E DELLE PARCHE IL CANTO
Nella vita accadono cose alle quali si pensa di non poter
sopravvivere e invece si sopravvive, anche se mutilati di una parte di noi
stessi.
È capitato ad un amico di Maurizio, perdere un figlio in età
giovanile, disgrazia per la quale nessun conforto è possibile per il genitore,
il quale percepiva la sua esistenza, come fatto naturale, ed ora, invece si
trova di fronte ad un vuoto incolmabile, e sente che, ciò che è stato tolto è
una parte di se stesso.
Su tutto ciò che ci sovrasta, si leva il canto delle Parche,
pensava un po’ enfaticamente Maurizio, quella mattina, dopo una notte insonne passata
a meditare su questo tema e fu con queste parole, che, in apertura di seduta,
si presentò, visibilmente emozionato, ad un pubblico insolitamente attento,
partecipe della sua commozione.
Ah! A me non mi frega niente, si levò la voce di Pancrazio,
io al parco non ci vado mai, e tutti lo guardarono meravigliati e sgomenti per
la disapprovazione: dice sul serio? o, come al solito, ci prende per i
fondelli, facendo il finto tondo per sdrammatizzare?
Sì, perché le Parche cantano, continuò il maestro, fulminandolo
con uno sguardo; la verità, più guru che
maestro, questa volta, non intendeva farsi distrarre dal concetto che voleva
esprimere.
Cantano sommessamente, mentre assolvono al loro compito di
tessitrici della vita degli uomini, eppure il loro canto passa sopra ogni cosa.
Cloto, la prima, che tesse il filo della vita di ognuno,
Làchesi, la seconda, che lo svolge, determinando ogni aspetto di essa, compresa
la durata e Atropo, la terza, la più temibile, perché dotata delle forbici con
le quali taglia inesorabilmente ogni filo giunto alla scadenza.
Che siano vecchie streghe, come vogliono molti, malevoli,
per giunta, o allegre giovinette, che lievemente ci accompagnano in ogni passo
della nostra esistenza, con indifferenza, o con amore, scegliete voi, l’effetto
che la loro presenza provoca, è sempre lo stesso: diciamocelo pure, il loro è
un canto che non vorremmo mai sentire, è troppo legato alla nostra più intima
natura, mentre celebra la nascita, parla già di morte.
Le tre Parche, o le Moire, come le chiamavano i greci, sono
anche dette “Fatae”, termine che deriva da “Fatum”, che vuol dire destino. Nel
Foro romano erano rappresentate con un gruppo marmoreo di tre statue, intitolate
“Tria fata”.
Che bello! Disse Silvana; le Fate! perché non ci parli delle
Fate? Propose.
Sì, perché no? Raccontaci una bella favola, commentò
sarcastico Pancrazio, così il sonno è sicuro.
Dopo un attimo di esitazione, Maurizio accettò la sfida; in
fin dei conti, pensava, un modo per attutire il dolore poteva essere rifugiarsi
nel seno delle piccole cose e piccole erano le cose che venivano trattate al
Circolo, per cui iniziò:
le fate di cui tu vuoi sentir parlare sono creature fantastiche
che vivono in un loro mondo, che è quello delle favole, mentre le fatae dei
romani, non sono le stesse dei fratelli Grimm, o altri autori famosi, pur
traendo probabilmente il loro nome dalla stessa radice semantica di fatum e,
come vedete, ancora una volta siamo di fronte al fato, al destino.
La “fabula” latina prende il nome dal verbo far-faris-fari,
che vuol dire “dire, parlare, raccontare” ed è quest’ultimo significato che ci
interessa: le favole sono racconti di fatti immaginari, personaggi fantastici,
come animali che parlano ed altre visioni straordinarie.
Le Fate delle favole sono creature fantastiche, cioè frutto
della fantasia, che animano storie e leggende della mitologia popolare di molti
Paesi e le loro imprese sono irreali, intrise di soluzioni immaginifiche,
magiche, rivolte in genere a fare del bene agli uomini ed anche a renderli
migliori. Non manca qualche Fata cattiva, che allora prende il nome di Strega,
ma, in genere esse si spendono per cambiare in meglio il destino dei loro protetti.
Un esempio importante è quello della Fata dai capelli Turchini, che segue come
una mamma le vicende di Pinocchio, aiutandolo in tutte le traversie che egli
incontra lungo il percorso che deve affrontare per riuscire a trasformarsi da
burattino in un vero bambino in carne ed ossa. O la Fata di cenerentola, capace
di trasformare una zucca in carrozza.
