PORTOLANI

La passione per i portolani? Mai avuta. Per me il mare è una cosa troppo grande per esser racchiuso in una carta. Direte è la solita storia della volpe che non arriva all'uva e dice che è acerba; ma poi siamo sicuri che la volpe voleva l’uva? A me sembra del tutto improbabile. Comunque è vero: la mia passione per il mare io l’ho coltivata solo attraverso i libri, Conrad, Melville e Salgari, sì perché no? Anche il buon padre di famiglia Emilio Salgari, che per tirare la carretta, s’inventava storie rocambolesche di mari e maree, Malesie e compagnia delle Indie, Mompracem e il Corsaro Nero, il Mahdì, e Sandokan, Yanez e Tremal Naik. Lui, che, come me, il mare lo aveva sognato e descritto, ma così bene, lui, come e meglio di un pesce, io solo in sogno. Quando i sogni di questo sfortunato scrittore, creatore di una quantità enorme di personaggi, finirono e la realtà si scontrò con la sua fantasia, il peso delle sue invenzioni lo schiacciò ed egli morì suicida, lasciando ai suoi figli un amaro biglietto: "Sono un vinto".


Avevo acquistato quel pacchetto legato con uno spago in una di quelle bancarelle di libri usati e cianfrusaglie varie, che si trovano dalle parti di piazza dei Cinquecento a Roma, dove ero solito aggirarmi nei tempi morti del mio soggiorno nella capitale per il periodo dei miei studi universitari. Quindi un secolo e mezzo fa. Dopo averlo slegato, osservato e studiato sommariamente, più per una posa da intellettuale, che per un vero interesse verso quello che a tutta prima mi era sembrato un reperto antico, di chissà quale inestimabile valore, subito dopo un volgare falso, lo chiusi in un cassetto dello scrittoio e non ci pensai più.

E’ riemerso da poco, ancora impacchettato come quando l’avevo comprato, in mezzo ad un mucchio di cose vecchie che avevo deciso di eliminare e la mia curiosità si è riaccesa, non foss’altro che per il tempo passato da allora e perché forse quel documento, ingiallito più di quanto non fosse al momento dell’acquisto, mi metteva di fronte alle mie responsabilità per le molte cose che nella mia vita ho trattato troppo sommariamente, senza trarne il necessario utile per la crescita, decidete voi quale.

Ne avevo un ricordo di cosa falsa, raffazzonata, fatta apposta per trarre in inganno i gonzi come dovevo essere io a quel tempo. Cosa per cui, il ricordo non mi era gradito ed anzi la prima reazione era stata quella di metterlo tra le cose da buttare, senza neanche riaprirlo. Ma un più mite consiglio, mi suggerì di accantonarlo tra quelle cose a cui dare una seconda possibilità, riservandomi di procedere ad un riesame da fare poi, con calma, ad animo sereno.

Ed eccomi quindi di fronte a questo reperto della mia giovinezza, che chiede di essere esaminato e studiato per la prima volta, senza paraocchi e pregiudizi.

“Portulani della costa adriatica, e del mar Egeo” si leggeva sulla copertina, scritto a mano, con una penna d’oca, ed un inchiostro cancellato a metà. Sciolto il nodo dello spago, disfeci il pacchetto che conteneva un quaderno di piccole dimensioni, comodo da tenere in qualsiasi tasca, sia di giacca, che di calzoni, scritto in modo quasi indecifrabile, per la grafia, che denunciava un autore non molto abile nell'uso della penna, e perché zeppo di annotazioni a margine di quelle pagine, aggiunte ovunque vi fosse uno spazio libero, in ogni direzione, anche a rovescio, sia infine per lo stato consunto che il quadernetto aveva, con parte dello scritto cancellato dal tempo o dall'incuria.

Allegati al quaderno erano alcuni fogli, ripiegati accuratamente, che mostravano mappe per la navigazione, in cui erano riportate, con disegni rudimentali, coste e isole di cui spesso non venivano indicati i nomi.

