IL BIGONCIO

A settembre maturano dei fichi molto buoni. Sono di una qualità che la zia Gina, originaria di Città Sant’Angelo, chiamava, non so se per sua invenzione o perché lì così si chiamassero, fichi “S. Franceco”, i quali avevano un colore esterno di un marroncino stinto, identico a quello dei sai dei fraticelli di quell’Ordine ed un cuore rosso vivo come sangue, riflettendo anche sotto questo aspetto, l’indole dei frati, che era e credo sia tuttora, di grande umanità.

La leggenda vuole che la campagna romana, producesse molti di questi fichi S. Francesco, che al momento della raccolta, venivano messi dentro bigonci per essere portati al mercato. Naturalmente, i contadini mettevano sotto i fichi meno appariscenti, mentre ponevano con molta cura, quelli più belli e rigogliosi, con spaccature laterali invitanti, sulla sommità del bigoncio, così da fare la migliore impressione sugli acquirenti.

Il bigoncio era un recipiente di legno, fatto a doghe, che si usava soprattutto nella viticoltura in occasione della vendemmia, della capacità di circa cinquanta litri o chili. Non mi chiedete come facessero a conservare integri i fichi che capitavano sotto, anche se probabilmente erano i meno maturi (i così detti “pallonetti”) e quindi più resistenti, schiacciati sotto la mole dei fichi maturi e messi in bella vista. Quasi certamente i bigonci non venivano riempiti fino all’orlo.

Da qui sarebbe derivata la colorita espressione romanesca, “Er mejo fico der bigonzo”, riferito a persona, per dire qualcosa come “il miglior gallo del pollaio”, o giù di lì. Tra l’altro l’espressione è stata ringiovanita dall’uso del termine “fico”, nel linguaggio corrente dei giovani, per indicare un uomo dotato di attributi vari, apprezzati soprattutto dalle donne, sulla scia del corrispondente termine femminile, già ampiamente usato per magnificare doti muliebri.

E’ da dire, anche che l’espressione romanesca, ha superato i limiti dell’uso dialettale e viene comunemente usata nella forma italiana, “Il miglior fico del bigoncio” , sempre in un contesto ironico e scherzoso, per indicare il più interessante degli uomini facenti parte di un gruppo.

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