Tra favola e fiaba esiste una certa differenza: “La favola è
di regola scritta da un autore, ha per protagonisti animali e alla fine
contiene una morale con la quale si vuole insegnare un comportamento o
condannare un vizio umano. La fiaba invece ha origini popolari antichissime,
risale addirittura alla preistoria, e non ha una morale. E quando ha un autore
è perché c'è stato uno scrittore che se l'è fatta raccontare e poi l'ha
trascritta, ma il creatore della fiaba rimarrà sempre ignoto” (Treccani per
ragazzi).
Inoltre le fiabe non sono fandonie, cioè non sono bugie,
cose false, ma vere nella loro irrealtà.
Momento di pausa e di riflessione estasiata da parte degli
ascoltatori. Poi, all’improvviso:
A Colleminuccio, irruppe di nuovo la voce di Pancrazio, c’è
una fattucchiera, che per la verità fa la parrucchiera, ma siccome è comunista,
il prete la chiama così. È anche lei, una di quelle?
Maurizio, come faceva sempre, non fece buon viso alla
sortita di Pancrazio, ma, nello stesso tempo, ne ammise la congruità:
Qui entriamo in un altro campo, quello della stregoneria: col
termine di fattucchiera, si intende una donna che è dedita alle arti magiche,
alle malie, di solito un’imbrogliona, rispose quindi. L’etimologia della parola
è incerta; sembra probabile la sua derivazione da “fatuculus” latino, che è un
derivato di “Fatum”, col significato di “incantesimo”, fatto miracoloso, da cui
viene anche “fattura”, che è il rituale magico attraverso il quale, si procura
l’effetto desiderato, ricorrendo alla magia, al sortilegio, alla stregoneria.
Ma torniamo al punto di partenza: le Parche, le Fate, le
Maghe, o fattucchiere, tutto ruota intorno al destino imperscrutabile degli
uomini, prodigo o crudele che sia, sul quale aleggia il canto indifferente
delle Parche. È questo il concetto che più mi appassiona e sul quale vorrei che
anche voi rifletteste. Siamo ad un punto cruciale di tutte le cose che ci
accadono: la vita e la morte sono strettamente collegate ed inscindibili, un
uomo muore dopo aver compiuto una vita lunga oltre cento anni, magari senza
aver nulla da raccontare, o solo ricordare; un altro muore in età giovanile ed
aveva invece molte cose da dire o da fare: perché?
Questa è un’ingiustizia, obiettò Sebastiano. Vedi, gli
rispose Maurizio, il concetto di giustizia o ingiustizia, vale solo per le
azioni che compiamo noi uomini, non nei confronti degli eventi sui quali il
nostro volere non ha alcun potere. Di fronte ad essi possiamo solo inchinarci
ed ammettere che è la sorte, padrona del campo e noi possiamo solo accettare,
con gioia o con dolore, a seconda dei casi, gli effetti che essi producono.
Quello che noi cerchiamo di esorcizzare, continuò poi,
rivolto a tutto l’uditorio, con il canto delle Moire, è la paura della morte,
l’ansia che abbiamo, inestinguibile, di conoscere ciò che sarà per noi e ciò
che è già stato per tutti quelli che ci hanno preceduto, di forare quel muro
che ci separa da coloro il cui destino si è compiuto ed è ormai “factum”, dal
verbo “facere”, fare, fatto compiuto ed immodificabile.
Silenzio greve e pensoso. Non si sentiva volare una mosca.
Ad un tratto:
Come le fatture, urlò quasi Pancrazio, quelle dei vari professionisti
e fornitori e non quelle innocue delle
streghe, di cui ci ha parlato il Capo, le fatture, con le quali i creditori ci
chiedono di corrispondere il conto delle parcelle per le prestazioni erogate e
beni acquistati.
Quelle sì, inesorabili alla scadenza.
Il dolore è il tema di questa nostra conversazione, il
dolore inestinguibile per una perdita che rimarrà per sempre incolmabile, una
ferita destinata a rimanere aperta per tutto il tempo restante della vita di un
uomo.
La fantasia è un placebo. Con essa ci possiamo illudere di
vincere il dolore, ma l’effetto è solo momentaneo.
Io con la fantasia, mi ci lucido le scarpe quando sto in
campagna, tanto sono sporche, disse sibillinamente Pancrazio, ma nessuno ebbe
voglia di indagare cosa avesse voluto dire.
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