CUCUCCIO

Al terzo piano del civico 33 di via Trento e Trieste a Teramo, abitava la famiglia di un barbiere di nome Carlo, per tutti Carluccio, detto Cucuccio, che aveva la moglie modista e due figli maschi, il primo dei quali portava i postumi di una poliomielite che gli aveva gravemente compromesso la funzionalità della gamba sinistra. Questo Carluccio, o Cucuccio, che dir si voglia, era un tipo molto particolare: piccolo di statura, smilzo e scattante nel portamento, di una popolarità schietta ed incontenibile, suscitava simpatia in chiunque lo incontrasse, per la vivacità del suo eloquio e la bonomia del carattere, perché aveva da ridire su tutto, coinvolgendo cose e persone, senza riguardo per la privacy di nessuno; curioso di ogni cosa, o evento che si presentasse ai suoi occhi, animoso ed apprensivo ad un tempo, era un po' la macchietta del quartiere.

 La sua bottega di barbiere, con le vetrine appannate di condensa, era sempre affollato di uomini allegramente vocianti, che discutevano animatamente, di politica o di pettegolezzi (il gossip ancora non si conosceva), con lui sempre al centro, che parlando e rispondendo ad ogni provocazione, abilmente manovrava rasoio e forbici sul volto e sulla testa del cliente seduto in poltrona, non poco preoccupato per le evoluzioni incontrollabili delle sue mani. In un angolo giaceva la sua chitarra, che amava strimpellare quando rimaneva occasionalmente solo, e sul tavolinetto stava aperto il giornale quotidiano, filo governativo quando era imperante il Regime, di opposizione, quando trionfò la Democrazia (Cristiana).

 A proposito di Regime e per meglio far capire che tipo fosse il sullodato Cucuccio, così chiamato anche dalla moglie, avvenne che, quando ormai si era al crepuscolo di un’era, cioè verso la fine della guerra, ma ancora sotto l’occupazione nazista, un giorno bussò alla nostra porta la signora Gemma, sua moglie, disperata perché il marito era stato sequestrato da una pattuglia tedesca in ricognizione per rastrellamenti e fatto salire su un camion, dove già erano altri uomini sequestrati, da spedire in Germania ed adibirli ai lavori pesanti che i tedeschi non riuscivano più a fare. Ci raccontò che il marito, avvertito del rastrellamento in corso, si era rifugiato nell’atrio del fabbricato, nascosto dietro al pesante portone d’ingresso, tenuto aperto a fessura, per poter guardare fuori come da uno spioncino, rifiutandosi di salire in casa, come lo pregava sua moglie di fare, perché diceva “singt’ da vdè”, aveva cioè la curiosità di vedere cosa stesse accadendo ed avvenne che uno della pattuglia che percorreva la via, giunto davanti al portone semiaperto, con il calcio del fucile, lo spalancò in faccia allo sbalordito Cucuccio, al quale non restò altro che aderire all’ordine di salire sul cassone del camion sopraggiunto, sotto minaccia armata. Lo vedemmo ricomparire qualche giorno dopo, smunto e provato, ma sano, in quanto, ci raccontò i tedeschi in fuga avevano allentato i controlli e a lui e molti altri era stato possibile fuggire, non senza gravi rischi. Era tornato quindi a casa, con grande sollievo della moglie e dei figli e noi tutti che ci compiacemmo con lui.

 Tornando al numero 33 di quella via, che come ho accennato, aveva un portone d’ingresso imponente, un ampio atrio che portava ad una scalinata di tre piani, mi piace completare il ricordo di quei tempi tremendi eppure indimenticabili, dicendo che nei due piani sottostanti a quello dove abitava la famiglia del barbiere, abitavano al secondo un play boy, come si direbbe adesso, con l’anziana madre ed al primo la mia famiglia composta da padre, madre, zia Gina, sorella di papà e cinque figli, tre femmine e due maschi.

 E che c’entra questo con Cucuccio? C’entra per un altro episodio che riguarda non lui, ma il suo figlio maggiore, di nome Franco, che ricordo con simpatia. Questo ragazzo aveva, come ho già detto, la gamba sinistra anchilosata, ma questa deficienza fisica era compensata almeno in parte, dall'ipertrofico sviluppo della muscolatura della destra, che gli consentiva di spiccare salti su una sola gamba come fa il canguro con le due posteriori ed egli, quando usciva di casa e doveva scendere tre piani di scale, aveva preso l’abitudine di farlo saltando sulla sola gamba buona, i gradini quattro a quattro, provocando naturalmente tonfi che si ripercuotevano lungo la tromba delle scale, in modo tale che noi, due piani sotto, potevamo contare tutte le sue uscite. La cosa, fastidiosa per tutti gli occupanti dei due piani sottostanti, era divenuta insopportabile per la zia Gina la quale, risoluta com’era, aveva deciso di porre fine a quel comportamento scorretto, affrontando il ragazzo al suo passaggio e fargli intendere con le buone o con le cattive, che così non poteva seguitare a fare.

 Non dovette aspettare molto. Una volta, appena avvertiti i rumori tipici che precedevano la sua discesa, si appostò con la scopa in mano, dietro la porta di casa, decisa a dargliene di santa ragione. Come il frastuono dei suoi salti a balzelloni si fece da presso, all’improvviso, aprì la porta ed uscì sul pianerottolo con la scopa alzata, pronta a calarla sulle spalle del saltatore. Alla sua vista, Franco si arrestò a mezza rampa davanti a lei, spaventato, ma più ancora meravigliato, poi rapidamente fece mente locale e tra il tornare indietro o rischiare di essere colpito scelse questa seconda opzione e tentò di forzare lo sbarramento, cercando di addolcire a parole l’ira della zia, Ma su, signorì perché mi vuoi menare? Ti prego, ecc., ma la zia era inflessibile, Passa, gli diceva e vedrai. Dall’interno della nostra abitazione, giunse una voce, che succede? Chi è là? Fu un attimo la zia voltò il capo verso l’interno per rispondere a quella domanda, Chi vuoi che sia? Il figlio di Cucucc’, ed ecco che Franco tentò il tutto per tutto: con voce che voleva sembrare offesa per il nomignolo del padre, disse: Signurì, mò nn cumingem’ ch li sobbrannum! e spiccò il salto decisivo, giusto in tempo per beccare un colpo di scopa tra capo e collo, perché la zia con la coda dell’occhio aveva intravisto la mossa del ragazzo ed era stata più veloce di lui a menare il colpo. Ciò non ostante Franco non si fermò e riuscì a passare, schivando il secondo colpo che andò a vuoto. Giunto alla fine della gradinata, si voltò, Però, signurì nn s’ fa cuscì

.E finì cos; ad ogni modo, mi sembra di ricordare, da quel giorno i ribalzi cessarono, o quantomeno furono più discreti, o noi ci eravamo abituati e non ci facevamo più caso. O forse era passato già il tempo e noi tutti eravamo cambiati.

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