SEMPLICITA'
La semplicità è bella perché è pulita, piana, senza orpelli inutili. Senza intralci verbali, senza complicazioni psicologiche, come natura fa (senza il seguito pubblicitario).
Vogliamo dare un’occhiatina all’origine della parola? Dal greco? Dal latino? Ma sì, chi se ne frega, la strada è sempre quella. Proviene da “Sem” che vuol dire “senza”, più il verbo latino “Plectere” che significa “piegare”, la cui fusione dà la seguente definizione “piegato una sola volta”. Poi si dice che Il significato è quello di una cosa composta da un solo elemento, nel senso che non è duplice, o triplice, o multiplo. Infatti il senso della parola semplice è pregnante. Aho! Direte a questo punto, che fa ‘sto Maurizio, ci ciurla nel manico? Prima ci imbambola con la semplicità e poi crede di stenderci con il pregnante? Che parola è mai questa, così stridente con quello che siamo dicendo sulla semplicità? Cosa è “semplice” allora?
Facile: ciò che non è complicato. Non si può sbagliare, quello è, e basta. Ma qualcuno vuole chiarire, per favore, la storia di quella piega, che sarebbe l’unica, la sola che si trova su una cosa semplice? Sì, perché, secondo alcuni, la semplicità sarebbe come un foglio di carta, con una sola piegatura, anziché tante, come è per esempio negli origami. Una sola, ma indispensabile, in quanto, non perché una cosa è semplice, deve essere anche facile, aperta a tutti, coram populo (consentitemi la citazione, e sennò il liceo classico che l’ho fatto a fare?).
Che poi, a dire il vero, ciò che è semplice, è anche facile, ma la cosa non è così scontata come sembra. C’è di mezzo appunto il fatto della piegatura. Perché si dice che questa è indispensabile? Qui entriamo nel vivo del discorso.
Questa benedetta piegatura servirebbe a tenere nascosto il tesoro, piccolo o grande della semplicità: è vero che si tratta di una cosa fatta di un solo elemento, quindi facile da capire, da decifrare, ma questo elemento va cercato, va scoperto, va un pochino vezzeggiato, come quando uno a poker ha una doppia coppia e riprende una sola carta, ebbene quella cartucella, fatta scivolare coperta sopra le quattro rimaste in mano, non va ”trizzicata” come si deve, per scoprire dall’angolino su in alto, se è entrato un full, o se devi mollare o bluffare per tentare di prendere il piatto?
Così avviene con il semplice. Semplice finché vuoi, ma vienitelo a vedere, se vuoi capire. Così ha fatto Sciascia, con il suo “Una Storia Semplice”, un giallo esemplare, dove la soluzione è sotto gli occhi, ma bisogna sollevare il velo dell’apparenza, per vederla.
Né si opponga a quanto fin qui detto, l’argomento che la semplicità può essere anche un difetto, non solo un pregio. Certo, se per semplicità intendiamo la mancanza di qualsiasi elemento costitutivo, se, diciamola tutta, si ha poca stima della cosa semplice, in quanto non si ha la sensibilità per rilevare quanta consistenza possa esserci in una cosa resa semplice non per mancanza di mezzi, ma per sobrietà di stile, allora si può arrivare a considerare il semplice, anche, come una cosa vile, priva di valore, e, applicato alla persona umana, riferirsi ad un soggetto debole, perché non fornito dei requisiti necessari a farne un uomo di valore.
A questo punto è necessario fare molta attenzione per distinguere quello che noi chiamiamo il “sempliciotto”, che è la persona sfornita di malizia, credulona, per ingenuità congenita e dabbenaggine, sia dall’idiota, che dal “semplice” per carattere. Il pendolo in questo caso oscilla tra i due estremi di un’assoluta negatività, come nel caso dell’idiota (1), o di una qualità invece nobile e rara che si riscontra in una persona modesta, che sa il fatto suo, ma non lo dà a vedere.
Volete un opposto di semplice? Contorto, avvitato come un cavatappi. No, più “semplicemente”, complesso, problematico.
