IL COLLOQUIO

Cosa vorresti sapere da me, com’è il mondo di là? Se c’è un Inferno, un Purgatorio ed un Paradiso? Se siamo vivi, se esistiamo?

No, caro padre. So che non potresti darmi queste informazioni e, poi, sai una cosa? Non sono nemmeno tanto curioso di saperlo. Tanto, tra non molto, l’appurerò da me. Ed allora, sì, che sarò molto elettrizzato: sarà il momento supremo; per un uomo, pensare di essere ad un passo dalla verità, dopo una vita passata ad arrovellarcisi, sarà veramente fondamentale e, come dire senza cadere in contraddizione? anche finale.

Non vorrei deluderti…Ma tu di me che pensi?

Vuoi dire di dove sei ora? Niente, non penso niente.

Ma il fatto di vedermi qui, potrebbe essere un elemento di certezza.

Caro padre, tu sai bene che su questa terra nulla è certo. Il fatto di vederti qui potrebbe essere frutto della mia mente, una mia immaginazione.

Mio padre mi fissava dalla sua parte della panchina, gli occhi leggermente appannati, il sorriso appena accennato ed un’espressione di estrema bontà, che era quasi pietà. Penso per la mia condizione di povero mortale.

Per rompere un po’ l’incantesimo della situazione del tutto eccezionale nella quale ci trovavamo io vivo, almeno credo, e mio padre, morto da sessant’anni, cominciai col parlare io.

Dei giorni immediatamente successivi alla tua morte, ricordo la pioggia; la primavera era ancora lontana, ma non faceva freddo. Dentro casa un silenzio a tutte le ore. Parole sottovoce, sussurrate, come in chiesa. D’altro canto l’atmosfera greve della cerimonia funebre sembrava ancora ristagnare nei nostri cuori. Una sola nota di sollievo era il fatto di trovarci noi soli, di famiglia, a cominciare ad avvertire il dolore vero della perdita, svegliandoci da quella forma di anestesia ipnotica, creata dalla rappresentazione pubblica che se ne era fatta. E dovevamo ancora prendere coscienza di quello che era veramente avvenuto.

Nostra madre, muta, gli occhi arrossati per il pianto; la zia Gina immusonita, perché risentita con il destino che si era accanito contro suo fratello. Noi figli, dell’età che andava dai 29 anni di Rita, sposata con figli, la quale non viveva più con noi, i 27 di Myriam, i miei 23, i 22 di Vittorio, fino ai 19 di Maria Gabriella, ragazzi per modo di dire (ma allora eravamo più bamboccioni rispetto ai giovani di oggi, ricordi? La maggiore età si raggiungeva a 21 anni e le donne non avevano diritto di voto!) , ci aggiravamo per le stanze come fantasmi.

Io avevo trovato un diversivo soffermandomi ad un’edicola di giornali, per me sempre punto di attrazione come una Fata Morgana, memore dei giornali che compravi tu, che io sempre leggevo, mi ero lasciato attrarre del primo numero di un nuovo periodico illustrato di viaggi e turismo intitolato “Atlante” dell’Istituto Geografico De Agostini dedicato all’Isola di Bali, che divenne per me in quei giorni, oggetto di culto, come via di fuga dalla tristezza.

La casa senza di te sembrava vuota, ma era come se tu dovessi rientrare da un momento all’altro; ai pasti, però, la finzione finiva, perché ci mancava l’allegria che sapevi creare tu.

Seguì un silenzio angosciato. Mio padre guardava lontano; non immaginavo cosa stesse vedendo.

Poi iniziò a parlare.

Mio padre, Saverio, era un povero contadino, disse, guardandomi rinfervorato. Aveva passato tutta la sua vita a correre da un campicello all’altro che possedeva, pochissima cosa, quanto bastava per mantenere la famiglia ad un livello di sopravvivenza, per provvedere personalmente alle operazioni stagionali dell’agricoltura, ammazzandosi di fatica. Era un brav’uomo e mi voleva molto bene. Mia madre, Rita, l’hai conosciuta, era una minuscola creatura con un grande cuore dentro. Mio fratello Luigi, mia sorella Gaetana, care persone, che hanno sofferto della privazione di un’opportunità come quella che fu data a me, da mio padre, che vendette un campicello per pagarmi gli studi, ma non potette fare altrettanto con loro, per motivi economici. Tra di noi calò un’ombra che non mi fece più tornare volentieri a Città Sant’Angelo e ne porto ancora il peso. Gina, invee venne a stare con noi ed è stata il nostro angelo.

Ma di Città Sant'Angelo io ricordo tutto, i giochi con altri bambini a Largo Ghiotti, il Corso, la Villa, il Duomo. Se tu vai sul tratto coperto del Belvedere, potrai ancora trovare tracce di me. Quello è il posto in cui per la prima volta detti un bacio ad una ragazza; impossibile che non sia rimasto qualcosa nelle pietre.