Cerco di ricordare il momento dell’acquisto. Cosa mi mosse a prendere in mano quello strano documento? E come mai, dopo averlo aperto e lette, a fatica le prime indicazioni, redatte a mano, con i primi disegni, il mio interesse crebbe e decisi immediatamente che era buono per me e degno della mia considerazione? Tanto da comprarlo senza pensarci su.

All'ultima pagina del quadernetto, era riportata una data: giorno del Signore 11 gennaio 1572. Falso o non falso, l’emozione era grande.

L’enigma si faceva intricante. Non erano quelli i tempi della “reconquista”? L’Alleanza cattolica contro gli invasori musulmani che erano arrivati coi loro eserciti a mettere le tende intorno a Vienna? E poi ci fu una battaglia, una di quelle che segnano le strade della storia, che fece sì che le sorti della guerra volgessero a favore degli stati invasi, i quali in un sussulto di rivincita, ricacciarono i mori nelle loro contrade?

Lepanto era la battaglia. Oggi si direbbe la madre di tutte le battaglie. Se il documento era autentico, quello era uno scoop senza precedenti. Ma era folle pensarlo.

Cercai di decifrare la prima mappa.

C’era disegnata una costa frastagliata, con isole e arcipelaghi. Presi l’Atlante e cercai di localizzare il luogo riprodotto così rozzamente. Dopo diversi tentativi, sovrapponendo il disegno alla carta geografica, riuscii ad individuare un tratto della costa dalmata che doveva corrispondere a quello che va da Spalato a Ragusa, l’odierna Dubrovnick, particolarmente ricca di isole. Ebbi la conferma da un segno appena visibile, che alla lente d’ingrandimento, risultò essere uno scritto che indicava una località: Kavtatska Ulica. Soltanto l’autore avrebbe saputo dire che importanza aveva questa annotazione, visto che non ce n’erano per posti molto più noti, tipo Lesina, Macarsca e Mostar.

Sulla seconda mappa, il disegno era molto più confuso; quello che si poteva dire con una certa sicurezza era che si trattava del mare Ionio e che il Canale era quello di Corinto. Una scritta individuava un punto del canale, ma era del tutto illeggibile. Sulla carta geografica, però, risultava essere il posto dove era situata Lepanto.

La terza ed ultima mappa era di facile lettura, anche nella elementarità del disegno. Si trattava della punta della Calabria, dello Stretto di Messina e della costa siciliana. Una freccia indicava l’agglomerato della città, con l’indicazione di una H. Qualcuno era stato sbarcato e ricoverato all'Ospedale di Messina? Ma possibile che nel 1571 l’ospedale venisse indicato con la lettera H? Si trattava sicuramente di un falso. C’era però un particolare che non mi convinceva. La lettera H era scritta con una penna diversa da quella usata per altre scritte delle mappe e del quaderno. Quindi poteva essere stata aggiunta in un secondo momento. Da mano apocrifa ed in tempi anche recenti.

Riannodai lo spago e deposi – questa volta con cautela e ferma volontà di andare fino in fondo a quel mistero - il pacchetto nel cassetto e cominciai a pensare a cosa fare per raggiungere lo scopo. Il quaderno era scritto in lingua slava; bisognava quindi trovare uno slavista in grado di tradurlo e la cosa apparve abbastanza facile.

Maurizio si offrì di trovare la persona adatta. Disse di conoscere un ex professore di Zagabria che volentieri avrebbe accettato di collaborare.

In capo a quindici giorni, il prof. Zuconov, restituì il quaderno con la sua traduzione e non pretese niente per compenso. Disse anzi, di essere stato molto contento dell’incarico e della fiducia tributatagli.

Il quaderno conteneva nella prima parte annotazioni più o meno precise di alcune località sparse nell'Adriatico, soprattutto della costa dalmata, ma anche italiana, con indicazione di porti, scali, difficoltà o meno di ancoraggio, attrezzature esistenti, ecc.

Dalla parte dalmata, c’era una descrizione abbastanza approfondita dei porti di Pola e Zara e dell’Isola di Rab, della quale evidenziava una particolarità paesaggistica consistente nel fatto che, approdando dalla parte interna alla laguna, l’isola appariva deserta e priva di vegetazione; se si scendeva a terra e si salivano le colline del versante verso il mare aperto, oltre il crinale, il paesaggio cambiava totalmente, offrendo una vista spettacolare ed una costa degradante verso il mare, ricca di rigogliosa vegetazione.

