DECLINANTE

 

 

                                                                         

Labens, labentis, stava dicendo Evelina a suo padre. Pancrazio ascoltava con molta attenzione e si guardava intorno spaesato. Che va oltre, che si esaurisce, capito? Labente die, vuol dire sul finire del giorno.

Pancrazio assentiva, ma sembrava incredulo.

A me sembra una mezza bestemmia, disse. “Lampante” Dio? Che vuol dire? Capirei “Santissimo…” Ma poi, dove andrebbe?

Papà, questo è latino, devi accettarlo così com’è e io non ho detto “lampante” e nemmeno “Dio”, mi stai a sentire?

Il giorno dopo la questione venne portata all’ordine del giorno nella seduta permanente degli – tra un caffè ed un Campari -- accademici dello Zibaldino, dallo stesso Pancrazio e Maurizio ne approfittò subito per prendere la parola e partire per la tangente.

Sul finire del giorno, che bella espressione! Iniziò, enfatico: mentre il giorno declina e sopraggiunge la notte, il nostro animo si piega a sentimenti intimi e contrastanti di speranze, attese ansiose, e delusioni, velate di malinconia.

Sostò un attimo a studiare il grado di coinvolgimento provocato dal suo incipit, che avrebbe voluto vedere dipinto sui volti dei suoi ascoltatori e ne trasse una impressione indecifrabile, tanto da sentirsi scoraggiato ma decise ugualmente di continuare sullo stesso registro iniziale.

Non passa giorno, disse, entrando nel vivo, che il nostro amico Wolters non ci sorprenda con provocazioni intellettuali, o forse spirituali, che sono stimolanti quanto mai, per alimentare gli interessi di noi lettori, non così multiformi come i suoi. O come lui.

 Aggiungo subito che, in questa sua benemerita attività, egli è ben supportato dal comune e altrettanto amico Achille, che non perde battuta (sono entrambi musicisti e tra musicisti, si sa, corre un filo che conoscono solo loro), seguiti entrambi dai vari Lucio, Bruno e chissà quanti altri che l’ultimo in particolare, non ha la fortuna di conoscere.

Alcune volte è un fiume di parole, anzi un torrente in piena, che trascina via tutto quello che incontra, con un turbine di immagini, pensieri, idee rattenute; altre volte, una frase, un accenno, senza commenti, quasi un enigma.

Pietre d’inciampo.

Ogni tanto capita di incontrare sulla via, qualcosa che costringe a fermarsi e riflettere. L’ultima, questo “Labente die”, messo lì, come un ciottolo, quasi per caso, cosa dimenticata, o ritrovata e accantonata. Da tenere comunque presente.

Nessuna spiegazione. Non serve. Prendere o lasciare. C’è chi guarda e passa, chi si sofferma e chiede intorno, chi ci torna su e pensa: ma che mi ricorda questo “labente die”? Una lontana reminiscenza scolastica, anni di luminoso avvenire, aspettative, ansie e …svogliatezza di fronte a cose semplici ed ardue ad un tempo, di cui io coglievo solo il lato pedante dell’obbligo. Occasioni perdute; lo studio amato ed odiato, perché imposto, o forse proposto non in modo adeguato.

Un poeta, Virgilio, pagano, eppure scelto da Dante, come guida nei primi due Regni dell’Aldilà cristiano, un uomo schivo, che voleva passare inosservato, rasente i muri, all’ombra, familiare della sera, o della fine del giorno, appunto.

Il riferimento testuale è a Didone, che pazza d’amore, vaga tutto il giorno e sul far della sera, chiede banchetti e vorrebbe risentire la voce di Enea raccontarle di nuovo la triste storia della caduta di Troia, ma l’espressione è universale, chiama in causa l’estrema sintesi della lingua latina, efficacissima in queste occasioni, e la fantasia: quante cose possono accadere sul finire di un giorno?  

Ho dovuto fare mente locale, tornare sui banchi del Ginnasio e del Liceo, per capire quanto mi piacesse la compagnia di quei grandi, che con semplicità, dicevano cose che scavavano a fondo nell’animo e lasciavano il segno.

Grazie Wolters, grazie amici, essenziali in questa opera di recupero del passato che non passa, fino a quando ci è dato ricordarlo.

Quando smise di parlare, nella stanza si creò un silenzio interrotto solo da qualche colpo imbarazzato di tosse, o scricchiolio di sedie, poi si alzò Pancrazio che ritenne opportuno fare la seguente dichiarazione:

Non mi è chiaro perché questa Ditone di cui ci ha parlato Maurizio voleva fare, all’ora di cena, banchetti, che se non erro si fanno nelle sagre e quindi sono semmai delle merende, che se poi uno non si sazia ne può chiedere ancora, ma perché buttarsi su una spada, quando poteva andare a casa sua e ingozzarsi come più le piaceva?

La gazzarra che seguì fu frastornante e Maurizio, non visto, lasciò la sala contrariato e in preda a forte emozione.

 

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