1) Un caso a parte è “L’Idiota” di Dostoevskij, che tutto è tranne che idiota.
Vogliamo dare un’occhiatina all’origine della parola? Dal greco? Dal latino? Ma sì, chi se ne frega, la strada è sempre quella. Proviene da “Sem” che vuol dire “senza”, più il verbo latino “Plectere” che significa “piegare”, la cui fusione dà la seguente definizione “piegato una sola volta”. Poi si dice che Il significato è quello di una cosa composta da un solo elemento, nel senso che non è duplice, o triplice, o multiplo. Infatti il senso della parola semplice è pregnante. Aho! Direte a questo punto, che fa ‘sto Maurizio, ci ciurla nel manico? Prima ci imbambola con la semplicità e poi crede di stenderci con il pregnante? Che parola è mai questa, così stridente con quello che siamo dicendo sulla semplicità? Cosa è “semplice” allora?
Facile: ciò che non è complicato. Non si può sbagliare, quello è, e basta. Ma qualcuno vuole chiarire, per favore, la storia di quella piega, che sarebbe l’unica, la sola che si trova su una cosa semplice? Sì, perché, secondo alcuni, la semplicità sarebbe come un foglio di carta, con una sola piegatura, anziché tante, come è per esempio negli origami. Una sola, ma indispensabile, in quanto, non perché una cosa è semplice, deve essere anche facile, aperta a tutti, coram populo (consentitemi la citazione, e sennò il liceo classico che l’ho fatto a fare?).
Che poi, a dire il vero, ciò che è semplice, è anche facile, ma la cosa non è così scontata come sembra. C’è di mezzo appunto il fatto della piegatura. Perché si dice che questa è indispensabile? Qui entriamo nel vivo del discorso.
Questa benedetta piegatura servirebbe a tenere nascosto il tesoro, piccolo o grande della semplicità: è vero che si tratta di una cosa fatta di un solo elemento, quindi facile da capire, da decifrare, ma questo elemento va cercato, va scoperto, va un pochino vezzeggiato, come quando uno a poker ha una doppia coppia e riprende una sola carta, ebbene quella cartucella, fatta scivolare coperta sopra le quattro rimaste in mano, non va ”trizzicata” come si deve, per scoprire dall’angolino su in alto, se è entrato un full, o se devi mollare o bluffare per tentare di prendere il piatto?
Così avviene con il semplice. Semplice finché vuoi, ma vienitelo a vedere, se vuoi capire. Così ha fatto Sciascia, con il suo “Una Storia Semplice”, un giallo esemplare, dove la soluzione è sotto gli occhi, ma bisogna sollevare il velo dell’apparenza, per vederla.
Né si opponga a quanto fin qui detto, l’argomento che la semplicità può essere anche un difetto, non solo un pregio. Certo, se per semplicità intendiamo la mancanza di qualsiasi elemento costitutivo, se, diciamola tutta, si ha poca stima della cosa semplice, in quanto non si ha la sensibilità per rilevare quanta consistenza possa esserci in una cosa resa semplice non per mancanza di mezzi, ma per sobrietà di stile, allora si può arrivare a considerare il semplice, anche, come una cosa vile, priva di valore, e, applicato alla persona umana, riferirsi ad un soggetto debole, perché non fornito dei requisiti necessari a farne un uomo di valore.
A questo punto è necessario fare molta attenzione per distinguere quello che noi chiamiamo il “sempliciotto”, che è la persona sfornita di malizia, credulona, per ingenuità congenita e dabbenaggine, sia dall’idiota, che dal “semplice” per carattere. Il pendolo in questo caso oscilla tra i due estremi di un’assoluta negatività, come nel caso dell’idiota (1), o di una qualità invece nobile e rara che si riscontra in una persona modesta, che sa il fatto suo, ma non lo dà a vedere.
Volete un opposto di semplice? Contorto, avvitato come un cavatappi. No, più “semplicemente”, complesso, problematico.
1) Un caso a parte è “L’Idiota” di Dostoevskij, che tutto è tranne che idiota.
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