GLI ULTIMI SARANNO I PRIMI

Sono arrivato dalla parte di via Carlo Forti, passando, come ai vecchi tempi, davanti al palazzo delle Poste; la via appariva come sempre. C’era lo slargo dal quale partiva la ruvetta, quasi parallela a via Trento e Trieste, dove paziente aspettava, sfrogiando di tanto in tanto, il cavallo di Giovanni il carrozziere, così chiamato da noi, perché era l’ultimo cocchiere della città ed aveva una bella carrozza con i sedili imbottiti con la quale faceva il suo servizio di trasporto pubblico. Aveva una gualdrappa buttata sul dorso, il sacchetto del fieno appeso alle orecchie con il muso dentro e ruminava tranquillo, ogni tanto aveva uno scarto, battendo uno zoccolo sul selciato ed agitando la coda come una ventola, per scacciare mosche e tafani che lo infastidivano.

Al punto mediano della via, l’abitazione di Nunziata appariva nuova e ridente. Anche gli abitanti, che non so come, erano visibili dall’esterno, erano sereni puliti e ben vestiti. Prima di tutti, lei, la padrona, bella, solare, scomparse le rughe, i capelli neri e lucenti ben pettinati, non aveva nulla della vecchia ubriacona disperata ed infelice che ricordavo.



Ubaldo, il marito, noto nella via come “lu ciupp’”, non era più claudicante. Sobrio e sorridente, esercitava con molto buon senso le mansioni del capo famiglia, anche nei confronti della moglie, consenziente, immemore, lui, dei maltrattamenti da lei subiti, in seguito all’infortunio che lo aveva reso invalido e ridotto, da boscaiolo a rottame. Un peso per la famiglia, tutta sulle spalle di lei, una vita d’inferno, tra miseria e degrado.

Carmela, la prima figlia, non del tutto in asse, che, attirata con la promessa di qualche ricompensa nel chiuso di certi androni, era spesso vittima di bande di ragazzini che tentavano di alzarle la gonna, perché sapevano che lei non portava le mutande, ora era matura ed assennata, non conservando memoria del suo passato triste.

Ulderico, il figlio maschio, debosciato e deficiente, era ora un giovane educato e gentile, di buona compagnia. Mancava all’appello Graziella, l’unica che era riuscita ad evadere da quella famiglia, con un buon matrimonio, era emigrata in Inghilterra ed era scomparsa. Forse sarebbe tornata, pensava la madre, dopo un periodo di penitenza.

In via dei Mazzaclocchi, al n.1, dove abitavano lo chauffeur, autista di piazza, con la moglie, la chuaferressa, ed il figlio, il bel terrazzino che dava proprio di fronte a nostri due balconi, stranamente era scomparso.

La lattaia, la cantante, il bidello, il giornalista socialista, mbè, anche quello, seguivano nella lista. Avevo visto una lista? Non proprio, ma l’effetto era quello. Il nuovo assetto della via, sembrava fare giustizia di alcuni grossi torti, mentre toccava appena quelli che avevano goduto di piccoli privilegi, che comunque erano aboliti.

 L'immagine può contenere: cielo, albero, nuvola, spazio all'aperto e natura
                            Lago  d Campotosto- foto di Luciana Del Grande (p.g.c.)


Al posto del Laboratorio di Igiene e Profilassi, da me spesso frequentato con l’incarico di recare campioni e ritirare referti di analisi cliniche, c’era un’abitazione senza indicazione del nome degli occupanti.

Al numero 33, il grande portone era intatto, ma non era stato riverniciato. L’ingresso era un po’ tetro, come se la casa fosse stata abbandonata da molto tempo.

Il barbiere Carluccio detto cucuccio, con la moglie Gemma, modista ed i figli Franco e Romolo che abitavano al terzo piano, il gigolò del secondo piano, Tonino, che tormentava la vecchia madre con la fissa che di fave ne voleva 33 sellecchie, la famiglia del primo piano, quella del direttore didattico e la moglie maestra, con cinque figli e la zia Gina sempre all’erta erano andati tutti via, chissà dove, fuori comunque da qualunque elenco e graduatoria.

Uscendo dalla parte opposta della via, quella che dà su Piazza Dante, con l’imponente palazzo del Liceo Ginnasio con annesso Convitto Nazionale, non potetti non dare uno sguardo alla porta chiusa dell’abitazione di Fernando Il Ficciuso, con il figlio Peppino, beate le loro anime ovunque siano, e al palazzetto del Mutilato, dove non ho visto entrare o uscire mai nessuno.          

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