Ma a casa non avevo un posto dove poter studiare, tanto era piccola. Ma ci fu un maestro che prese a benvolermi e mi faceva andare a casa sua a fare i compiti e alla fine dei cinque anni della scuola elementare, insistette con mio padre perché continuassi negli studi. Aveva molta stima e di me e pensava che dovessi fare grandi cose.

La vita sulla terra è strana. Ci perdiamo per niente. Perché non riusciamo a parlarci. Io con te ho tentato qualche volta e mi compiacevo vedendo che tu mi corrispondevi e che in te c’era la stessa ansia che avevo io. Ma poi le circostanze ci hanno impedito di andare fino in fondo, come avremmo voluto. Mi dispiace, caro figlio. Io per voi avrei voluto fare molto di più, ma non mi è riuscito. Siamo troppo limitati, troppo condizionati dagli eventi esterni e ciò che è nel nostro cuore, spesso non ha modo di uscire. Né posso garantirti che quello che non ti è stato dato, ti venga reso, sotto altra forma, in una seconda occasione.

Questo lo vedrai da te, ma il mio tempo sta per scadere e io non so se ci saranno altre finestre come questa, in cui ci siamo rivisti ed abbiamo parlato. Il resto è ancora un mistero. Non ti angosciare, tutto avverrà in modo naturale e tu saprai.

Un lungo, appassionato sguardo, dopo di che,

Addio, ha detto e si è alzato dalla panchina, avviandosi lentamente verso il margine della strada.

Addio, caro padre.

Il bus, a luci spente, aspettava alla fermata. La portiera si è spalancata, lui è salito e poi si è richiusa senza far rumore. Il pullman è partito lentamente, emettendo un piccolo sibilo che si è allontanato e presto è cessato.

Commenti

  1. IN MARGINE AL COLLOQUIO

    Quello che scrivi è una parte di quanto detto in precedenza sul due marzo. Infatti lo scritto precedente finiva con nostro padre che riprendeva l’autobus per tornare nel suo regno. Per cui tutto quello che di nuovo hai così ben descritto ora poteva essere inserito nello scritto precedente. Ma questo non è un appunto anzi tutt’altro.
    Mi sembra però ci sia una vecchia leggenda non so da che parte provenga secondo cui i defunti dovrebbero essere lascati andare, perché fino a quando noi cerchiamo di trattenerli, essi non troveranno mai quella pace che meritano e a cui tendono.
    Mi sembra comunque sia sempre sfuggita l’anomalia del corteo funebre che uscito dalla chiesa di S. Antonio, anziché prendere la via per l’arco di porta madonna, girò in direzione opposta per far passare per l’ultima volta nostro padre nei luoghi per lui sacri quali il duomo, dove soleva ascoltare la messa domenicale in compagnia di altri parenti ed il caffè di Fumo dove soleva prendere più di un caffè al giorno.
    A parte questa omissione, peraltro non necessaria ai fini del racconto mi sembra che il tutto sia permeato da un alone funesto che pur rappresentando perfettamente lo spirito che aleggiava in quei giorni in cassa nostra, non sarebbe stato auspicato da nostro padre, che fino agli ultimi aneliti di vita esortava la zia Gina a preparare il pranzo dei giorni di festa.
    Ora, fossi in te, dedicherei la tua arte (perché di arte si tratta) nel raccontare e nell’immaginare e fatti reali o di fantasia come se fossero vere, tanto sono credibili.
    Io per esempio gustavo i film più dai tuoi racconti commentati che non direttamente dalla visione delle scene sullo schermo.
    Ora per chiudere, che ne pensi di scrivere qualcosa su fatti o aneddoti quali ad esempio “Il codazzo” o “Il plu, che fame nua?” od ancora il discorso di Antonio alla frontiera francese, quando instaurò un discorso nel suo ottimo francese maccheronico con i finanzieri italiani scambiati per gendarmi francesi?
    Ma, sono sicuro, gli argomenti non ti mancano.

    Vittorio ha scritto il testo di cui sopra.

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  2. Caro Vittorio, la tua memoria è migliore della mia. Non ricordavo la particolarità del corteo funebre col percorso invertito, come non ricordavo l’esortazione a zia Gina a far sì che nonostante tutto si onorasse il giorno di festa. Quanto alla leggenda di lasciare andare i morti affinché trovino pace, non credo che la mia finzione sui ripetuti incontri con nostro padre, possa costituire motivo di sofferenza, perché non ci sono rivendicazioni da una parte o dall’altra, nei nostri colloqui, ma solo il disvelamento di sentimenti tenuti nascosti, o non sufficientemente espressi quando era il tempo di farlo, per una mal riposta forma di ritegno che viene tardivamente abbandonato. Una nostalgia del non detto che alberga nei nostri cuori. Quindi un buon viatico, anziché un ostacolo. Ma sono certo che tu proprio questo volevi dire.
    Ti sono molto grato per il tuo apprezzamento, le tue osservazioni sempre benaccette, i tuoi suggerimenti e ti rinnovo i miei sentimenti di affetto fraterno.

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