CATTEDRE

 

                                                                             

Caro Pancrazio, oggi vorrei parlare di cattedre.

È giusto, interloquì Pancrazio, si sono riaperte le scuole e anche la nostra ha una cattedra.

Penso che adesso siamo maturi per argomenti di un certo spessore.

‘Mbè, la nostra è una piccola cattedra e non potrà mai essere tanto spessa.

Mi leggi nel pensiero, ma tu, dimmi, che ricordi hai della cattedra?

A Colleminuccio avevamo una cattedra tutta rotta, col pannello davanti asportato, che a me piaceva tanto.

A parte questo, altri ricordi?


Ecco, ho nitida la scena di quando la maestra faceva il giro d’ispezione dell’aula, intorno ai banchi, sui quali eravamo appollaiati i alunni e magari ci coglieva indaffarati a cancellare sul quaderno una macchia di inchiostro con la manica del grembiule (all’epoca non c’erano le bic, ma solo pennini e calamai), faceva qualche correzione, e, se del caso, dava qualche scappellotto, poi, finalmente, saliva sulla pedana e sedeva in cattedra. Quello era un momento magico, di relax.

La cattedra, riprese Maurizio, era il posto dal quale la maestra impartiva le lezioni; un mobile, una scrivania, montata su una pedana, fornita di una sedia. 

Si ma era anche il simbolo dell’autorità, del giudizio. Davanti ad essa, venivamo esaminati, chiamati ad uscire fuori dal gruppo e qualificarci, era un punto di divisione ma anche di comunione.

Più tardi abbiamo appreso che, da oggetto materiale, la cattedra si era trasformata in concetto, non più il tavolo dal quale partivano gli insegnamenti, ma gli insegnamenti stessi (la cattedra di filosofia, di storia, ecc.), fino a diventare il simbolo del supremo magistero, per esempio del Papa, che quando parla in materia di religione, è infallibile.

E così arriviamo a quelli che parlano “ex Cathedra”, che sono come  fautori di sentenze, affermazioni che piovono dall’alto, che non si possono discutere. Un po’ come le soluzioni delle rappresentazioni teatrali classiche, affidate all’intervento di una divinità, che compariva sulla scena “ex machina”, per mezzo di un marchingegno che la faceva scendere dall’alto.

Ci sono due modi di parlare ex cathedra, uno è quello della persona competente, ed autorevole, l’altro è quello di chi assume atteggiamenti presuntuosi e saccenti, per i quali si prova ripulsa e si è trovata l’espressione impropria di “montare in cattedra”, come dire autopromuoversi ad un ruolo che non gli appartiene. Con questo ci si chiude nella propria arroganza.

“Mettere in cattedra” qualcuno, invece, è un atteggiamento di apertura, perché si riconosce il ruolo di docente a chi se lo merita, mentre si assume in proprio, il ruolo di discente; con questa predisposizione, si dà spazio al dibattito nel modo più umile e confacente, non come atto di liberalità, bensì di coraggio e apertura mentale, per favorire, appunto, un dialogo pacato e paritario.

Ed è quello che ha fatto un grande uomo, un religioso, che nel dibattito, sempre acceso sull’esistenza, o meno, di un Dio, ha ceduto la “cattedra” agli oppositori, cioè agli atei, favorendo un discorso che si è sviluppato in modo concreto e proficuo, tra le maggiori menti dell’uno e dell’altro campo, con esiti di una profondità inusuale, in un campo nel quale normalmente ci si arrocca da una parte al concetto di sacralità, per cui qualunque idea contraria è eresia, e dall’altra ad un atteggiamento di supremazia intellettuale, che è tipico di chi rifiutando ogni fede, si ritiene più evoluto.

Gli atei in cattedra, ad insegnare ai credenti le ragioni (le “radici” secondo Cacciari) del non credere ed i credenti in pensoso ripensamento delle ragioni del loro credere, in un rapporto dinamico e produttivo, perché coinvolgente.

Bisogna tener presente, per capire il grado di apertura che aveva questa offerta, che “la Cattedra” in termini ecclesiali era appannaggio esclusivo dei vescovi.

Il cardinale Carlo Maria Martini, Arcivescovo di Milano, ha diretto nell’arco di un ventennio, durante il suo magistero una serie di incontri con figure eminenti del campo degli oppositori, fondando dodici “cattedre degli atei”, sulla materia, complessa e delicata, che con il discorso sulla religione,  incrocia  altri aspetti della vita sociale, con l’intento di favorire, da un lato l’espressione più aperta e libera, da parte dei non credenti e la proposta di interrogativi e dall’altro, il ripensamento attivo da parte di quanti, dichiarandosi credenti, non si interrogano più sulle ragioni della propria fede.

Perché, dice Martini, la fede, per essere vera, ci deve “inquietare”.

A me, quello che mi inquieta è questa tua passione di ficcarti sempre nei discorsi più astrusi, intervenne Pancrazio, rimasto zitto per troppo tempo.

Io ricordo solo quella cattedra che ti ho detto: c’era una maestra che mi faceva impazzire! Quando si sedeva era come quando si apre un messale: tutti zitti, gli occhi strabuzzati concentrati su un solo punto, il filo di merletto che spuntava dalla gonna, due dita sopra al ginocchio. Tutto il resto era tabù.

Non è il discorso sulla fede, che mi interessa, replicò Maurizio, ma capire se c’è, se deve esserci, una cattedra per ogni cosa. O se possiamo farne a meno…

Certo che possiamo, affermò convinto Pancrazio, a noi basta un semplice tavolino!

 

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