IL TONFO

La serata di poesia, come era prevedibile, risultò un fiasco, di cui tutti furono subito consapevoli, tranne, ovviamente, l’interessato, quel Pancrazio, che ne era stato il promotore e sponsor.

Questi aveva cominciato, in apertura, col rileggere la poesia con la quale aveva offerto un saggio della sua bravura, qualche giorno avanti (1), quando si era parlato per la prima volta di questa iniziativa. Si trattava di quello “Strambotto del cuore innamorato”, che aveva suscitato sorrisetti ironici in sala e di cui ora egli si affannava a spiegare il significato, nella convinzione, in realtà non del tutto errata, che non fosse stato inteso appieno dagli ascoltatori.

E’ la storia di un uomo che ha molto amato e non si rassegna alla fine del suo amore, al punto di perdere la fede e mettere a repentaglio il destino della sua anima immortale.

 
                                                                    Foto pubblicata da Simone Di Silvestro
 
Ti è piaciuta, Maurì, la parola repentaglio? Che credevi di saperle solo tu le parole difficili? E la trovata del Nefasto? Ma lo sapete chi si nasconde sotto questo nome? Nientemeno che Belzebù! Chi l’aveva capito?

Vedete, cari amici, aveva detto, alcune parole da me usate in questa poesia, non perdete tempo a cercarle sul vocabolario, perché non esistono; sono state semplicemente inventate da me in base ad una speciale licenza che i poeti hanno di scrivere anche degli “svrociconi”, che sono, per chi non lo sapesse, degli errori grossi come case. E queste parole sono, per esempio, “strambieri” e “cruscolieri”, nonché, sul finale della poesia, il “convescio”, che vi sfido a dirmi cosa è.

Strambieri, lo avete capito, viene da “strambo” che vuol dire “stortignaccolo”, fuori norma, storto di coccia. Mentre i cruscolieri sono in realtà i crusconi, chi non lo sa? I così detti accademici della Canìja, cioè della Crusca. Questi passavano al setaccio ogni parola, come si fa col grano dopo la molitura per separare la farina dalla crusca; cioè le parole buone da quelle cattive.

Rimane il convescio; ma, che può essere il convescio? Lo starsene senza fare niente? Non propriamente. Il verbo latino “convescor”, vuol dire mangiare insieme. Ma pensiamo anche al convento che viene da “convenio” e significa “stare insieme”. Starsene in convescio potrebbe significare stare in convento, che è una riunione di frati, (vedi anche le moderne Convention aziendali), ipotesi che però al concetto dello stare insieme non aggiunge quello di mangiare. Infatti in convento si va non per mangiare (tanto più poi, che, non si sa quel che “passa il convento”, anche se è proprio di quello che ci si deve accontentare), ma per stare insieme ad altri frati, dimorare, pregare e fare in genere quel che fanno gli altri (sto coi frati e zappo l’orto). Starmene in convescio vuol dire, quindi, starmene insieme agli altri ad aspettare.

Aspettare cosa? Chiese una vocina.

Che ti cada in bocca un piatto di maccheroni. Rispose Pancrazio, pensando di essere spiritoso, incurante che a chiederlo fosse stata una donna e forse anche per questo. Ma allora non hai capito niente?

Maurizio intervenne.

Pancrazio, chiedi scusa. Non ti permetto di parlare così ad una signora. Sei stato un cafone.

Ma io me ne sbatto, perché questa volta la serata è mia. Il poeta sono io e posso fare e dire quello che voglio. Ricordiamoci della licenza poetica che ho e che voi altri non avete.

Pancrazio stai per fare un tonfo. Sai tu cos’è un tonfo? Significa che ci sbatti il muso.

Qui bisogna aprire una parentesi; Maurizio ha intenzione di salvare la serata, ma non in nome delle poesie di Pancrazio. Perciò prova a far slittare il discorso su un altro argomento che, oltre a questo scopo, nasconde anche l’intento di far capire a Pancrazio il rischio che correrebbe se insistesse nel suo atteggiamento. Il suo è un discorso apertamente allegorico.

Il ”tonfo” e il “tuffo” sono parole che nascono da una stessa origine onomatopeica, che è il rumore prodotto da un corpo che cade da una certa altezza, in acqua, o sul terreno, ma in quest’ultimo caso, il discorso è limitato al solo tonfo.

