IL SEMAFORO

 

                                                               

Dalla finestra della camerata, al Centro di riabilitazione di Bolognano, dove ero ricoverato, vedevo stendersi un’ampia vallata ai piedi di una collina, là in fondo, che si ergeva dolcemente verso l’alto, disegnando l’orizzonte contro un cielo quasi sempre mutevole.

Sul fianco di questa collina, correva una strada in salita che portava non so dove, poco frequentata, con un semaforo posto a metà circa del percorso, in prossimità di una curva di cui vedevo solo l’inizio.

Nelle lunghe ore di attesa, a letto, o seduto in carrozzina, il mio sguardo indugiava volentieri su quella immagine serena di paesaggio, che induceva tranquillità e donava allo spirito, un balsamo alle sofferenze del corpo.

Questo spettacolo, di una naturalità essenziale, contrapposta alla condizione di artificiosità del luogo di cura, a me sembrava bellissimo nella sua fissità: quella che avevo davanti era una meta vicina, ma raggiungibile solo col pensiero, che comunque cercava di appropriarsene.

Verso sera, la collina si animava delle luci provenienti delle varie abitazioni sparse  qua e là sul territorio, lontane l’una dall’altra e si accendeva anche la luce alternante, verde, giallo, rosso, del semaforo, che di giorno non si distingueva.

Era quel semaforo, con le prime ombre, ad attirare la mia attenzione, suscitando in me un acuto senso di nostalgia. Non sembrava posto là per uno svincolo viario, non si vedeva alcun incrocio, ma forse serviva ad indicare la necessità di un passaggio alternato dei mezzi di locomozione, come misura precauzionale, perché probabilmente la strada era troppo stretta.

Ogni tanto un’auto saliva lungo la strada, sventagliando con i fari lungo il percorso e si fermava davanti al semaforo rosso; l’attesa era piuttosto lunga; a me sembrava che il rosso avesse, rispetto agli altri colori, una durata maggiore. Guardavo fissamente le luci degli stop dell’auto e pensavo. Forse qualcuno tornava a casa dopo il lavoro ed aspettava paziente il suo turno. Chi sa cosa aveva per la testa: la cena, la famiglia, oppure la solitudine del singolo. Il calore, oppure l’indifferenza, il piacere, o la noia, in conclusione, la vita, che per lui o per lei, era la routine, la conclusione di ogni giorno.

Mi sarebbe piaciuto immedesimarmi in quella persona seduta, lì, al volante di quell’auto in attesa del verde per poter passare, oppure esserle accanto, come un navigatore occulto, per osservarne l’espressione e indovinare quali pensieri in quel momento si agitassero realmente nella sua mente.

Magari soltanto le pantofole e il telegiornale.   

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