EMPATIA E SENSIBILITA'
Caro Lucio, tutte le volte che debbo rivolgermi a te, sono
in imbarazzo, perché quello che tu dici mi sollecita molte idee e temo che le
mie osservazioni, non critiche, potrebbero ferirti, sapendoti molto sensibile; esprimere
un parere su qualcosa fatta da un altro (“competitor”) non è mai cosa facile,
si rischia sempre di sbagliare: se si dice troppo, si finisce coll’essere
ipercritici, magari per motivi poco nobili (autocelebrazione); se si dice poco,
si è reticenti e allora, dio solo sa cosa si può nascondere dietro quelle
parole non dette.
Premetto che il termine “empatia” non riscuote le mie “simpatie”
e già dal bisticcio di parole volutamente formato, dovrebbe apparire chiaro il
motivo. Esso è un termine coniato da non so quanto tempo, ma comunque entrato
nel lessico comune di recente e sembra arte-fatto, allo scopo di soppiantare il
più comune “simpatia”, coprendone interamente il significato con l’aggiunta di
qualche sfumatura che, data la fumosità del primo, non sembra né essenziale, né
utile.
Bisogna partire da “pathos”, che in greco vuol dire
“sofferenza” sia fisica che spirituale. Da questa parola derivano sia la
patologia, come studio delle malattie, che la “passione”, dolore, che come
patimento fisico, è rimasto quasi solo ad indicare la passione di Cristo, ma
come tormento spirituale, ci introduce nella sfera molto ampia di quella che chiamiamo
“la vita affettiva” in cui amore e sofferenza si mescolano talvolta in forma
inestricabile.
“Affetto” viene da latino “ad” più “ficere”, con il
significato di “fare qualcosa per”. Come
aggettivo, equivale ad “onusto”, “carico” (affetto da un male), come sostantivo
la sua carica semantica si espande nel campo delle relazioni, coinvolgendo l’ambito
dei sentimenti perché “sentire” è anche “soffrire”, la cui massima espressione
si trova nell’affetto materno.
È nella vasta gamma dei sentimenti che la simpatia e l’empatia
trovano spazio esprimendo vari gradi di affettività, percepiti variamente, a
seconda dei diversi gradi di sensibilità in possesso di ciascun individuo.
“Simpatia” viene da “syn” che significa “con” e “pathos”,
sentimento; “empatia” deriva da “en” col valore di “dentro” e “pathos” col medesimo
significato; per cui la simpatia è un’affezione che si condivide “con”
qualcuno, mentre l’empatia, sarebbe l’affezione che si prova per qualcuno, al
punto da farla propria e portarla “dentro” di sé.
La mia prima impressione tratta dalla lettura del tuo
recente scritto su questo tema, è che c’è tanta roba dentro, messa insieme un
po’ confusamente, ma nel complesso mi sembra che la tua intenzione e le tue
intuizioni vadano nel verso giusto e siano da apprezzare.
Non si capisce bene quale sia l’oggetto principale delle tue
osservazioni: mi sembra di capire che si tratti di un discorso generale sui due
termini, dai quali fai discendere che secondo te esse sarebbero la fonte del
nostro estro artistico, il che mi sembra un po’ eccessivo.
L’empatia e la sensibilità sono cose diverse; entrambe ci
parlano del tenero che è in noi; ma l’empatia è un sentimento, la sensibilità è
invece il modo in cui percepiamo i sentimenti, è il metro per misurare se siamo
più o meno aperti a ricevere o suscitare stimoli sensoriali.
Semplificando e banalizzando si potrebbe dire che l’empatia
è il mezzo, la sensibilità il modo di percepire le cose.
Non vedo il rapporto tra il binomio da te usato e la creazione
di un’opera d’arte (dubito che motori della Commedia siano state l’empatia e la
sensibilità di Dante, posto che Dante le abbia mai avute). Perché secondo te
non potrei, senza essere empatico, suonare il violino come faceva Paganini ed
eseguire, per dire, “il trillo del diavolo”?
Anche l’amore sarebbe un portato dell’empatia e della
sensibilità. Ma l’amore è soprattutto passione, furore, anche calma e dolcezza,
ma l’empatia dove la vedi?
Al massimo potremmo dire che la nostra vocazione artistica e
le nostre pulsioni d’amore siano qualità, anzi doti della nostra umanità, tra
le quali sono da annoverare senz’altro anche l’empatia e la sensibilità al pari
di tutti gli altri sentimenti attraverso i quali si esprime la nostra
personalità.
Nel gioco della vita, che tu dici non è un gioco ma
un’avventura (l’avventura non è anch’essa un gioco?), l’empatia sembra scomparire,
per dare luogo ad un’affermazione del tutto contraria: si esce dalla sfera dell’affettività
che aveva caratterizzato la prima parte e si entra in quella dello sconforto: “fuori
di qui nessuno ti ama”, come ti disse quel tale, ma tu difendi con le unghie e
coi denti la tua interiorità, comprese immagino le due sopra lodate campionesse
d’incasso (perdonami l’ironia spontanea, ma bonaria di un amico), esortando comunque
tutti a combattere contro le avversità, anche se ci confessi, amaramente, che
tu a 78 anni ti senti molto fragile, vaso di coccio tra vasi di ferro, ma ti
sei formata una nicchia (una botte?) nella quale vivi come Diogene, accontentandoti
di poco.
Più si è “sensibili”, più si soffre, più si è deboli, essendo
più facilmente esposti agli stimoli “sentimentali”, che fanno più ricca la
personalità dell’agente, ma inducono anche tenerezza, non sempre una dote.
Difendere strenuamente (anche quando non appare minacciata
da alcuno) la propria interiorità, equivale a conservare e coltivare la propria
debolezza, perché l’eccesso di “sensibilità” può portare alla mollezza e
all’abbandono.
Sì, ma il succo di tutto il discorso qual è?
Non prendermi per quel maledetto pignolo che sono, ma le mie
notazioni vanno sempre nell’ottica di una crescita. Tu ed io siamo come bambini
che si divertono a giocare con le parole.
Sperando di non aver urtato la tua suscettibilità, ti saluto fraternamente.
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