C’è una netta differenza tra il rumore fatto da un tonfo, da quello prodotto da un tuffo, pur nel caso comune della caduta nello stesso elemento liquido.

Il tonfo è un rumore sordo, uno sbattere, sull’acqua, o sul terreno, improvviso, imprevisto, che riempie il luogo dove si produce e persiste come un’eco nella memoria di chi l’ha sentito. Effetto della forza di gravità, applicata ad un corpo che non ha più appiglio e viene trascinato in basso dal suo stesso peso.

Il tonfo ha molti sinonimi, ma nessuno che renda meglio, sonoramente, quel tipo di rumore, del termine stesso, che produce ai nostri sensi la sensazione di appiattimento, di spiaccicamento del corpo, sulla superficie dura contro cui va a sbattere.

In senso figurato, poi, il tonfo è anch’esso una caduta e un rumore, ma solo virtuali. Non riguarda la materia, ma lo spirito. E’ un insuccesso clamoroso. Il rumore prodotto dal tonfo fatto da uno spettacolo, un libro appena apparso in libreria, il film di un regista famoso, non è meno assordante di quello fatto dalla caduta materiale di un oggetto pesante in una chiesa vuota.

Quando poi il tonfo, acustico o figurato, supera un certo livello del diapason, si parla di “boato” e gli effetti possono essere disastrosi.

E’ tutto chiaro, tentava di interrompere Pancrazio, per riprendersi la parola, anche nelle mie poesie c’è una Chiesetta, di cui vi voglio parlare…

Ma Maurizio non tenendo conto della interruzione, continua imperterrito:

Il tanfo è parola vicinissima al tonfo, anche se ha un’origine diversa. Colpisce non l’udito, ma l’olfatto ed ha un effetto simile ad una caduta. Entrando in un ambiente, impregnato di un tanfo particolare, si ha la stessa sensazione dell’impatto con una sostanza solida, il puzzo sgradevole, forte, stagnante derivante da una fonte malsana, umida e piena di miasmi.

Il tuffo invece è fresco e rigenerante. Avviene in acqua ed il rumore prodotto è uno schiocco, che si esaurisce subito. Evoca l’immagine di un corpo snello ed atletico che si immerge in acqua con il minor strepito possibile, riemergendo a poca distanza agile e disinvolto. Non è uno scroscio e non è uno scrocchio.

Anche per il tuffo la fantasia linguistica ha individuato varie possibilità di un uso metaforico, ed abbiamo un tuffo nel passato, un tuffo nei sogni o nella realtà, a seconda del soggetto, ecc.

Io dei tuffi e dei tanfi non mi interesso – proruppe Pancrazio – e volevo parlare dei papaveri di campagna e delle contadinelle…

Infatti non è dei tuffi che devi preoccuparti, ma dei tonfi, soprattutto, caro Pancrazio, che possono fare molto male e io ti consiglio per questa sera di soprassedere. Ci leggerai le tue poesie in un’altra occasione. Vedi molti sono andati già via e siamo rimasti in pochi; a chi le leggeresti le poesie, alle sedie vuote?

Ho capito, tu sei geloso del fatto che per una sera, ti ho rubato la scena e non mi vuoi far leggere le mie composizioni. Basta, non le leggerò più. Credete di farmi un piacere ed invece sono io che lo volevo fare a voi, ma evidentemente non ve lo meritate. Addio.

Si alzò con fare impulsivo, radunò le sue carte e le cacciò malamente in borsa, quindi, muovendosi per andare via, rovesciò tre o quattro sedie intorno a lui, con grande fracasso. Sbattè la porta, ma prima che raggiungesse l’uscita del bar, si sentì nella stanza attigua, un tonfo sordo come di uno che cade a terra rumorosamente in mezzo ad altri rumori indistinguibili. Maurizio si affrettò ad aprire la porta per vedere cosa fosse successo, ma si trovò di fronte Sebastiano abbastanza infuriato.

Che gli avete fatto, stavolta? Disse, è uscito che non lo riconoscevo: ha dato un pugno sul tavolo che l’ha spaccato!

Ma lui, è caduto? Chiese Maurizio.

In mezzo al tavolo. Ma è già scappato via. Sembrava che avesse il diavolo alle calcagna.



1) Il testo della 'poesia' è pubblicato nel post "Zerbinotto" di questo blog.

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