L'OBLIO DELLE PAROLE

 

                                                                       

Alcune parole cadono in oblio e vengono dimenticate. Il linguaggio è una cosa viva, diceva Maurizio dinnanzi ai suoi pochissimi fedeli seguaci, in quell’ultimo giorno dell’anno; si forma, cresce, si implementa sempre più di nuovi termini ed altri ne perde per strada, come avviene per tutte le cose vive e poi muore, scompare poco alla volta.

Come le civiltà che nascono, fioriscono e scompaiono con un lento processo di trasmigrazione che finora, sul nostro pianeta, si è svolto da oriente verso occidente e come le egemonie delle forze che le accompagnano,  per le quali, oggi, assistiamo ad una  tendenza inversa, di spostarne il centro di gravità dall’occidente, verso oriente.

L’oblio è la dimenticanza, l’abbandono, l’assopimento della memoria, la fase finale, il destino ultimo di tutte le cose del mondo. Già la parola, piena di fascino, ne rivela la venatura di nostalgia, accompagnata da infinita dolcezza e ne descrive la gravità ed ineluttabilità.  

Alcuni, poi, ogni tanto, vanno a caccia di cose dimenticate, per trarle fuori dalla polvere del tempo e farle rivivere. Ma è come una rianimazione senza vita.

Nel campo delle parole, di recente, è stato riesumato il termine “inulto”, che vuol dire impunito, non vendicato, con la sua bella etimologia dal latino, “in” che sta per “non” e “ultus” participio di “ulciscor” punisco, vendico, con un ulteriore ampliamento del senso in proteggo, difendo o, copro.

Ma si tratta di un termine letterario, usato solo dai poeti, nel linguaggio comune suonerebbe ridicolo e i poeti, si sa cambiano modo di parlare a seconda del tempo, l’epoca in cui scrivono e il linguaggio corrente. Inutile riproporre adesso un termine del genere.   

È uno sforzo inane, altro aggettivo in odore di svanimento, che vuol dire appunto inutile, vano (morirò inulto e il mio sacrificio sarà stato inane).

Io mi ricordo, intervenne pensoso Pancrazio, che mio zio Anselmo, uomo burbero ma non privo di un’ironia a volte pungente, chiamava “mangiacazzottini” gli avari, i quali, per non far cadere le briciole dal panino che stavano addentando, lo tenevano con entrambe le mani, a pugno chiuso.

Più tardi ho appreso che il “cazzotto” è un tipo di pane, oltre che un pugno ben assestato e financo una qualità d tabacco, se non erro, da masticare ed ho capito il senso di quello che lui diceva.

“Cazzotto” è anche un termine da dimenticare, lasciare scivolare nell’oblio? Ma derivando questa parola inequivocabilmente dal pene e non dal pane, che fine farebbe anche il cazzo?  

Dato il silenzio glaciale che seguì alle sue parole, nonostante il caldo anomalo di questa stagione, si girò a guardare i suoi compagni: erano tutti girati da un’altra parte, qualcuno accennò fischiando imbarazzato, un motivetto di moda.

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