L'APPUNTAMENTO

 

                                                                    

                                                                

                                                                

Ero arrivato a quella panchina stanchissimo e mi ero buttato a sedere quasi in stato di incoscienza. Avevo camminato nella nebbia per molto tempo e non ricordavo più nemmeno il motivo per cui avevo scelto quella strada, ma ora mi trovavo lì ed attendevo.

La panchina sulla quale ero seduto era collocata al centro di un bivio, dal quale si dipartivano i due rami della strada che a quel punto si biforcava, uno a destra e l’altro a sinistra.

Il paesaggio intorno era deserto e sembrava irreale, come fosse addormentato in un lungo sonno.

Ad un tratto qualcosa si animò: da sinistra giunse una corriera, materializzandosi da dietro un’ansa della via e si fermò a poca distanza dalla panchina. Aveva i vetri dei finestrini appannati da un denso strato di condensa che consentiva di intravedere appena, all’interno di essi, vaghe figure allineate, senza volto. Si aprì la portiera e qualcuno scese. La corriera ripartì imboccando a destra.

Il passeggero che apparve, attraverso la nuvola di polvere e fumo che si lasciò dietro, aveva una valigetta ai piedi, che raccolse, guardandosi intorno per orientarsi, poi si avviò lentamente verso di me.

Aveva un cappello di feltro alquanto stropicciato e una giacca lisa, con le tasche appesantite dall’uso e, forse, da carte, chiavi o altro che contenevano. Il viso pallido, smunto, la barba non rasata di fresco. Tutto sommato, un aspetto dimesso, ma dignitoso.

Sedette ad un’estremità della panchina, senza guardarmi e chiese: la corriera da Est è già passata?

Aveva un che di familiare, ma non sembrava conoscermi.

Io, invece, lo riconobbi subito: papà, sei tu?

Mi guardò con molto interesse, cercando i segni ben noti di quando io avevo 23 anni e lui cinquantasette e, con qualche fatica, gli sembrò di riconoscerli e il suo volto si aprì in un incerto sorriso: Bruno, vero? Mi chiese.

Sono io, gli risposi e feci per abbracciarlo, ma lui mi fermò; sono qui per un appuntamento. Non ho molto tempo. Mi ha detto di chiamarsi come me e di avere la mia stessa età, niente altro, dovrebbe arrivare tra poco. Non so chi sia. Deve essere nuovo di qui, non so come faccia a conoscermi.

Infatti non ti conosce, gli dissi, sono stato io a parlargli di te ed ora ti ha chiamato perché vuole conoscerti, è tuo nipote Giuseppe, mio figlio. 

In quella, con un rumore stridente di pneumatici sul brecciolino dell’asfalto, si annunciò l’arrivo di un’altra corriera, da destra, questa volta, che, non rallentò nemmeno davanti alla panchina e proseguì la corsa fin oltre la prima curva della strada di sinistra, dove dovette fermarsi e, dentro la nuvola di polvere che aveva lasciato dietro di sè, apparve la figura di un uomo che di dirigeva verso di noi. Gioviale e giovanile all’aspetto, con fare sicuro si avvicinò a me e, indicando con il mento l’altro, è lui, vero? mi chiese.

Sì, è lui, risposi e. indicando con un gesto della mano l’uomo che era seduto accanto a me, ti presento tuo nonno Giuseppe, il mio caro babbo.

A questo punto, mi resi conto di essere arrivato a quello strano appuntamento, spinto da una forza misteriosa, io ottantasettenne, con mio padre e mio figlio che ne avevano appena cinquantasette e mi sentii in colpa per questo. Ero l’unico vecchio, ancora vivo, al centro di una discendenza, i cui due capi, ascendente e discendente, non lo erano.

Ero io il convitato di pietra, con la piena coscienza di quanto io dovessi all’uno e all’altro.

Giuseppe, figlio carissimo, perdonami per non essere stato il padre che tu avresti voluto. Solo ora questo mi è chiaro, senza rancori, perché ho finalmente capito. Tu volavi molto più alto di me, che mi sono sempre fermato terra-terra, credendo di spaziare. Tu avevi certezze che io non ho, tu cercavi un padre in altri modelli di fermezza intellettuale e di carattere.

Ti ho visto nella bara, per videochiamata, perché non sono stato in grado di venire a Bologna, dove la tua salma (che brutta parola, vero?), era composta, nell’obitorio del Sant’Orsola ed ho capito che tutto era finito; volevo darti un ultimo saluto e dirti nell’intimo, quello che non ti avevo detto in vita, quando il tumulto dell’essere ci assordava le orecchie e ci impediva di sentirci e comprenderci, mentre ora, è palese, perché la vita è così, solo troppo tardi si comprende ciò che conta.

Non credo di essere più lo stesso uomo.

Da mio padre ho appreso molto. Soprattutto la mitezza e la dolcezza, dissi, guardando a lui. 

Cominciai a crescere dopo la sua morte, che avvenne quando lui aveva solo 57 anni e io 23 (la maggiore età, allora, si conseguiva a 21 anni), ho fatto il mio percorso fino all’età attuale di 87 anni, con miei convincimenti che sono ora tutti da rivedere, avendo io scoperto che, molte altre cose dovevo apprendere da te che, con una strana coincidenza, sei andato via a soli 57 anni, come mio padre mentre tuo figlio ne ha quasi venti, come ero io all’epoca.

