CUCUZZONE

Non cercate sul vocabolario la voce cucuzzone, perché, anche se esiste (si trova, infatti, sull’Atlante Geografico, ed è un Monte che fa parte del Parco Nazionale del Cilento, in Campania) non è il cucuzzone che ho conosciuto io e di cui vi vorrei brevemente parlare. La voce di Maurizio era pacata e velata di nostalgia, che doveva senz’altro derivargli dal ricordo che si andava srotolando nella sua mente.
 
Dovete sapere che le mie radici sono a Città Sant’Angelo, che prima era in provincia di Teramo, mentre, dopo la costituzione della Provincia di Pescara, per merito di D’Annunzio, è entrata a far parte di quest’ultima. Mio padre era nato lì e lì era vissuto fino alla maggiore età, per poi trasferirsi a Teramo, per ragioni di lavoro, ed era quindi consuetudine dei miei genitori, in estate di far visita ai parenti di quella città, con tutta la famiglia. Talvolta si verificava che, ripartendo, qualche componente di essa. di solito, io e mio fratello, rimanesse ospite nella casa della nonna, per trascorrervi, parte delle vacanze estive. Sto parlando di tempi lontani, quando eravamo piccoli, ed era ancora in corso la guerra. Città Sant’Angelo, essendo un paese lontano da grossi centri, veniva ritenuto dai miei, luogo più sicuro di casa nostra, dal pericolo delle incursioni e dei bombardamenti aerei, per cui volentieri ci lasciavano lì e per noi ragazzi era una pacchia, per come eravamo accolti e vezzeggiati.  Ogni mattina ci alzavamo presto, per andare insieme a zio Luigi, che coltivava un piccolo terreno in pianura, ad una distanza non trascurabile dal paese, per trascorrervi l’intera giornata all’aperto, inventandoci mille giochi che spesso non venivano apprezzati dallo zio, intento ai suoi lavori, compresa la cura di una capretta allevata in quella che noi chiamavamo la casetta, in realtà poco più di una capanna usata anche come rimessa attrezzi, perché interferivano con il suo lavoro, e potevano danneggiare le piante.
 
Tornavamo la sera, al calar del sole ed il tratturo in salita che si doveva fare per tornare a casa, ci sembrava una via maestra. Lo zio salutava tutte le persone che incontrava sul sentiero, qualcuno in groppa ad un asinello, qualche altro a bordo di un carro, scambiava volentieri qualche parola con l’uno o con l’altro, contadini come lui, che gli dimostravano molta considerazione e affetto. Appena ci vedeva arrivare la nonna, ci veniva incontro per i gradini e ci chiedeva siete affamati, vero? Poveri citl’ mì, ma mo’ vi faccio subito due taiarill col sugo, intanto riposatevi un poco- Riposare? Ma noi non eravamo stanchi e la piazzetta antistante era sempre luogo di svago e conoscenza di altri bambini con i quali giocare. Con una rapidità stupefacente, intanto la nonna metteva sul camino la caldaia con l’acqua e nel tempo che questa arrivasse a bollitura, lei aveva ammassato la farina per i tagliolini, che subito metteva a cuocere, ed in men che non si dica eravamo a tavola, in un alone vaporoso di buono e santo, una tovaglia candida, sulla quale posava il vassoio della pasta e uno per uno, ci riempiva i piatti di una minestra odorosissima di pomodoro. basilico e peperone (che abbiamo imparato a conoscere dopo). La guerra era lontana ed a noi arrivava solamente il rumore sordo dei quadrimotori carichi di bombe, che ogni tanto passavano alti nel cielo e noi, muti, con gli occhi in su, a pensare chissà dove andranno a bombardare? Senonché una notte, fra tante, punteggiate di sogni fantastici, ce ne fu una durante la quale assistemmo da una finestra della camera da letto, ad una pioggia di bombe sganciate sulla città di Pescara, il cui nodo ferroviario e porto fluviale, erano ritenuti dai belligeranti, di importanza strategica e quindi obiettivi da colpire. 

