ALLA FONTI DEL FACETO

 

                                 

                                                           

Riassumiamo: Faceto vuol dire “brillante nel parlare”. Argomenti almeno in parte seri, affrontati con sana allegria. Che danno gioia, gaiezza rilevabile già dal volto illuminato del parlante.

L’origine  di questa parola, che proviene dal latino “facetus”, è incerta, i linguisti in genere, la fanno discendere da lemmi come “facies”, che vuol dire “faccia” (dal greco phai-nos, mostro, manifesto), intendendo il faceto come colui sulla cui faccia si legge l’umore con cui parla, o “facere”, dando prevalenza al concetto di “fare”, nel senso di introdurre una nota di piacevolezza nel discorso, ma non ho trovato alcuno che accenni al verbo latino for-faris-fatus sum- fari, che vuol dire appunto “parlare”, con l’aggiunta di una certa solennità, come pure “profetare”, che proviene dallo stesso verbo (pro-fatus, pre-dire).

PROFETARE, PROFERIRE.

Apriamo una parentesi: Con il profeta bisogna introdurre un altro concetto, quello del sacro.

Fatum è “il detto”, la Profezia, quindi anche il Fato. Con il fatum si accompagna il fanum, che è cosa molto diversa, il luogo sacro, il Tempio.

Fatum, il detto e Fanum, il Tempio, si fronteggiano. Il detto che sta nel Tempio e il detto che è fuori del tempio.

Tutto ciò che è nel recinto del Tempio, è sacro e può essere toccato solo dagli addetti, ogni intrusione non autorizzata costituisce una profanazione, una offesa alla sacralità.

Il profano è il senza Dio, che sta fuori del fanum, cioè il tempio, è estraneo all’ambito religioso.

Chiusa la parentesi, torniamo al Faceto dal quale siamo partiti.

Io sono un profano (in questo caso col significato di “incompetente” di questa materia), ma a me sembra che il verbo “fari”, sia il più pertinente per individuare l’origine della parola “faceto”, perché se è vero che il faceto è uno che parla in modo scherzoso e l’essere elegante, arguto, è un attributo del parlare smaliziato, la funzione principale che viene esercitata da chi vuole esprimere il proprio pensiero è appunto il parlare.

Dal “fari” latino discendono molte parole importanti dal punto di vista dell’esprimersi e del raccontare, come la “fabula”, l’eterna favola, che con la favella (cioè la facoltà di narrare  -  il bene e il male - mirabilmente miniaturizzati nel detto latino “fanda et nefanda”), l’uomo ha sempre narrato se stesso.

“piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude”

(Gabriele D’Annunzio, La Pioggia nel Pineto)

 Dal fari discendono anche la “facondia”, che è la capacità di parlare molto e appropriatamente. Il  facondo  è chi è dotato di un eloquio ampio e articolato; la “facezia” e, la “fandonia”, che è  una frottola, cosa narrata per millanteria, affermare una cosa non vera, ecc.

Non dimentichiamo che la stessa parola “faceto” può essere usata in senso dispregiativo, intendendo per essa, un paroliere senza idee che sproloquia annoiando gli ascoltatori. Ma in questo caso si tratta di una distorsione del senso originario, da non accogliere.

 

Pancrazio finì di leggere dal diario di Maurizio e rimase con gli occhi sgranati nel vuoto, il mento proteso in avanti; Santi Numi! Esclamò - espressione che aveva sentito dal Maestro - questo è un genio!

Macché, lo controbatté Sebastiano, è stato qui ieri sera ed ha copiato tutto il tempo da internet; alla fine si pure incazzato, perché si era incasinato e non ci capiva più niente, ha scaraventato a terra il diario e se n’è andato senza pagare il conto e senza salutare.

Cazzo! Fu la conclusione salomonica di Pancrazio.  

 

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