FELICITA'
Racconto di Stefano AIELLI
Mi piace pensare all’anima come all’argilla che si forma per una deposizione incessante di limo e polveri che nell’acqua lentamente cadono attirate da una seppur minima forza di gravità e sfidando, le correnti marine, arrivano in fondo al mare.
L’anima anch’essa si forma per una deposizione incessante del tempo e delle esperienze che si stratificano in noi giorno per giorno momento per momento. Come il primo velo di limo ricopre il fondo del mare mettendo in evidenza ciò che c’è sotto, così anche l’anima dovrebbe prendere la sua prima forma a partire da un substrato che già c’è, rilevandone i contorni, le forme. Quello che siamo è forse una stratificazione di sottili lamine d’anima che si dispongono uno sull’altra, talvolta indistinguibili e talvolta evidenti per spessore o colore che si sovrappongono ad un noi primigenio.
Ed ecco che all’interno di questa roccia ricerco la felicità, per vedere se da qualche parte si fosse incastrata tra una lamina e l’altra. Come un verme in una castagna sono dentro e giro, confuso dall’odore della verdura che bolle nell’acqua e le tante gocce di condensa che scendono sui vetri dietro le tende a pallini, le ombre che si proiettano sui vetri e sui muri di casa che si animano al passaggio della automobili sotto la strada, il tempo passato con il binocolo alla ricerca di luci sulla collina avvolta nella notte, la noia girando per una casa grande senza nulla da voler fare e scoprire di avere ancora molto tempo prima di cena e l’amara scoperta che le 7.40 sono invece le 8 meno venti; tutto precipita adesso più velocemente.
I concerti davanti al mio unico uditore, che sulla poltrona sonnecchia e farfuglia e forse chissà, ascolta, e la volta che dissi a mia madre in fondo più che una madre sei una nutrice, si così le dissi. Continuo a traforare gli strati alla ricerca della verità. Il primo giorno di asilo ricordo l’odore del pavimento di materiale plastico a bolle nere, il mio vomito che si sparge a terra, la segatura che ci viene buttata sopra, la paura forte che tutto stia per cambiare, l’abbandono che di lì a poco si concretizzerà, le mani gocciolanti di succo di arance mal spellate e offerteci con poco garbo dalle tate, e il montacarichi lì per i piatti sporchi e come memento mori, chè se qualcuno sgarra ci finisce dentro a quell’affare.
Il costume col timone, i capelli biondi d’estate e una paura sempre, di tutto, ma soprattutto la paura dell’abbandono e della solitudine come quella volta che ero a casa malato e la nonna era fuori al terrazzo dello studio, forse al tempo era la camera dei miei, non me lo ricordo questo, ma mai mi sarei sognato di poterla trovare lì dopo aver percorso più volte la casa trafelato e terrorizzato, le macchinine in fila sulle strade delle coperte pachwork che erano rimaste immobili ad aspettarmi.
E la maledizione del festival del jazz che tutti gli anni mi rimetteva di fronte all’angoscia dei miei che andavano via di casa, ad un orario insolito.
Gli strati sono tanti e riemergono ricordi e pezzi di anima dappertutto ma non trovo quello che cerco nel mio primo amore, l’odore dei suoi capelli sull’autobus che si ferma nonostante sia fuori dalla fermata e la fa salire, il 15 maggio 1989. L’angoscia del solfeggio, le aule fredde, il prof. Valentini che usciva come un fantasma per farci i soliti gesti minacciosi “mò ti intosto io”, e lo scotto di essere l’ultimo il peggiore, e tutto prende un’aria terribile, le passeggiate con mamma prima di entrare a lezione, intorno all’anfiteatro - alcune pietre ritrovate e malmesse in cui l’unica cosa interessante sono l’aria e i gatti - e l’odore di quella stanzetta dalle porte alte e a vetri; orrore, che orrore il modo in cui ci trattavano al conservatorio dell’Aquila quando per interrogarci i professori non toglievano gli occhiali da sole, e bocciato ripetere per una seconda volta l’esame a Pescara, ma qui questa volta va meglio, ma le terzine ancora oggi non ho capito come le volevano, le terzine, ma poi le cose vanno meglio, qualche soddisfazione arriva, chissà forse mio padre nel consiglio di amministrazione aiuta a farmi benvolere, chissà. Lo staccato, ancora oggi ho l’angoscia al pensiero che all’esame possa uscire il Mercadante num. 5, due pagine di staccato veloce, il tu-ku-tu-ku e il tu-ku-tu …ma dov’ero quando fecero il tu ku, come oggi, ero altrove?
Il pesce lo scelsi io. Mia madre mi portò in un allevamento per prendere il pesce più bello per il mio compleanno. La mia scelta, la sua fine, la mia festa il suo funerale. Quest’idea mi rincorse a lungo lasciandomi un malessere e una pena senza conforto.