Dalla nostra postazione la città non si vedeva, ma vedevamo il bagliore degli scoppi, seguiti subito dopo dalle fiamme degli incendi che si accendevano alti nel cielo, appena dietro la collina e ci spaventammo molto. Il giorno dopo, con mezzi di fortuna arrivammo, due bambini, insieme ad un padre piuttosto preoccupato, in una stazione ferroviaria, non ricordo quale, affollata di gente in fuga dalla città, che prendeva d’assalto qualunque convoglio che riusciva ad arrivare, in attesa di un treno di cui non si conosceva l’orario e forse non sarebbe mai arrivato, per via dei danni alla ferrovia. Unico confort fu una gazzosa divisa in tre, comprata da un venditore ambulante. Alla fine riuscimmo a trovare un passaggio sul cassone di un camion, adattato con panche ed un telone a mezzo per trasportare persone, solo fino a Giulianova, dove prendemmo la littorina per Teramo Questo per inciso e farvi capire l’atmosfera di quel periodo. Eppure noi bambini non soffrivamo, nella nostra incoscienza, più di tanto e trovavamo ogni pretesto per continuare a divertirci. Divertirci, sì, perché durante il soggiorno nella casa della nonna noi scoprivamo un altro mondo e tutto ci appariva magico e misterioso, quindi molto divertente. In una piccola casa, alla quale si accedeva per mezzo di tre gradini, abitavano, oltre alla nonna, due zii, una zia e tre cugini nostri; col nostro arrivo, si creavano seri problemi di allocazione , ma a noi questo non interessava, noi non stavamo stretti. Per di più, la festosità degli ospitanti era tale da farci credere che non vi fossero difficoltà di sorta. La simpatia, l’amore e la ironia di tutti, facevano il resto. 

Annesso alla casa, ma esterno all’abitazione, c’era un fondaco che fungeva anche da deposito di oggetti di vario genere, buio, senza finestre, né luce elettrica, bisognava accendere una candela per vederci, che incuteva un certo timore, quindi era il posto ideale per fare scherzi e burle, che tanto piacevano ai nostri zii come, per esempio, dire, all’ora della cena, o più tardi, manca che so, la legna per il camino, chi di voi due è così coraggioso da scendere giù in cantina a prenderne? Io ero il più grande e quindi toccava sempre a me, talvolta mio fratello si offriva di accompagnarmi, si trattava di uscire di casa ed entrare nella porta accanto, pronti entrambi a scappare al primo apparire di qualcosa di strano nell’antro baluginante al lume di candela. Una volta avevamo trovato, nascosta dietro una botte, una zucca incisa a testa di morto illuminata dal retro e lo spavento era stato tanto. I racconti di zio Luigi erano deliziosi nella loro scarna ingenuità e molti si rifacevano al genere horror, come appunto la storia di Cucuzzone (ci siamo, finalmente). Molte volte, parlando del più e del meno, zio Luigi faceva il nome di Cucuzzone, alludendo a qualcosa di inimmaginabile, sì, perché non avete mai incontrato Cucuzzone, non uscite sul piazzale di notte, potreste incontrare Cucuzzone e, richiesto di spiegare chi fosse mai questo Cucuzzone, si schermiva sempre e cercava di sviare il discorso, come se si fosse di fronte a cosa da non potersi raccontare. Sembrava che in tutto il paese questo personaggio noto, incutesse terrore, più della guerra, pensate! Era descritto come una specie di orco, un uomo orribile, insomma il lupo nero dei bambini di tutto il mondo. 

Quest’uomo abitava, se così si può dire, in quanto non ci stava mai, accanto a noi, ma questo non ci fu mai detto. La sua casa era costituita da una sola stanza, sotterranea alla quale si accedeva scendendo da una porta che dava su una alta scalinata ed era senza finestre. Una specie di spelonca. Nessuno mai ci spiegò come mai fosse così temuto e reietto dai suoi compaesani, ma io, anni dopo, quando non ero più un bambino e non credevo più alle favole e al lupo mannaro, ebbi occasione di conoscerlo il povero Cucuzzone. Era un alcolizzato in fase terminale, con le allucinazioni ed il delirium tremens, di una povertà estrema, solo, abbandonato da tutti. Lo incontrai sulla strada, fuori Città Sant’Angelo, in località Fonte Umano, che si trascinava barcollando, non capivo bene in quale direzione volesse andare. Lo caricai in macchina e lo ricondussi al Paese, dove un uomo al quale chiesi se conoscesse il mio passeggero e la sua abitazione. Questi, con estrema cortesia e pietà per il relitto che trasportavo, mi rispose affermativamente e si offrì di accompagnarmi. Salì, quindi in macchina ed in breve, su sua indicazione, raggiungemmo il Largo Ghiotti, che era la piazzetta che ben conoscevo per essere quella dove un tempo abitavano i miei parenti, che nel frattempo avevano cambiato indirizzo. In due lo portammo per la ripida scalinata d casa sua e lo stendemmo su di un pagliericcio che era il suo letto. 

