EREDITA' DI AFFETTI
“All’ombra dei cipressi e dentro l’urna confortata dal
pianto, è forse il sonno della morte men duro?”.
Certo che no! Il
sonno della morte è sempre lo stesso: nulla cambia per il defunto, che il suo
cadavere riposi in una tomba, (faraonica, o solo un tumulo con una lapide), o
che sia bruciato e le ceneri sparse al vento.
Non così per chi resta, a cui spetta il compito di dare una
sistemazione a quello che rimane della persona scomparsa, o come esecuzione di
una volontà espressa dall’interessato prima di morire, o, in assenza di un
pronunciamento dello stesso, di propria iniziativa.
E, sotto questo riguardo, a seconda del tempo e dei luoghi,
in base alle diverse civiltà dei popoli della Terra, varie sono state le
risposte a questa esigenza, adottando criteri che possono essere rivolti o a
conservare il più a lungo possibile gli “amabili resti”, come il ricorso all’imbalsamazione
dei cadaveri, o la costruzione di sepolcri, monumenti, mausolei ad “eterno
ricordo”, oppure in alternativa alla
consunzione delle salme, per mezzo della cremazione e la successiva dispersione
delle ceneri nell’ambiente, perché nulla rimanga della parte fisica della
persona scomparsa, ma resti solo il ricordo.
Ma questo, appunto, è problema dei vivi, i quali, per sé,
possono scegliere che destinazione dare al proprio corpo una volta cessata la
vita.
“Sol chi non lascia eredità d’affetti, poca gioia ha
dell’urna”. Questo verso sembra contraddire il precedente, nel senso che se è
vero che non può esservi consolazione per il defunto nel fatto che il suo
cadavere riposi in un sepolcro, perché questo dovrebbe valere solo per chi non
ha nessuno che vada a piangere su di esso?
In realtà il verso ha un senso ben preciso, solo chi non ha
lasciato affetti, può non avere alcun vantaggio (gioia) nel fatto di avere o
non avere un sepolcro; per tutti gli altri e sono la maggioranza, è vero il contrario
e cioè che il pensiero che qualcuno vada a dolersi sulla sua tomba è motivo di
consolazione per chi muore e ciò è nel
senso della tradizione lunghissima che vedeva nel culto dei morti una somma di
valori ritenuti universali.
Oggi come oggi questo tipo di sensibilità non sembra più
tanto corrispondente al moderno modo di intendere il rapporto dei vivi con i predecessori.
L’esistenza di un luogo fisico, dove recarsi per mettersi
idealmente in contatto con chi non c’è più, non sembra più necessario e sempre
più persone scelgono la cremazione del proprio corpo con la dispersione delle
ceneri, indipendentemente da quanto sia grande l’eredità di affetti che lascia.
Il discorso è strettamente legato al tema della
sopravvivenza ed a quello della immortalità, che, almeno idealmente si
distingue dall’eternità.
L’immortalità non è quella dei credenti, la sopravvivenza in
eterno, ma quella connessa alla condizione transeunte dell’umano, legata o al
ricordo di quelli che ci hanno voluto bene e questa dura fino a quando dura la
generazione nella quale siamo vissuti, o alle opere degli uomini, sia quelle
rappresentate dal lascito di chi muore, morale, come insegnamento, o materiale,
quando c’è, ma anche e soprattutto le opere di quelli che restano, sotto forma
di azioni che mirano alla permanenza della persona scomparsa, affidata a
qualcosa di tangibile, come monumenti, statue, sepolcri e, in generale alle
opere d’arte, letteratura e in sommo grado, la poesia, tutte protese a cantare
le lodi del defunto ed in grado di dare immortalità mediante la sublimazione dei sentimenti e queste possono durare più a
lungo, ma certo non per sempre, essendo, tutto quello che l’uomo fa, destinato
a perire, come periscono tutte le cose di questa Terra, nonché lo stesso
pianeta, la cui fine è certa quanto al fatto che si verificherà, anche se è incerta
l’epoca in cui avverrà.
Lo spunto, il motivo occasionale per il carme foscoliano sui
sepolcri fu l’estensione anche all’Italia di un editto napoleonico che imponeva
che le sepolture avvenissero lontano dai luoghi abitati, al di fuori delle mura
cittadine e che fossero tutte uguali.
Intorno a questo provvedimento si levò un acceso dibattito perché
si ritenne che fosse in contrasto con la tradizione del culto dei morti, molto
sentita fin dal tempo dei Lari romani, i quali erano gli spiriti degli antenati
le cui statuette erano conservate in casa, a protezione dei vivi. Una specie di
divinità domestiche.
Nella scelta di non lasciare traccia di sé, vi è forse,
oltre ad una espressione di modestia mista ad una punta di civetteria per
l’ostentazione di una supposta pochezza della propria persona (Pirandello
chiese che il suo corpo fosse cremato e le ceneri disperse, perché nulla
rimanesse di sé, neanche il ricordo), anche e soprattutto un senso di riguardo
verso chi rimane in vita, svincolando la coscienza di chi soffre, da inutili e
superate forme di ossequio formale, ma forte della certezza che comunque il
sentimento che lega una persona alle altre è la cosa che rimane intatta ed è
importante più di ogni altra cosa.
“Celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi”, si legge
nello stesso carme e possiamo aggiungere che essa non viene meno per la
mancanza di un sepolcro, un simulacro, essendo insita nello spirito dell’uomo e
qui forse è contenuto tutto il senso di immortalità concepibile, non potendoci
noi mai confrontare con l’eterno ma solo con il tempo che ci è dato.
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