Da te ho appreso soprattutto la saldezza delle idee e la poliedricità dell’ingegno.

Per tutto il tempo della tua infanzia, siamo stati molto legati. Mi amavi moltissimo e in certo qual senso, mi avevi mitizzato, nel Pantheon della tua mente come un eroe imbattibile, con una stima di me che superava di gran lunga la realtà, fin quando ti ho deluso ed hai scoperto tutte le mie debolezze ed io troppo tardi ho compreso che la tua contrapposizione era per eccesso di amore e non per difetto, perché io nella pratica, non corrispondevo al modello ideale che ti eri formato. 

Ciò avvenne a seguito di quel maledetto episodio al quale io detti poca importanza, mentre invece fu tale da determinare una svolta: avevo invitato degli amici per ascoltare musica e tu, pieno di entusiasmo, eri tra noi, pretendendo di richiamare tutta l’attenzione su di te, con un fare così vivace, da impedirci l’ascolto, così ti pregai di uscire dalla stanza e lasciarci soli a sentir musica.

“Ah Bruno! – era scritto con calligrafia infantile, sul foglio che mi facesti recapitare facendolo passare sotto la porta – da quando sono venuti gli altri, te lo sei tolto un amico.”

Con il mio comportamento stupido e superficiale, ho determinato, allora e poi, in prosieguo, per molto tempo, il tuo destino di separazione, ho tradito le tue aspettative ed ora non mi aspetto che tu venga a dirmi che non è vero, che nel rapporto affettivo, si è sempre in due a sbagliare, che non mi debbo sentire in colpa, tanto non servirebbe.

Sono stato per te un cattivo padre, non ho saputo interpretare i tuoi turbamenti, aiutarti quando ne avevi bisogno ed ora è troppo tardi per rimediare, porterò con me il rimorso di non avere mai avuto il coraggio di ammettere che valevi più di me e da te avrei dovuto apprendere il mestiere di vivere e il mestiere di padre, senza il velo di false idee preconcette. Tu maestro di vita.

Mi guardasti  con un sorriso ironico e nel tuo sguardo limpido e sereno, lessi la consapevolezza, la comprensione, il superamento, di chi è al di sopra di certe cose; dolcemente mi accarezzasti, con la mano, il dorso della mia, che reggeva il bastone; poi cambiando atteggiamento e, rivolgendoti a mio padre, che lì accanto osservava silenzioso la scena, in tono fatuo, Che piacere conoscerti, dicesti - e indicando me – lui mi ha molto parlato di te e detto cose molto belle di quando eri giovane e vivevi a Città Sant’Angelo e poi gli anni di gavetta che hai fatto come maestro elementare a Gesso Palena, insieme a tua sorella Gina, infine la carriera come Direttore Didattico a Teramo, dove eri amato e stimato da tutti.

Tuo figlio, continuò, è stato un buon padre, non credere a quello che sta dicendo ora, in preda all’emozione.

E tu sei mio nipote Giuseppe, che io non ho avuto la possibilità di conoscere, caro figlio del mio caro figlio.

Anche io ho avuto da lui – di nuovo il cenno della mano indicava verso di me – tue notizie e so molte cose belle e onorevoli sulla tua persona. Il tuo amore per le cose belle: i libri, la musica, la passione per la fotografia, la legatoria, la liuteria, ecc.

I due uomini erano uno di fronte all’altro e si guardavano con interesse, l’uno ancora seduto, l’altro in piedi: come colmare il vuoto che era tra loro?

Lui, mio figlio, distogliendo lo sguardo, posò una mano sulla spalla dell’altro; tu ed io abbiamo molte cose da dirci, disse in tono colloquiale e, molto amichevolmente, lo prese sotto un braccio e lo aiutò ad alzarsi dalla panchina; sebbene entrambi 57ennni, il primo appariva più prestante del secondo, che sembrava alquanto debilitato.

Andiamo, gli disse, le cose di cui dobbiamo parlare è meglio che non vengano ascoltate da orecchie mortali e allungò uno sguardo in tralice verso di me che ero ancora seduto. Lasciamolo un po’ qui, da solo, il nostro buon vecchio, figlio tuo e padre mio, a meditare sulle sorti del mondo dei vivi. Le nostre cose, ormai sono al di sopra di ogni cosa terrena.

E si avviarono, fianco a fianco, verso l’unica strada che avevano davanti, in quanto la biforcazione non era più lì, senza curarsi della mia presenza. Quando furono abbastanza lontani, notai per la prima volta che poco distante c’era una limousine, tutta nera ad attenderli e, giunti che furono ad un dipresso da essa, vidi gli sportelli della macchina aprirsi e i due salire a bordo, uno a destra e l’altro a sinistra e subito dopo chiudersi e la macchina avviarsi silenziosamente, dissolvendosi nel nulla.

“Ho vissuto benissimo perché ho sempre fatto quello che volevo per cui non vi preoccupate per me” ha lasciato scritto mio figlio, come un testamento morale, un lascito prezioso.

Può sembrare un’affermazione pretenziosa, o addirittura arrogante, ma, invece, no, è semplicemente diretta, come era lui, Giuseppe Simone; c’è in essa la consapevolezza di essere stato padrone della propria vita; vivere nel pieno senso della parola e non essere vissuti. Una vita condotta all’insegna della libertà di pensiero e della indipendenza dagli eventi e dalle influenze esterne. Una vita da Uomo.

E di questo noi tutti possiamo essere orgogliosi.


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