TENZONAR COL VENTO


                                                                           

Sbaglia chi ritiene che Pancrazio non avesse una spessa vita interiore e non pensasse di sé, così come era abituato a fare con gli altri, senza farsi sconti, ma nemmeno torti. Gli capitava talvolta di parlare di sé in terza persona, come un romanziere parla di un proprio personaggio, non senza un approfondimento di aspetti particolari della sua psicologia e un adeguamento al modo di pensare e di parlare che sapeva essere suoi.
Quello che segue è un raro esperimento andato mi sembra a buon fine, di vari tentativi da lui fatti, di raccontarsi così come si vedeva con la perspicacia e le contraddizioni del suo carattere, come colui che, uscito da se stesso e negatosi alla vita, si osservasse vivere ed agire come una persona qualsiasi.
Ecco cosa diceva di sé.
  
Dal momento in cui si era convinto di aver raggiunto un ruolo ragguardevole nell’ambito del circolo culturale Lo Zib, versione accorciata di Aldino, per non ripetere sempre una parola troppo lunga, che poi non significava niente, mentre così c’era almeno uno da nominare, anche se fino ad allora nessuno con quel nome si era aggirato da  quelle parti, Pancrazio aveva cominciato a pretendere qualcosa di più per la sua persona anche dal punto di vista estetico, cosa per cui si era comprato un bel Borsalino che calzava in testa tutte le volte che usciva per recarsi al circolo, sia d’inverno che d’estate ed a maggior ragione nelle stagioni intermedie.

                                    
 
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Era da allora che aveva cominciato a far caso al vento. In passato non ci aveva mai pensato, tranne che da ragazzo, quando, nelle giornate di vento forte, sul crinale della collina, a braccia aperte e gambe allargate, contrastava l’incalzare delle forti folate con tutto il suo corpo e poi si lasciava andare, giù per la china, correndo a balzelloni e gli sembrava di poter volare da un momento all’altro, spiccando un salto più alto dei precedenti.

Col passar degli anni, spenti i sussulti adolescenziali, col vento aveva avuto a che fare in rare occasioni e di minima importanza. Quando doveva accendere una sigaretta e sfregava il fiammifero contro vento, quando andava in barca cogli amici e di colpo si levava il vento ed allora erano cazzi, se non c’era uno skipper bravo.

Non immaginava che con l’acquisto di un cappello, potesse scoprire ancora effetti del vento che, anche se non sempre piacevoli, erano comunque nuovi alle sue esperienze. Come quello di rincorrerlo per il centro della città, dopo che il vento, con un colpo proditorio (termine di Maurizio, lo doveva ammettere), glielo aveva portato via, cavandoglielo dal capo nonostante la notevole rincalzatura che egli, in previsione di una tale evenienza, aveva dato al cappello stesso. Il quale. Rotolando davanti a lui, ogni volta che egli stava per afferrarlo, spiccava un salto e si portava più lontano, fra le risate dei ragazzi scostumati. Che egli avrebbe volentieri preso a ceffoni.

Tra gli aspetti positivi, densi di significati astronomici, c’era quello di avere scoperto negli ultimi tempi, una bella espressione, Tenzonar col vento, che doveva aver sentito o letto da qualche parte, che riempiva il suo cuore grande, di una tenerezza inusitata. Doveva essere qualcosa che aveva a che fare con le piante, e con la vegetazione, quello che insomma, per gli istruiti come lui, va sotto il nome di mondo vegetale. E ben lo sanno i vegetariani, i quali, con la scusa di proteggere il pianeta dalle emissioni animali, rischiano di spelacchiarlo, a forza di convertire sempre più gente a mangiare insalate giacché bistecche.

La tenzone, come parola, aveva avuto bisogno di una piccola ricerca: due parole carpite a Maurizio (una lotta, anche con significato allegorico di impegno, forte determinazione con se stesso; e poi Wikipedia, che pensavate che il Pancra, non fosse capace di usar questi moderni mezzi di cultura? E così aveva appreso che la tenzone altro non era che la lotta quotidiana che un albero secolare fa con l’aria e con il vento. E pensare a questo concetto profondo di un essere, anche se di una altro mondo, ma non nel senso di un altro pianeta, ma per esempio quello vegetale, che vive centinaia di anni,  sempre fermo nello stesso posto e che ha combattuto e seguita a combattere, giorno dopo giorno, con le bizzarre (sì, sì, proprio le bizzarre, pensava Pancrazio), del vento, era una cosa che occupava tutto il suo spirito e lo faceva sembrare un raro esempio di pensatore, come dovevano essere quelli dei tempi passati, di cui spesso parlava Valter sullo Zib(Aldino) come spiegato più sopra.

Una lotta che dura secoli, del povero albero, condannato all’immobilità e costretto a torcersi in tutte le direzioni, secondo il capriccio di un elemento, il vento, che non ha pietà di nessuno, né rispetto della vecchiaia.
Nei momenti di maggiore commozione Pancrazio, mentre traeva conforto dalla constatazione che se l’albero stava ancora  lì, era segno che la lotta l’aveva vinta lui, pensiero da cui traeva la forza a continuare nelle sue elucubrazioni, dall’altro, quasi soffocava di lacrime al pensiero di lui, di Pancrazio, il semplice, il  modesto Pancrazio, non simpatico a  tutti, anzi da molti ritenuto di valore zero, fosse capace di albergare idee così grandi da non entrare per intero nel suo pur grandissimo spirito.

Una volta, durante una passeggiata in montagna fatta con altri membri del circolo, Egli, Pancrazio, con la scusa di dover fare pipì, si era allontanato per addentrarsi in un folto bosco. Dopo qualche tempo, Maurizio, vedendo che tardava a tornare, si addentrò anche egli fra le piante in quel punto fitte, ed andò in cerca  del compagno. Seguendo un sentiero, ad un tratto, sentì come dei singhiozzi, una voce soffocata e, sì, un pianto dirotto che faticò a localizzare.
Non lo credereste ma, svoltato un cespuglio, egli trovò Pancrazio abbracciato al più grande degli alberi secolari, che piangeva a dirotto, senza più potersi trattenere.
A tenzonar   col vento, a tenzonar col vento, ripeteva, fra le lacrime. Ed io non c’ero. Perdonami, perdonami, perdonatemi tutti, alberi dell’anima mia.

Non che si aspettasse il Premio Nobel per la letteratura, dopo quella bella invenzione letteraria, ma avrebbe voluto vedere quanti padreterni del circolo, che lo guardavano dall’alto in basso, sarebbero stati capaci di fare altrettanto. Ma Pancrazio si sentiva buono ed in pace con sé e con gli altri e si accontentò di prendersi in giro da solo, Ah, Pancrà, se solo avessi fatto quello che dovevi fare quando era l’ora…

Una vocina chiese Autoironia Pancra? Ma sì, autoironiamoci, perché no? In  fin dei conti, chi crediamo di essere?

Commenti

  1. Un brano lirico, delicato, narrato in modo sommesso come una confidenza pronunciata a bassa voce, con discrezione. Un Pancrazio diverso dal solito, più autentico.

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