Dalla parte italiana, l’attenzione del compilatore delle mappe, si era concentrata soprattutto sul tratto di costa del centro Italia che va da Ancona a Bari, soffermandosi sui piccoli ancoraggi di Martin Seguro e Iulia Nova, dove lo stesso dimostrava di avere una buona conoscenza dei luoghi descritti.

Nella seconda parte, era narrata la storia di un ragazzo croato, nato a Cavtat, nel distretto di Ragusa, di nome Al-Cafàr, emigrato a Venezia nel XVI secolo ed accolto nella magione del signore veneziano Riccardo Pigafetta, il quale si vantava di essere un discendente di Antonio Pigafetta, che accompagnò Magellano nel suo giro intorno al mondo. Viaggio dal quale Magellano non tornò, perché rimase ucciso in un combattimento con gli indigeni di una terra corrispondente alle Filippine di oggi.

Dopo la morte del comandante, le sue funzioni furono assunte dal Pigafetta, che scrisse anche una “Relazione del primo viaggio intorno al mondo”, durato dal 1519 al 1522, ricca di informazioni e dati molto importanti. L’opera, andata persa e poi ricomparsa nel 1797, costituisce uno dei più importanti documenti di navigazione del cinquecento.

Questo signore riuscì a far imbarcare il giovane Al su una nave al seguito della spedizione organizzata dagli stati aderenti all'Alleanza Cattolica contro i Turchi, nave che fu affondata, per una errata manovra del suo comandante, nella battaglia di Lepanto il 7 0ttobre 1571, in cui la vittoria arrise ai cristiani. Al, fu ferito e ricoverato nell'Ospedale di Messina, dove ebbe la ventura di conoscere il grande scrittore Miguel De Cervantes Saavedra, anche lui reduce da Lepanto, ferito in modo piuttosto serio a braccio sinistro, e ricoverato nello stesso ospedale per un periodo di cure e convalescenza durato sei mesi. All'epoca lo scrittore aveva venticinque anni ed era una specie di soldato di ventura. Si era arruolato volontario su una delle navi spagnole che parteciparono alla battaglia di Lepanto e successivamente, nonostante la menomazione permanente del braccio sinistro riportata a Lepanto, partecipò ad altre spedizioni, nel corso di una delle quali fu fatto prigioniero dai musulmani e tenuto schiavo per diversi anni.

Durante questo tempo, Al si pose al servizio dello scrittore il quale, dapprima infastidito, successivamente lo prese a benvolere, al punto di passare ogni giorno molte ore in sua compagnia.

Il professore ci tenne a spiegarmi che in alcune parti, la traduzione del testo era lacunosa, perché lo scritto era rovinato al punto di non consentire una versione corretta e che laddove il senso lo permetteva, egli aveva colmato le parti mancanti con interpretazioni sue che avrebbero potuto essere opinabili. Questo specialmente nei casi in cui il fatto narrato assumeva un’importanza particolare.

Uno dei punti più tormentati, dove necessariamente il traduttore aveva dovuto far ricorso ad una interpretazione, diciamo così, creativa, era quello a proposito dell’amicizia tra il giovane e lo scrittore, nella parte in cui Al affermava di aver raccolto le confidenze di Cervantes in merito ad un libro che egli stava cominciando a scrivere, il cui eroe era un gentiluomo della Meseta, appassionato di epopee cavalleresche, il quale parte per un viaggio in cui dovrà affrontare avventure stravaganti, senza perdere la fiducia in sé stesso e nella rettitudine della sua azione, nonostante le disavventure a cui va incontro. Un cavaliere dalla triste figura, diceva come tra sé lo scrittore, che ha con sé come scudiero, un astuto contadino ignorante, insieme al quale rivoluzionerà il mondo della cavalleria e della letteratura esistente al riguardo.

