore irlandese Oscar Wilde, entrambi distrutti da una passione impossibile e morti quasi in contemporanea, alla fine di un periodo storico, quello vittoriano che aveva segnato con le sue rigide restrizioni di tipo ipocritamente moralistico, il destino di molti grandi (Oscar Wilde morì a seguito delle sofferenze infertegli a seguito della condanna a vari anni di lavori forzati, per l'accusa di omosessualità, che ne minarono le capacità fisiche ed intellettuali).

Dowson era malato di tubercolosi e si autodistrusse con l'abuso di alcool. Lo portarono a tanto, oltre alle numerose disgrazie familiari, l'amore platonico, struggente come una fissazione, per una ragazza, quasi bambina, Adelaide, dapprima irraggiungibile perché troppo giovane, poi andata sposa ad un sarto, evento che lo fece cadere in uno stato di depressione che segnò il resto della sua breve vita. Lei che lo aveva rifiutato, era per il poeta il simbolo della bellezza assoluta e della gioventù che presto sarebbe svanita. La delusione del rifiuto, fece naufragare il sogno di amore che, rimasto insoddisfatto, lo portò alla disperazione. Il vino e le rose rappresentano il periodo della vita in cui tutto appare sublime, ma sono beni voluttuari che durano poco, il vino dona l'ebrezza del momento, ma ad essa segue lo smarrimento della fase successiva, le rose incantano con il loro aspetto e il loro profumo, riempiono i nostri sensi di un piacere immenso, che si esaurisce nell'arco di poco tempo.

Cosa rimane della bella giovinezza? E della passione d'amore? Niente più che un bicchiere vuoto e petali di rosa appassiti, che cadono tristemente dallo stelo:

Nel chiuso del
Tuo giardino
Crescono erbe selvagge e nessuno vi
Troverà
Un solo, petalo ramingo dell'ultima rosa
Dell'anno

avverte ancora il cantore con animo esacerbato.

Il pensiero si avvolge su se stesso:

All day mine hunger for her heart became
Oblivion, untilthe evening came

(Tutto il giorno il mio desiderio per il suo cuore è diventato
Oblio, fino a quando è scesa la sera).

L'ultimo rifugio è l'oblio, la dimenticanza.

L'oblio è il linimento che placa le ansie del cuore, l'approdo ultimo finale, come le bianche scogliere di Dover o il mare dell'infinito del nostro poeta più caro.

https://youtu.be/vkQvfIsLQmY

Commenti