L'ACCANIMENTO
Io lo so, proruppe Pancrazio, in tono lamentoso e risentito,
che c’è un accanimento da parte vostra, verso di me! Perché io ho il difetto di
parlare chiaro. E poi non appartengo alla vostra famiglia di letterati e
diplomati delle scuole alte; io ho fatto solo i primi due anni delle medie ed
in terza sono stato bocciato per un cinque in condotta. Ma non me ne pento: la
vita mi ha insegnato molte cose che a scuola non si fanno e non si imparano.
Sono un autodidattico e me ne vanto.
Non sono, mugugnò dopo una breve interruzione durante la
quale, passò in rassegna gli sguardi assenti dei presenti, come Sebastiano, che
ha preso il diploma con la media del sei e mezzo ed ora fa il barista; né come
Maurizio, scusa Maestro, che non so con quante lauree in tasca, viene qui da
noi a farci le sue lezioncine sul significato delle parole.
Ma ho il senso della comunità, della famiglia patrialcale,
come piace a me, un uomo, una donna, dei figli e poi nonni, zii, parenti e
amici, tutti insieme in un unico complesso di vita e comunanza.
Sei ingiusto, Pancrazio, insorse Silvana, cessando
l’acciottolio delle tazze e dei bicchieri nel lavello ed asciugandosi le mani
nel grembiule: qui nessuno ti vuole male, anzi noi tutti ti vogliamo bene e
vogliamo che tu perseveri nel tuo modo di interagire, che è molto utile e
produttivo, vero Maurizio? Chiese rivolta al Maestro.
Senza dubbio, rispose
il Capo e, anzi, giacché ci siamo, vogliamo parlare un po’ della parola
“accanimento”, tirata in ballo proprio dal nostro caro Pancrazio?
Certo! Raccolse al balzo la palla Oreste, sempre un po’
compresso nella sua dimensione di sapiente in seconda e l’ansia di emergere,
viene da “cane”, si affettò a dire subito, prima che lo dicesse Maurizio e
l’accanimento è il tipico, ostinato baccano che fa il cane di fronte agli
sconosciuti.
Ben detto, confermò il Maestro, il cane, che è il più fedele
amico dell’uomo, è molto affezionato al suo padrone, alla sua casa e alla sua
famiglia e vede in ogni cosa estranea, che non conosce un potenziale pericolo
per essi e si slancia con furore anche contro i fantasmi, fino a quando il
padrone non lo richiama, ma sempre pronto a riprendere l’assalto non appena
qualcosa si muova e lo insospettisca.
Perciò si dice “accanimento”, cioè fare come il cane,
avercela contro qualcuno o qualcosa, con furia cieca ed ostinata, spesso
immotivata.
L’accanimento è una lotta, una guerra che si fa a testa
bassa, senza badare ai mezzi usati, per motivi di odio, livore, rancore, o
anche per amore, quando le “accortezze” superano il livello di guardia e
diventano moleste, come nel caso della gelosia patologica.
In senso figurato, poi, la parola accanimento acquista un
significato più ampio e generico di sforzo perseverante, tendente al
raggiungimento di un obiettivo, sia esso positivo, come lo “studio pazzo e
disperatissimo” dell’Alfieri, o l’ambizione tardiva di conseguire un titolo
accademico in tarda età, che negativo, che si riscontra in varie ipotesi di
illecito uso delle proprie competenze in danno di altri soggetti invisi, come
può essere l’accanimento giudiziario, che si concretizza nei casi di
procedimenti a catena, promossi senza ragione, accanimento militare, nei
confronti di certe reclute ritenute renitenti, o scolastico, verso studenti
troppo indomiti, ecc. in questo campo la casistica può allargarsi a tutte le infinite
possibilità che si danno, di situazioni in cui si trovano ad agire soggetti,
diciamo così incubi, nei confronti di malcapitati succubi.
Ah Maurì, mo’ mi pare che stai un pochino esagerando,
insinuò sommessamente il povero Pancrazio, io non avevo intenzione di…sollevare
un polverone su queste cose brutte…
Non ho ancora finito, lo incalzò Maurizio, debbo ancora
accennare ad un particolare tipo di accanimento, quello c.d. “terapeutico”, di
cui si parla di questi tempi sempre più spesso, per la sua importanza sociale
che implica la necessità di regolare la materia con apposita legge.
Questa fattispecie, si verifica quando le buone intenzioni dettate
da una regola, ritenuta preminente su ogni altra, come nel campo medico, quella
derivante dal c.d. “giuramento di Ippocrate”, secondo il quale è dovere del medico
operare per quanto in suo potere a favore della vita del paziente, raggiungono
un punto di non ritorno, il che avviene quando un malato terminale viene tenuto
in vita con le macchine, pure nei casi in cui si ha la certezza che comunque
sia, egli non potrà assolutamente guarire.
In questi casi, le
cure protratte oltre un limite ragionevole, possono condurre ad esiti
indesiderati, tali da portare ad un risultato opposto, come quello di
prolungare le sofferenze del degente, rispetto a quello auspicato di una
impossibile guarigione ed ecco la necessità di intervenire legislativamente per
mitigare il danno con esse arrecato.
Maurizio tacque e guardò pacatamente i suoi allievi,
soffermandosi sul volto perplesso di Pancrazio, in cerca di una conclusione al
discorso da lui stesso cominciato.
Ancora una volta debbo registrare, iniziò a dire l’innominato,
che qui si opera contro di me: ho parlato di accanimento, ma non avevo mai
pensato ad incubi, né di essere come un cane che abbaia di notte alla luna,
sotto una lampada oscillante, ai margini di un casolare sperduto.
Forse hai scordato, gli suggerì Chiara che era nascosta in
un angolo buio del locale, che tu sei un personaggio in cerca d’autore, come
noi tutti qui e che la nostra famiglia è la comunità più ampia e stravagante
che si possa immaginare, dove ognuno è arbitro del proprio destino e tu ci
rappresenti in pieno, in ogni momento ed in ogni aspetto del nostro essere ed
operare, quindi, vai glorioso ed orgoglioso di tanto onore.
Credete che Pancrazio abbia recepito il senso della
raccomandazione di Chiara, condivisa dai presenti mediante un muto e mutuo
consenso?
Alzatemi la paga e abbassatemi il titolo, diceva mio nonno. Nei
fatti si vede quello che uno è: dell’onore che mi fate a parole, sapete che me
ne faccio? E fece un gesto incomprensibile; e sappiate che io non sarò mai
succubo, semmai incubo, capito, Maurì? E si alzò per andarsene.
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