DE RELIGIONIBUS
Pancrazio aveva un suo intimo convincimento che sapeva divergente rispetto al suo abituale modo di rapportarsi col mondo esterno e consisteva nel fatto di occuparsi di cose di cui personalmente non gli importava un accidente, ma che gli sarebbe piaciuto vedere far parte del patrimonio spirituale degli altri in quanto certo che si trattasse di cose buone che qualcuno avrebbe ben dovuto coltivare, mentre a lui bastava constatarne i benefici effetti.
Una di queste era la religione, verso la quale non sentiva nessuna attrazione, anzi in pubblico mostrava di snobbare, sembrandogli questo l’atteggiamento macho che più gli si addiceva, d’altro canto non gli aveva detto il suo mentitore (anche questa era una chicca, significava maestro) che sacer, in latino, significava separato? E lui da parte se ne stava, rispettosamente. Ma ben altro era l’atteggiamento nei confronti di quelli che con sincerità si dichiaravano credenti, perché laddove egli riscontrava qualcosa di genuino, la sua approvazione diveniva ammirazione; tutte le volte che manifestazioni di carattere devozionale, venivano alla luce, nei parenti, amici e conoscenti, che suscitavano in lui sentimenti di gratitudine e di benevolenza, egli segretamente ne gioiva.
Nella sua famiglia, c’era la moglie, Giulia che lui chiamava la pinzochera e la figlia, che invece era una ribelle, un po’ come lui, ma che, essendo femmina e per di più molto giovane, avrebbe dovuto tenere un contegno più confacente (o confaciente? si chiese, ma poi tirò dritto).
Antonello Da Messina, Annunciata
Più volte aveva pensato di metter per iscritto quello che pensava in merito a questo suo singolare atteggiamento e sottoporlo all’esame di Mauritius. Per sapere come la pensava. Su un testo di studio della figlia, in merito alla storia delle religioni aveva trovato citato un libro sul culto dei romani, dal titolo accattivante (nessuna paura, egli si sentiva buonissimo); il titolo era De Religionibus. Sarebbe stato azzardato dare al suo, lo stesso titolo di quel libro? Qualche perplessità sorgeva, perché quello parlava di culti religiosi romani. Ma anche questo stimolava la sua vanità, in quanto gli dava agio di vantarsi del fatto di sapere tante cose. Per lasciare Rimiratore con un palmo di naso. Pure il professore Evaris, avrebbe dovuto ammettere che la cosa era azzeccata. Ma poi, non l‘aveva (ancora) fatto, per modestia, più che per prudenza.
Un giorno, riordinando lo scaffale della libreria, trovò un fascicoletto dattiloscritto dal titolo Immacolata Concezione, senza firma ma lui capì subito che era opera di Maurizio. D’altro canto la festa dell’Immacolata c’era stata pochi giorni prima, ma no, quello scritto recava la data dell’8 dicembre, ma di alcuni anni prima.
Era comunque una buona base per un lavoro più ampio, quello che sperava di fare, prima o dopo. Si ricordò, a questo proposito di quell’Abecedario dei primi tempi dello Zibaldino, ambizioso proposito di un’opera collettiva, il quale altro non era che una raccolta, in forma quanto mai schematica, delle discussioni che allora si facevano, con la partecipazione di ognuno di loro.
In quel libro mastro, che nel frattempo aveva raggiunto dimensioni ragguardevoli (amici miei, non vi sembra di sentire Maurizio in questa lingua così sforbiciata? ma questa invece è farina del mio sacco), egli si ricordava bene, per aver fatto per molto tempo il compilatore di quell’embrione ora assurto alla gloria dello Ziba, erano state riportate le considerazioni pubblicamente fatte su molti argomenti di carattere religioso e quindi altro materiale avrebbe potuto attingere da quella fonte, sempre allo stesso scopo di fare finalmente il suo capolavoro.
Quella sera, animato dal sacro fuoco della creazione letteraria, si portò il libro a casa, insieme allo scritto di Maurizio e passò l’intera notte in un lavorio disperato di ricerca e di assemblaggio di vari brani di natura diversa, facendo sforzi inauditi nel tentativo di renderli compatibili ai suoi fini ancora oscuri ma in via di progressiva illuminazione.
Antonello Da Messina, Il sorriso dell'Ignoto Marinaio
Nella cameretta ove si era rinchiuso per non essere disturbato, c’era uno specchio. Egli vide le sue sembianze (ma che so ‘ste sembiante? Si chiese perplesso). Il volto che vide (s)tagliarsi sulla superficie di vetro, non era il suo. Sorrideva beffardo. Aveva letto che alcun studiosi (sempre loro!) avevano accertato che non di un ignoto marinaio si trattava, ma di un ben noto vescovo. Era necessario distruggere un mito? Distruggere magari no, perché i capolavori non si distruggono all’esame della verità, ma togliere la parte di mistero che esercitava un fascino tutto suo: (e gli è andata bene; a Leonardo è capitato di peggio: qualcuno ha azzardato che il volto della Gioconda sia il suo senza barba e il famoso sorriso, allusivo di costumi sessuali del terzo genere.
Guardando meglio, si riconobbe e non rideva. Quanto sono brutto come letterato! Pensò, ma poi, fermandosi e collocandosi davanti ad esso, assunse un’aria severa: Chi son io? Quel Passator Cortese di cui il Poeta dice che “tenne”, senza specificare cosa, oppure quel pittore che in una rissa da cantina fece fuori l’avversario e si rifugiò dal Papa? Caramaggio mi pare che si chiamava, ma avrebbe potuto essere anche Cara Tuttolanno …No, signori miei, disse infervorato, sono l’umile Pancrazio, ai vostri ordini. Ma i casalposterlengo (chi sono poi, questi? Tranquillo, l’ho detto perché onomatopeca, ci sono dentro i posturi) diranno umile, sì, ma grande! Da auto datto, (non so perché Maurizio insiste con ‘sta parola, io l’auto a quel tempo? Magari! E poi data da chi? E’ impensabile). Comunque dice che ho fatto tanta strada; sì, ma a piedi!
Ma questo libro sà proprio da fare. Piangete angeli del cielo, ma non temete: Pancrazio arriverà ad un passo da voi, ma non farà torto a nessuno.
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