L’uomo si addormentò immediatamente. Ma allora, chiesi al mio accompagnatore, quest’uomo è quello che qui in Paese, chiamano Cucuzzone? Sì, purtroppo, è un dispregiativo inventato dalla cattiveria della gente, ormai però, fuori moda. Le nuove generazioni non conoscono questo appellativo. Ma lui è completamente rovinato, è solo un rudere umano. Nella stanza c’erano anche un tavolinetto e due sedie sgangherate, sulle quali prendemmo posto io e Ugo, così disse di chiamarsi l’amico, il quale, non richiesto, cominciò a raccontarmi la storia di Cucuzzone. Era un buon lavoratore artigiano e faceva le scope di saggina, che poi andava a vendere nei vari mercati della zona. Era sposato ed aveva una figlia. Un giorno ebbe un incidente grave e da quel giorno non ha più lavorato ed ha cominciato a bere. Era di una ubriachezza molesta e Poi venne la brutta storia della bambina scomparsa. Tutti i sospetti caddero su di lui. Fu fermato ed interrogato più volte dalla polizia, ma alla fine venne rilasciato perché nemmeno uno degli indizi nelle mani degli inquirenti, portava a lui. Da una bamboletta di celluloide, trovata sulla strada del Cimitero, che forse era appartenuta a lei, non si rilevarono impronte digitali sue, né, d’altro canto c’erano stati precedenti che potessero far pensare a lui come un pedofilo assassino. Ma tutta la gente seguitava ad indicarlo come il responsabile del rapimento e della scomparsa della piccola, della quale qualche anno dopo si seppe che viveva felicemente in Polinesia col padre il quale, separatosi dalla moglie si era trasferito colà, l’aveva fatta rapire per portarla con sé in non so quale isola di laggiù. 

Ma ormai Mario, questo il suo nome, aveva toccato il fondo della disperazione e della degradazione, si aggirava di notte per le vie cittadine, quelle poco illuminate, dove frequentava alcune bettole malfamate, per elemosinare qualche bicchiere di bevanda alcoolica e loschi figuri lo insolentivano, facendolo bere, e lui, abbrutito come era, sottostava ad ogni insulto pur di soddisfare la sua sete di alcool, al punto di raccogliere con le mani il vino che qualcuno, per provocarlo, aveva versato sul bancone della mescita, per berlo, quando non anche leccandolo direttamente dalla superficie del mobile. Salutai Ugo, con la promessa che ci saremmo risentiti, per fare qualcosa a favore del povero Mario e cercare di sollevarlo dalla sua miseria, sebbene nessuno dei due avesse un’idea di come farlo, ma qualche giorno dopo ricevetti una telefonata dallo stesso Ugo, che pose fine al nostro imbarazzo e a tutta questa storia. Mario è morto, mi annunciò, senza enfasi e con tanta tristezza nella voce. Ieri mattina, nel rientrare a casa, ubriaco come al solito, è caduto per le scale ed è rimasto a terra fino a quando, questa mattina, un vicino di casa, che gli aveva portato qualcosa da mangiare, per pietà, così lo ha trovato e chiamata l’ambulanza, ai soccorritori non è rimasto che constatarne la morte, avvenuta ore prima. Al funerale eravamo solo Ugo ed io, dietro al carro funebre, che, attraversata la città, nel silenzio di tutti, recava la salma al luogo di destinazione. 

Ci salutammo mestamente, ripromettendoci di rivederci, ma non ci siamo più nemmeno sentiti per telefono. Mi piacerebbe, però, fargli sapere che io lo ricordo con piacere, pur conoscendolo pochissimo. Aoh! che storia, se ne uscì Pancrazio, in mano a Zola, lui ne avrebbe fatto un capolavoro! E tu che ne sai di Zola? gli chiese insolentemente, ma per finta, Sebastiano. Perché, non era un verista? No, quello è Verga, disse inaspettatamente Silvana, mentre con uno straccio puliva un tavolino dalle briciole delle consumazioni precedenti. Quello di Zola si chiama Naturalismo, me lo ricordo dalle medie, mi piaceva studiare alle medie. Bravi ragazzi, concluse Maurizio, vi ho raccontato una storia penosa della mia prima giovinezza, ma non è il caso di tirare in ballo Emile Zola e Giovanni Verga, meglio lasciarli a chi si intende di letteratura, italiana o francese, noi accontentiamoci di dire che di solitudine si può morire. Avevo omesso, nel raccontare di Cucuzzone, che, dopo l’infortunio sul lavoro e il successivo cadere nell’inedia e nel degrado, il poveruomo era stato abbandonato dalla moglie e dalla figlia, partite entrambe per ignote destinazioni e mai più tornate in paese.

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