LA DIMENTICANZA

Già Pancrazio lo prendeva apertamente in giro dandogli del “prete”, perché, a parer suo, quando parlava ai fedel…, volevo dire agli appartenenti al circolo, (anche se non iscritti; nessuno si era mai iscritto e non esisteva un registro delle iscrizioni), assumeva atteggiamenti preteschi, aborriti dall’interessato, sta di fatto che la figura del confessore non era mai andata a genio a Maurizio, ed egli non amava la compagnia di soggetti melanconici in vena di confidenze. Sotto sotto, rimaneva però in lui il dubbio che Pancrazio avesse ragione: il suo modo di fare in pubblico aveva un po’ del canonico, per la funzione che si era assunta.

Sebastiano conosceva uno per uno i suoi clienti abituali e, quanto agli occasionali usava fare la distinzione tra quelli destinati a diventare almeno saltuari, e quelli che invece erano solo di passaggio. L’aver concesso ospitalità al circolo, aveva senza dubbio fatto crescere il volume di affari del Bar dell’Olmo, che ora contava una discreta clientela sulla quale fare affidamento per svolgere un’attività continuativa, anche al di fuori di quelle ordinarie del servizio bar, come appunto partecipare un poco di più alla vita del sodalizio e curare le relazioni con il suo pubblico, anche oltre il cappuccino e la battuta.

Per esempio la cura delle anime. Se notava qualche volto nuovo che per più di due volte di seguito, si appartava in un tavolinetto di fondo, lontano dagli altri, e con l’aria di uno che vuole dimenticare un dolore vicino o lontano, ordinava da bere, assumendo il tipico atteggiamento fatalista di chi ha il cuore infranto, egli non resisteva all’impulso di avvicinarlo con le buone maniere e attaccare bottone, per cercare di scoprire il motivo di tale angoscia e vedere se poteva far qualcosa per lenirla.

Pancrazio, con la sua solita irriverenza, osservava sornione la ritrosia di Maurizio a mettere il naso nei fatti altrui mentre lo divertivano i tentativi umanitari di Sebastiano e, ridendo sotto i baffi, lo apostrofava: Giacché il prete ce l’abbiamo in casa, che ti costa fare un po’ di proselitismo, vero? Datti da fare a far parlare ‘sta gente, che poi ci pensa Maurizio a confessarli. Ma quello col cappello, che non ti voleva rispondere, alla fine, che ti ha detto-che ti ha detto? Si vuole confessare? Chiamo subito don Maurizio…

Fatti i fatti tuoi, gli rispondeva Sebastiano, pacatamente.

Pancrazio, ormai lo sappiamo, non era uomo da accettare consigli, specie se prudenziali e anzi ci godeva a seminar zizzania, tutte le volte che glie se ne desse l’occasione. Così avvenne quella volta, ma certo neanche lui si poteva immaginare cosa ne sarebbe venuto fuori.

L’uomo era apparso di notte, sul tardi, si era cercato un posto il più lontano possibile da presenze estranee, seduto ad un tavolino ed aveva chiesto un whisky. Il barista glielo aveva servito.

Lasciami la bottiglia, aveva detto, afferrandola per il collo e tirandola a sé.

Come vuole, signore - e Sebastiano si era allontanato discretamente portando con sé il vassoio vuoto.

Bevve in un sorso e riempì il bicchiere.

Posso farti compagnia? Si propose Pancrazio, senza un minimo di tatto.

No, grazie, ho bisogno di stare solo.

Sarò muto come un pesce, ma per esperienza so che, se si è in compagnia a bere, i pensieri corrono meglio.

Mi offri un goccio?

L’uomo lo guardava fisso negli occhi, ma era dubbio che lo vedesse.

Mi chiamo Corrado, disse ad un tratto, inaspettatamente, mentre una luce si accendeva nel suo sguardo. E, con gesto amichevole, gli porse la bottiglia. Sebastiano un altro bicchiere, per favore.

Alla salute

Alla salute

Bevvero all’unisono, facendo tintinnare i bicchieri.

La mia è una storia disgraziatissima. Sono come il reietto delle isole. Conosci il reietto delle isole? no, non fa niente, lascia perdere.

Però ho conosciuto un mingherlino che si faceva chiamare Lord Jim, che si portava dentro un rimorso grande come una casa e mi sa che tu gli rassomigli.

Ho ucciso la mia cara bambina. Affermò con voce atona, senza emozione. Non credo che esista colpa più grande. Voglio essere punito, aggiunse in fretta e stette zitto. In attesa, forse di una reazione da parte dell’occasionale compagno di bevuta, che invece era allibito e non trovava parole.

