L'OMBRA DEL COLOMBRE

 

 

                                                              

Pancrazio aveva visto il Colombre e ne era rimasto impressionato: il suo aspetto era orribile e tale da incutere paura, non a lui, naturalmente, ma, pensava -  per esempio -  ad un tipo come Maurizio, forse sì.

Ma quando ebbe modo di avvicinarlo, vide che quella strana creatura era fondamentalmente buona, non propensa a fare del male.

Ma chi era il Colombre?

Un uomo, una sera di fine estate, sul bagnasciuga di una spiaggia deserta, era assorto in un lavoro che lo assorbiva totalmente: la creazione sulla sabbia, già lambita dalle onde, di una figura in bassorilievo rappresentante un essere mostruoso, metà sirena, metà medusa. Egli era tanto preso dal suo compito, da non accorgersi di alcuni spettatori, fra i quali uno sfaccendato Pancrazio, che si erano fermati ad osservare quello che faceva. Una volta completato il suo lavoro, volle dare un titolo a quella strana figura, scrivendo sulla sabbia la seguente dicitura: Hombre que vide Colombre, poi si alzò in piedi, e solo allora si accorse del pubblico di spettatori, che stavano lì, a studiare il suo lavoro con sguardo interrogativo, li osservò benevolmente uno per uno, come ad imprimersi i loro connotati nella mente e andò via, mormorando parole incomprensibili.

Il Colombre, appresero in seguito gli ignari spettatori, è un mostro che fa parte del bagaglio di racconti terrifici e leggendari del mare, come il Leviatano, Moby Dick, l’orca assassina, la settima onda sulla quale cavalca la morte, la bonaccia interminabile che suscita terrori irrazionali, la maledizione del marinaio responsabile della morte di un albatros e così via.

Un marinaio fugge per tutta la vita inseguito dal fantasma di questo mostro, che gli appare ogni volta che egli si affaccia dalla murata della sua nave. Egli pensa che la strana figura voglia la sua morte, mentre invece, quando ormai è già vecchio, scopre che essa voleva soltanto porgergli un regalo, una perla gigantesca che gli avrebbe garantito felicità, che poi altro non era che la possibilità di togliersi da quella condizione di soggezione alla paura che lo attanagliava, solo se avesse avuto il coraggio di guardarla da vicino.

A parlarcene, in un racconto denso di significato, è uno scrittore molto caro a Maurizio, il nostro Dino Buzzati, che nella sua opera maggiore, Il Deserto Dei Tartari, narra di un ufficiale di stanza in una fortezza eretta a difesa di una sperduta periferia, che passa il tempo a scrutare di notte  gli spostamenti  dei fuochi di un accampamento nemico, in attesa di un imminente attacco che non arriva mai, fino al giorno in cui cade ammalato ed è costretto ad abbandonare la fortezza, proprio mentre si scatena l’attacco nemico tanto atteso e temuto.   

Per non disturbare Conrad, Maurizio non aveva titolato quello che stava scrivendo La Linea D’Ombra, (tema che peraltro aveva, incautamente, toccato altrove), anche se quello che voleva dire era più attinente a quella linea che ognuno di noi deve oltrepassare per entrare nella vita adulta, che non all’ombra in sé, argomento che, singolarmente trattato, è oggetto in letteratura, di molte prolifiche implicazioni.

Non era sua intenzione tentare una lettura di quel testo, troppo famoso, ma solo soffermarmi sulla considerazione iniziale che nella vita arriva sempre il momento in cui è necessario uscire dalla linea d’ombra, che oggi possiamo identificare con la zona di confort nella quale viviamo tranquilli, per affrontare le tempeste della vita, se gli perdoniamo il tono enfatico di tale espressione (ma la suggestione dell’ombra – anche qui un’ombra, ma si tratta di un’ombra benefica, quasi paterna -  di Conrad è troppo forte per poter resistere alla tentazione di entrare, sia pure nel modo più superficiale, nel mondo unico di questo autore, tra i più amati).

Due sono i temi di cui voleva accennare, che considerava connessi l’uno all’altro non in modo indissolubile, ma solo per comodità e sono il primo, appunto, quello della linea da oltrepassare e che continuamente ed alternativamente ci insegue, ci raggiunge, ci supera e che noi ci troviamo di nuovo a dover superare e, il secondo quello del momento in cui questo passo decisivo dell’avvicendamento si verifica, o dovrebbe verificarsi.

Per quanto riguarda il primo, gli sembrava rilevante l’osservazione che questa linea è dentro di noi, è, per così dire, la pasta di cui siamo fatti, c’è chi se ne libera subito e una volta per tutte, almeno tendenzialmente e chi non se ne libera mai, per tutta la vita.

Qual era il messaggio, si chiedeva, che quella sera l’uomo sulla spiaggia voleva comunicare, forse fortuitamente, forse no, agli occasionali spettatori del suo capolavoro destinato a scomparire di lì a poco?

Maurizio, non lo sapeva, tuttavia tentò questa interpretazione:

A noi che vogliamo essere ottimisti, piace pensare che l’uomo che vide Colombre quella sera su quella spiaggia, sia stato lì per recare un messaggio del tutto originale: avere il coraggio di guardare colombre negli occhi e reggere il suo sguardo, per scorgere ciò che è nel profondo, a dispetto della bruttezza del volto, vuol dire avere la forza di vincere la propria ombra, superare le proprie angosce.

E sennò, perché? Obiettò Pancrazio; dopo quella sera, in cui lo sconosciuto costruì il Colombre con la sabbia, io ho visto davvero il Colombre, e fu quando, sbattuto dal vento, solcai il mare su una barchetta a vela, riparando sull’Isola delle Sirene  e ti posso assicurare che ho capito subito che la sua ombra non doveva spaventarmi.

Senti, Pancrazio, aggiunse Maurizio in tono professorale, noi da un lato siamo attratti dal fascino dell’abisso, vedi Stefano, il protagonista del racconto di Buzzati, che, pur conoscendo il pericolo, non resiste al desiderio di lasciare la terra ferma, che dà scurezza e affrontare l’incognita del mare, che rappresenta, rispetto alla terra, l’abisso, e dall’altro abbiamo paura di ogni cosa che possa apparici diversa da quello che secondo noi, non è normale. E ciò, molte volte ci impedisce di guardare dentro le cose.

Io ho guardato dentro la bocca del mio colombre ed ho visto i suoi denti aguzzi che erano normali, come quelli di un pescecane, disse Pancrazio.

Maurizio assunse un atteggiamento sognante: solo troppo tardi ci accorgiamo che quello che ritenevamo diverso, che ci spaventava e che temevamo potesse arrecarci un grave danno, in realtà era soltanto l’occasione per fare quel passo avanti che ci avrebbe portato fuori dall’ombra.

Ah, io questo problema non l’ho avuto: sull’isola era tutto sole e se avessi voluto uscire dall’ombra, avrei prima dovuto trovarla, disse convinto Pancrazio.

Il destino siamo noi, concluse Maurizio, nel senso che dipende da noi decidere come e quando agire. Non è il Fato.

Alle fate non crede più nessuno ormai, volle aggiungere, desolato, Pancrazio, alzando di un tono la voce, rispetto a quella del Maestro, come a voler mettere un punto fermo a tutta questa storia traballante.

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