PATETICO
Patetico, da “pathos”, sofferenza, è ciò che suscita
sentimenti di malinconia o pietà, a seconda dei casi, per un evento che ha
prodotto un dolore intenso.
Però la stessa espressione può indicare, anche, un
atteggiamento di eccessivo sentimentalismo, mollezza piagnucolosa, non per
un’intima sofferenza, ma per affettazione.
Si può essere patetici, senza peraltro scadere nel patetico.
Il cantautore Roberto Vecchioni, ha scritto che per
esorcizzare il dolore della perdita di persone care egli adotta un espediente
consistente nel fatto di estrarre dal passato un episodio felice vissuto
insieme agli amici scomparsi e scrivere, costringendo così gli scomparsi ad
essere presenti accanto a lui come fossero ancora in vita per tutto il tempo
della scrittura.
Lo stesso inoltre parlando della perdita di un suo figlio
morto in giovane età, ha affermato che egli non solo lo vede, suo figlio, ma parla con lui.
Questo è molto patetico e vorrei dire straziante, non è
nemmeno come per altri, pensare che lo scomparso sia ancora presente, ma in
un’altra stanza o dimensione, qui c’è una presenza vera che incide sulla carne
ed il pathos assume toni da tragedia greca.
Altre persone hanno parlato di un’esperienza simile, in
quanto sembra che, quello che non dovrebbe mai accadere, e cioè che un genitore
debba piangere la scomparsa di un figlio, avvenga invece con una certa
frequenza.
Il giornalista teramano Marcello Martelli, in occasione
della ricorrenza della festa dei papà, recentemente ha pubblicato uno scritto
in memoria di un suo figlio morto giovane, coniugando la gioia della festa con
il dolore che la stessa può acuire nel caso in cui chi dovrebbe festeggiarla
non ci sia più.
Appartengo anch’io al novero dei padri che hanno perso un
figlio e, per il mio Giuseppe Simone, primogenito morto all’età di 57 anni,
provo un dolore che col passar del tempo diventa sempre più consapevole.
Consapevole della mia pochezza e dei miei errori, della ineluttabilità
e irrimediabilità dell’evento funesto e della vastità del guasto arrecato dalla
perdita, con un mondo intero che è andato via con lui, sommerso tra le pieghe
del tempo.
Ho una foto di lui sul mio tavolo ed ogni giorno, guardandola, lo saluto, come facevamo
quando egli era vivo, e gli rivolgo parole affettuose trattenendo per quanto
possibile il pianto.
Mi mancano il suo sorriso ironico, forse addirittura sanamente
irridente, che mi rimanda la foto, i suoi pensieri che in varie, dense
conversazioni fra noi due, egli mi ha diffusamente espresso, il suo folgorante intuito
nel modo di interpretare gli accadimenti del presente ormai passato, l’ampiezza
dei suoi interessi e l’amore mai professato ma nutrito nell’animo.
In varie occasioni ho avuto modo di sentire, in TV o sui
social, qualcuno affermare a proposito di sopravvivenza, un tema che è sempre
più di attualità, che anche senza fede è possibile conservare la speranza che
un giorno sarà possibile incontrare di nuovo i nostri cari scomparsi.
Qualcuno fra i non credenti arriva a dire: non ho le prove,
ma sono convinto che esiste l’aldilà.
Naturalmente sarebbe molto bello se così fosse e nutrire la
speranza può aiutare a sopportare il dolore, anche se razionalmente la cosa
sembra oltremodo improbabile.
Darei qualunque cosa per tornare a godere della presenza di
mio figlio e potergli dire tutte quelle cose che potendo non gli ho detto
quando il tempo era maturo.
Non importa se il mio atteggiamento dettato dal mio stato d’animo,
possa apparire patetico in una o tutte le accezioni che questo termine bello e fuorviante
può assumere.
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