I suoi occhi di vetro emanavano bagliori intermittenti, come pulsazioni, riflessi dell’insegna luminosa esterna che lampeggiava.

Pancrazio capì che quello che per lui era un gioco, non lo era per l’altro. Fu colto da un momento di panico. E restituì la bottiglia.

Dimmi che stai scherzando, disse infine, provando ad interferire nel corso dei pensieri dell’altro, ma ti assicuro che anche così, non è divertente.

Poteva succedere a chiunque. Proseguì l’uomo, un tono più basso. Ma la colpa è mia. Lei era tutto per me.

Aveva solo due anni ed era adorabile. Papà, papà faceva tutte le volte che mi vedeva, correndomi incontro, abbracciandomi e mi faceva un sacco di moine.

Aveva gli occhi lucidi di febbre e ad un tratto scoppiò a piangere.

Nel locale non era rimasto più nessuno. Ciononostante Pancrazio ritenne opportuno consigliare al poveruomo di andare con lui, nell’altra stanza, più riservata. Fece cenno a Sebastiano di seguirli e tutt’e tre entrarono nella sala del circolo, dove Maurizio stava rassettando qualcosa.

Ah, Maurì, il signore ha bisogno di conforto. Gli deve essere capitata una grossa disgrazia. Ci vuoi dare una mano, per favore?

I tre presero posto intorno al tavolo e Maurizio, smettendo di fare quello che stava facendo, alzò il capo e li guardò.

Che cosa succede? chiese.

Ho perso la mia bambina, disse l’uomo piangendo; l’ho persa e non potrò più vederla, né stringere tra le mie braccia. Voglio morire.

Alzò gli occhi disperati al cielo, quasi a chiedere la grazia di essere fulminato all’istante.

In quel momento, come sulla scena di un teatro dove si stesse rappresentando un dramma giunto al suo punto culminante, venne a mancare la luce e nella stanza piombò la notte. I quattro uomini rimasero impietriti, in silenzio. Poi Sebastiano si alzò farfugliando e a tentoni, si avviò verso il bar. Poco distante, si udì il rumore di una sedia che cadeva a terra.

Ci deve essere un sovraccarico di corrente, disse la sua voce nel buio. Bisogna spegnere una macchina. Aspettate un momento.

Passarono diversi minuti durante i quali si udì solo il respiro aspro e affannoso dell’uomo in ambasce. Nell’altra stanza qualcosa si mosse, e dopo poco la luce tornò. I tre al tavolino si guardarono con occhi strabuzzati, schermendosi, come abbagliati. Sebastiano per prudenza, spense tutte le altre lampade e lasciò solo quella che illuminava il tavolo a metà altezza, e nella stanza semibuia, si creò un’atmosfera di intimità omertosa. Poi tornò al suo posto.

Mi chiamo Corrado, disse una seconda volta in quella sera, l’uomo tra le lacrime, ma spiccicando bene le parole. Questa mattina, uscendo di casa, mia moglie mi ha chiesto se potevo accompagnare nostra figlia all’asilo, perché lei non si sentiva bene. Naturalmente le ho detto di sì ed ho preso la piccola in braccio, posandola poi sul seggiolino fissato al sedile posteriore della macchina. Ho chiuso lo sportello e sono partito. Ero felice e non avevo nessuna preoccupazione particolare. L’asilo era sul cammino e non avrei perso molto tempo. D’altro canto l’avvicendamento tra mia moglie e me, quanto al portare Maria all’asilo, era piuttosto frequente ed io sapevo benissimo quello che dovevo fare. Anche con le maestre avevo un rapporto di cordialità e nel poco tempo in cui affidavo a loro la piccola, scherzavamo amichevolmente: Questa volta è toccato a te, vero? Che vuoi fare, è la vita! Mia moglie sta poco bene… e allora…

Ma, una volta messa in moto la macchina, la mia mente si è completamente estraniata ed io mi sono immerso come in un sogno, senza rendermene conto, perdendo la cognizione del tempo e dello spazio.

Mi sono ripreso soltanto quando sono arrivato nel parcheggio dell’ufficio e sono sceso. Ero arrivato in perfetto orario e al tornello per la strisciata d’ingresso, ho incontrato subito dei colleghi con i quali ho scambiato qualche battuta. Giunto nella mia stanza, come tutti i giorni, ho abbassato la saracinesca immaginaria della vita fuori ed ho aperto quella altrettanto immaginaria della vita dentro l’ufficio, immergendomi nelle mie pratiche, attento al telefono –dovesse chiamare un dirigente – dimenticando tutto il resto.