Il liceo non l’ho mai rimpianto a parte le sigarette, un po' di droga e il vino, per il resto non c’è stato nulla di buono. Quando ero ormai alla fine mi sembrava di impazzire alla sola idea di poter essere bocciato e dover frequentare un altro anno in un posto che mi era estraneo. Il mondo mi andò in pezzi, la ragazza che sparisce dalla mia vita, gli amici con cui si andava unicamente a bere, il flauto che ingombrando le mie angosce misi da parte, le passeggiate solitarie per una città piccola facendo strade secondarie e pur sperando nel profondo di incontrarla.
La vespa mi entrò nello sportello in un baleno lasciandomi soltanto lo stupore della faccia sporca di sangue della mia fidanzata, il frastuono, la gente che accorse, gli occhiali che saltarono via dal finestrino ed andarono in frantumi come i vetri della macchina e ti lasciano isolato in un mondo di persone sfocate; ma perché, perché?
Le extrasistole mi tormentano la vita e respiro male per una bronchite che mi riprende tutti gli anni e per un setto nasale tutto storto. Quando mi addormentai sentii come sprofondare in un buco senza fine, una sensazione terribile di brivido che mi è rimasta dentro per tanto e le fettine del naso, lì sul comodino che attendevano il mio sguardo per essere gettate via. Scavo negli strati ma non trovo la felicità, in tutti trovo senso di oppressione, fidanzata, il flauto, le interrogazioni sui verbi latini, le serate a studiare con mio padre per recuperare qualcosa delle tante che non capivo o non studiavo, gli amici di bevute - altro non facevamo. Il mio amico violento Adriano che quando poteva passava il tempo a tormentare qualcuno e la volta che prese a pugni e calci la sua fidanzata in un bar; birra tanta birra nei pub, inutili serate a bere litri di birra e fumare sigarette. Ma quella era vita, cioè era un modo di vivere che non significava essere felici, ma cosa significa poi essere felici? Vale per forza la legge del contrario, cioè che se stai proprio male allora al contrario esiste una felicità? O forse esiste una specie di neutralità dell’essere, un vivere senza per forza stare male o sentirsi felici?
La felicità non l’ho trovata a Londra quando partimmo in tre, finiti gli esami di stato, con il parere contrario dei miei, e l’università che non avrei voluto fare. Ma fino alla fine della fila in segreteria non sapevo se dire geologia o naturali, e naturali dissi con la sola soddisfazione di aver tranquillizzato i miei che erano arrivati ad accettare qualsiasi cosa piuttosto che nulla. I treni pieni, andate e ritorni lunghi di treni scassati, la nostalgia che mi prese dopo i primi 2 anni e il trucco di prendere il treno in un giorno lavorativo per evitare il tormento dei saluti alla stazione, ma mia madre e lì che aspetta con tutti i suoi piccoli studenti a salutarmi dalla finestra, quando passai davanti la scuola, lì sotto casa.
Mi laureo ma sono arrabbiato, mi fa paura il futuro che mi attende, anche perché proprio non riesco ad immaginare nulla di come potrà essere. Il servizio civile, scampo la paura di fare il militare, l’odore caldo di vecchi seduti lungo un corridoio a cui ti abitui non proprio subito, e il mio compagno di avventura e qualche risata, Gennaro che fa il giornalista. La fiatata d’aglio di suor Laura che sorride e mi chiede di rimettere a posto l’armadio delle medicine che è in disordine, ma più di tutto non è il disordine ma il fatto che la maggior parte dei farmaci è scaduto! E come lo spieghi il giorno dopo e quello dopo ancora che il lavoro di riordino è fatto, è finito non serve ricontrollarlo tutti giorni.
Continuo a girare tra gli strati ma non trovo l’oggetto della mia ricerca. Gli strati mi stanno addosso, mi costringono, mi fanno un senso di soffocamento, ho bisogno d’aria, ho bisogno di un po' di vino.
Il mondo all’improvviso divenne sproporzionato, sì il mio corpo perse il senso delle proporzioni e la casa tutto intono divenne più piccola, i battiti si rincorrevano non dimenticando di fare il salto per raddoppiare la forza al successivo, paura, tanta, senso di impazzire all’improvviso………andai in ospedale in bicicletta e lì rimasi qualche ora, in osservazione. Il panico mi ha perseguitato per alcuni anni e lo combattevo talvolta con una birretta, alla 10 di mattina, compromettendo la successiva mattinata di biblioteca.
Mi chiedo: ma la felicità faceva parte del substrato su cui tutti questi strati si sono ammucchiati o sarebbe dovuta arrivare dopo, con la successiva deposizione, un qualche giorno, per caso, come quando si scopre qualcosa di nuovo? Alcuni dicono che la felicità è una condizione che dipende unicamente dalla nostra volontà, cioè che basta voler essere felici per esserlo. Io non penso così, la felicità è negli strati, è una condizione costitutiva dell’anima e ritengo che questa sì, è in continuo mutamento per via della polvere d’anima che continua a depositarsi, incessantemente. In questa accezione quindi la felicità potrebbe ancora doversi depositare. E allora esco dall’argilla e mi metto in superficie e attendo.
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