Sulla autenticità dello scritto, il professore non si pronunciò. La mia idea al riguardo era scettica ma fino ad un certo punto. Mi sembrava impossibile che il documento fosse databile con la data apposta sull'ultimo foglio, 11 gennaio 1572, ma, volendo vedere un po’ le cose da una certa distanza, non era illegittimo fare una ricostruzione della storia del documento, del tipo seguente. Il giovane Al, nel lungo periodo in cui era stato nella casa veneziana dei Pigafetta, doveva aver fatto diversi viaggi al seguito del suo signore, lungo le coste dell’Adriatico, visitando città e luoghi, intorno a cui aveva fatto delle ricerche e preso appunti e disegnato mappe. Della sua partecipazione alla battaglia di Lepanto, del ricovero all'Ospedale di Messina, e soprattutto della sua amicizia con lo scrittore spagnolo, era lecito dubitare, ben potendo questa storia essere stata inventata da un amanuense venuto in possesso degli appunti di Al, tempo dopo l’effettivo accadimento dei fatti in essi narrati, magari alcuni secoli dopo, sull'onda emotiva che gli stessi avrebbero potuto effettivamente suscitare nell'animo di un suo occasionale rinvenitore. Un po’ come precedentemente successo al libro scritto da Antonio Pigafetta, aiutante di Magellano, ritrovato secoli dopo la sua scomparsa.

Dentro di me maturai il convincimento che fosse necessario affidare l’incarico ad uno studioso, archeologo, semiologo, di esaminare il materiale in mio possesso, al fine di avere un giudizio autorevole e definitivo sul reale valore di quei documenti. A rischio di farmi ridere in faccia, nel caso si fosse trattato di una volgarissima contraffazione, ma con la garanzia di conservarne la proprietà nel caso contrario di un reperto rarissimo e di valore. Affidamento quindi, ma con tutte le cautele legali possibili.

Un amico libraio mi indicò l’uomo adatto ed io dopo qualche tempo, gli affidai il compito, consegnandogli il pacchetto, dietro sottoscrizione di una scrittura privata firmata da entrambi.

Dopo un anno, il responso non era ancora uscito dalla bocca e dalla penna dell’oracolo, il quale era molto anziano e per di più, oberato di lavori che non riusciva a portare a termine.

Ero sul punto di chiedergli la restituzione del plico, quando, all'improvviso, quell'uomo eccelso morì, portando nella tomba un patrimonio di conoscenze illimitate, tra cui, forse anche il responso sul quesito che gli avevo affidato io.

La sua scomparsa comportò un vivo cordoglio nella società nazionale, di vaste proporzioni e l’affidamento di tutto il materiale di lavoro che lo studioso aveva lasciato incompiuto ed ancora in corso, cioè un archivio stracolmo di lettere e documenti di ogni tipo, ad un curatore che, come primo provvedimento, ha blindato lo studio dell’accademico, consistente in varie stanze nelle quali entra solo lui. Probabilmente, prima di dieci anni non sarà possibile accedere a nessun documento contenuto in quelle stanze e prima di allora non potrò sapere se Al Cafàr è realmente esistito, o meno.

Confesso che al momento non ho più tanto interesse a scoprire la verità.

Per me resta il sogno, affascinante di una casualità che potrebbe essere l’emblema di una vita. Il caso ha voluto che io notassi quel pacchetto in mezzo a tanta paccottiglia. Sia che il documento risulti autentico ed ormai so che non può esserlo, sia nel caso contrario, il destino ha voluto che il mio nome venisse accostato del tutto accidentalmente a quello di Magellano, i due Pigafetta, quello vero, Antonio e quello eventuale, Riccardo e soprattutto a quello di Miguel Cervantes De Saavedra, che seppe ridere di sé medesimo, rispecchiandosi nel suo personaggio di quel cavaliere dalla triste figura che era Don Chisciotte, che si aggira tuttora per le contrade del Mondo, ovunque si trovino torti da raddrizzare, per porre il suo forte braccio e la sua mano vendicatrice sempre dalla parte del giusto e del bello.

Come si addice ad un cavaliere vero. E la metafora nel mio piccolo, potrebbe valere pure per me.

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