La mattinata è trascorsa normalmente. Quasi alla fine dell’orario di lavoro, ecco il telefono che suona. E’ mia moglie; parla in modo esagitato e non mi rendo conto di quello che sta succedendo.

Hai con te la bambina? Mi chiede quasi urlando.

No, sto uscendo per andare a riprenderla all’asilo…

Ma qui mi dicono che la bimba questa mattina non è arrivata… la sua voce rotta dall’emozione…

E’ come se qualcuno, dietro le mie spalle, mi avesse colpito con una mazza da baseball, sulla testa; un attimo di luce intensissima e poi nero, facendomi stramazzare a terra. Da quel momento non ho capito più niente. Ricordo persone che correvano, colleghi d’ufficio che mi giravano intorno, attoniti senza parlare. Il piazzale del parcheggio, invaso dalle luci lampeggianti delle macchine della polizia provenienti da più parti, la mia macchina con lo sportello aperto, a fianco mia moglie, spezzata a metà. Il suo sguardo mi ha fulminato. Le gambe non mi hanno retto, sono caduto e poi il buio. Un buio totale in cui la mia coscienza si è completamente persa.

Un medico mi ha dato qualcosa per farmi rinvenire, ma la mia mente non era in grado di capire cosa fosse successo.

Un gruppo di sanitari in camice, si adoperava a fare largo intorno alla macchina con lo sportello posteriore aperto e qualcosa che veniva estratta dall’auto e subito portata ad un’autombulanza ferma lì vicino. Poi l’ambulanza è partita a tutta velocità. Sono rimasto là, scortato da due secondini, non so quanto tempo, poi mi hanno portato in caserma e chiuso in una cella.

Solo a sera, è venuto un commissario a notificarmi che la piccola Maria era morta ed io sono indagato per omicidio colposo, a piede libero. Con l‘obbligo di tenermi a disposizione e non abbandonare la città.

Non me l’hanno fatta manco vedere. Un poliziotto ha detto che era piena di bolle e non era un bello spettacolo. Mia moglie non mi vorrà più vedere. Non so dove andare. Questa sera sarà l’ultima per me. Vorrei soltanto incontrare Maria, per dirle che io le voglio tanto bene e chiederle perdono per la dimenticanza che mi ha colto e che non so assolutamente spiegarmi, assicurandole che voglio stare sempre con lei.

Tacque e si accasciò sulla sedia, coprendosi il volto con le mani. Poi riprese piano, tra sé e sé:

Ho dimenticato di portare mia figlia all’asilo, l’ho lasciata in macchina, legata al seggiolino. Ho chiuso lo sportello e non ho guardato dietro sul sedile posteriore dove lei forse dormiva e non ha potuto chiamarmi. Al sole, in piena estate, vi rendete conto? Con la macchina chiusa ermeticamente. Forse Maria è passata dal sonno alla morte, altrimenti si sarebbe messa a piangere e forse qualcuno avrebbe potuto sentirla e dare l’allarme. Oppure è morta piangendo e implorando suo padre di salvarla, ma suo padre non c’era. Perché non c’era mai stato. Aveva un tesoro che non meritava e non ha saputo fare niente per lei. Cos’é stato? Vi chiederete. Niente, una dimenticanza, come tante, la testa chissà dove la teniamo. Non siamo perfetti, è vero? E allora? Un padre si può dimenticare di una figlia e lasciarla morire tra spasimi atroci e chiamarsi ancora un uomo? E se non sono più un uomo e non lo sono mai stato, chi sono allora? Ditemelo, ditemelo voi, perché io sto impazzendo.

Quella notte Corrado, non so se dormì, ma fu ospite a casa di Maurizio, che offrì una stanza ed un letto al povero disgraziato e lo costrinse anche a prendere due pasticche di sonnifero che egli stesso usava di tanto tanto in caso di insonnia. Maurizio lo vegliò per molto tempo e vide che non aveva un momento di pace. Si girava continuamente nel letto e si lamentava come uno che stesse facendo un brutto sogno. I sogni finiscono all’alba mentre l’incubo di Corrado sarebbe invece appena cominciato.

Maurizio preparò una colazione per il mattino, quando Corrado si sarebbe svegliato, poi crollò anche lui ed andò a letto a dormire. Dormì poche ore. Quando si alzò, si sentiva fuori dal mondo, stralunato. Passò prima in cucina e vide che la colazione non era stata toccata. Poi, preso da un triste presentimento, entrò nella camera dove aveva sistemato Corrado, e constatò che era vuota, il letto selvaggiamente disfatto . La porta d’ingresso accostata. Per le scale, nessun rumore. Solo il ronzio di un relè lontano.

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