SOLITUDINE

 

       Il discorso sulla solitudine si riallaccia a quello sulla felicità e a quanto detto a proposito della fugacità delle nostre sensazioni. L'uomo è animale sociale, dotato di una forte individualità. Ciò significa che le sue scelte sono condizionate dalla società in cui vive, ma agisce con la propria testa. La ricerca del maggiore  benessere sociale  ed individuale possibile è lo scopo principale dell'agire umano. In questo quadro, caratterizzato da due polarità, la società da una parte  e l'individuo dall'altra,  si inserisce il discorso sulla solitudine,  uno stato d'animo, un sentimento, che si manifesta nello spirito umano in modo  contraddittorio.

     Essa da un lato è amata e ricercata, come fonte di beatitudine, dall'altro temuta  come il peggiore del mali . C'è chi aspira ad isolarsi dalla comunità in cui vive,  per sentirsi libero e felice e c'è chi, invece. lasciato solo dalla comunità, si dispera  e cade in depressione.        

       Ci si può sentire soli anche quando si  è insieme a tanta gente,  oppure in compagnia anche in mezzo ad un deserto.  Chi ha la capacità di star bene con se stesso e con la propria ombra, può trovare compagnia anche negli oggetti, una capanna abbandonata, pochi utensili, ed essere felice. La solitudine volontaria è attiva, quella indotta dal rifiuto degli altri, passiva, e si traduce  in varie forme di ostracismo, la solitudine del reietto.       

      Per lo scrittore ottocentesco americano Henry David Thoreau la solitudine era la migliore compagnia. Stare con gli altri, anche con i migliori, lo annoiava, o lo  stancava. Questo poteva apparire un comportamento antisociale, ma non era così; dalle testimonianze dell'epoca, risulta che aveva rapporti normalissimi con i membri della sua  comunità, Concord nel Massachiussets, con intellettuali ed uomini politici, esponendosi in prima persona in molte battaglie anticonformiste che gli hanno valso la fama di personaggio eccentrico, stravagante, ma non privo di socievolezza.

      Tra i suoi amici  e conoscenti annoverava uomini importanti, quali  il filosofo R.W. Emerson, che fu un poco il suo maestro, e lo scrittore N. Hawthorne, ed è anche noto che egli godeva della stima dei suoi concittadini, tanto che  il suo parere era richiesto ed apprezzato, in ogni occasione pubblica o privata.

    Si era ritirato, come dice nel suo libro "Walden o La Vita nei Boschi",  "nel grande oceano della solitudine, in cui si svuotano i fiumi della società". Si svuotano, dice proprio e, a mio parere, non vuol dire si riversano, ma si smorzano, perdono valore, diventano inefficaci, si perdono. E sarebbero questi grandi fiumi, i conflitti, le controversie,   le convenzioni, i formalismi, le ipocrisie, tutti quei 'lacci e lacciuoli' che imprigionano la persona umana, costringendola ad essere quello che non è. Quindi in questo oceano è possibile vivere una vita  al di fuori degli schemi, ritrovando l'autenticità insita nelle cose stesse.

      Quando si è soli in mezzo alla natura non si può essere di umore nero, egli asserisce,  nè soffrire di solitudine, se i sensi sono tenuti a bada,  tranquilli. Bisogna trovare il giusto equilibrio, non covare ansie, bramosie e fare in modo da allentare la tensione di cui molti soffrono per  qualcosa che deve accadere, cercare di vivere conformando il proprio ritmo a quello della natura, seguendo l'ordine naturale delle cose, l'avvicendarsi delle stagioni, lo scorrere del tempo ed abituarsi ai rigori del clima. Si entra e si esce  dalla natura del bosco, con animo tranquillo, sereno, senza pesi sulla coscienza, vivendo alla giornata, ricco, come dice lui, non di soldi, che danno i pensieri, ma  di "ore di  sole e giorni d'estate, da spendere con prodigalità", senza badare al risparmio, che è l'ossessione di chi detiene solo beni materiali.

     Chi è ricco di  sole e luce, non deve preoccuparsi di lesinare questi beni che, al contrario di quelli economici, non sono soggetti ad esaurimento, e nemmeno  centellinare le proprie emozioni. 

     Sembra di sentire l'eco di un altro discorso,  quello antichissimo di Francesco, (XIII secolo), che  nel Cantico delle Creature innalza una lode a Dio per tutte le cose create da lui, esaltandone la bellezza in ogni forma ed espressione; una bellezza di cui noi siamo chiamati a godere a piene mani. Con questo componimento poetico, "in prosa ritmica assonanzata", il santo eleva un inno solenne  alla natura,  e riscopre  il  piacere delle cose terrene, l'amore per le creature, gli elementi, la natura,   abbandonando la cupa  tradizione medioevale che per  esaltare i beni del regno celeste, relegava in secondo piano tutto quanto appartenesse al regno della natura. Francesco chiama fratello e sorella il sole, la luna il vento, l'acqua, il fuoco e perfino la morte. E madre, la nuda terra, sulla quale chiese di essere deposto nel momento  supremo del  suo incontro con "sora nostra morte corporale", come dimostrazione della sua volontà di ricongiungersi con essa, la terra, la materia di cui il nostro corpo è fatto. 

    

      5 giugno 2016

 

      Bruno

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