PARALIPOMENI DI UN PRESEPE

“Ti piace o’ Presepe eh?”, domanda Eduardo, pieno di speranza rivolta al figlio malmostoso, sul palcoscenico di “Natale in Casa Cupiello”. “ No!” E’ la risposta disarmante del giovane abulico, ”u m’ piace, u m’ piace, u m’ piace!”. ‘Mbè, allora te ne vai da ‘sta cas, perché in questa casa s’ fanno e’ presepii”. Ben altre nubi si addensano sull’ingenuo protagonista di questa commedia, che non il disappunto per questa scaramuccia tra padre e figlio, che segna comunque il distacco che corre tra una visione poetica e sentimentale del Natale ed un senso di disincantato realismo, contrario alla rappresentazione falsa ed edulcorata della natività.

Oggi, nella società, tende a prevalere questa seconda tendenza. C’è disamore per la stanca ricorrenza delle feste natalizie e per il presepe che la rappresenta. C’è addirittura qualcuno che dice: vorrei prendere un sonnifero e svegliarmi tra quindici giorni.

“Uffa, è già Natale. Scrivevo l’anno scorso. Natale nonostante tutto. Il dissesto climatico, il trionfo delle destre egoiste nel mondo, il disastro della politica, il fallimento del solidarismo, l’incendio delle foreste non solo dell’Amazzonia, l’incertezza del domani per i nostri figli e nipoti. In tutto il pianeta si respira un’aria malefica. Natale sembra non rappresentare più nemmeno la festa del consumismo e dell'ipocrisia capitalistica.

Ma noi abbiamo bisogno di un momento di tregua. Anche finta, un momento in cui potersi illudere che un mondo migliore è possibile. E trarne la ragione per continuare. Il futuro, l’agire, il ritrovarsi, scoprire chi veramente siamo e cosa per davvero vogliamo.

Secondo me c'è molto conformismo in questo atteggiamento artatamente anticonformistico. La sfiducia, lo scontento sono giusti, ma non debbono prevalere.

Certo ci infastidisce vedere i preparativi natalizi, nei negozi e nelle vie cittadine, con un anticipo che non è più di giorni, rispetto alla data della ricorrenza, ma di mesi. Ciononostante qualche parola in difesa di questa istituzione para religiosa e laica contemporaneamente, la voglio spendere, non per andare contro corrente, ma perché a me il Natale effettivamente piace.

Dopo questa tirata, Maurizio si fermò per riprendere fiato. Poi, continuò, cambiando il tono di voce, che da appassionato divenne discorsivo.

“Paralipomeni è una parola che, significa 'cose tralasciate', o lasciate incompiute, nel momento in cui si riprendono per portarle a conclusione, quindi 'seguito di qualcosa che è stata lasciata a metà ' ed è usata, che io sappia, solo da Leopardi ed in senso ironico, per il titolo di un'opera satirica, "Paralipomeni della Batracomiomachia", che sarebbe la storia di una guerra fatta tra le rane e i topi, fortemente allegorica per l'epoca in cui fu scritta.

La prendo in prestito del tutto arbitrariamente, per un mio discorso sul presepe, cominciato nella mia mente in tempo assai lontano, portato dentro di me di anno in anno, mai ultimato, perché distratto da questioni contingenti, che mi hanno impedito di portarlo a termine, di concluderlo in qualche modo. Cosa che mi riprometto di fare oggi, nei limiti del possibile.

Da dove vogliamo cominciare? Da mio padre. Mio padre era l’artefice dei più bei presepi che io da bambino abbia mai visto. Avevamo, nella casa dove abitavamo allora, una stanzetta di sgombero che per qualche tempo era stata adibita a camera da letto per una persona, quindi non era dopo tutto tanto piccola. Riceveva la luce da un finestrone con i vetri opacizzati che dava sulla scalinata d’ingresso della palazzina.

Era di forma rettangolare e si prestava benissimo ad ospitare presepi monumentali. Mio fratello Vittorio ed io eravamo incaricati di provvedere alla fornitura del muschio occorrente che non era poco. Ma per fortuna noi sapevamo dove andarlo a cercare. Un grande tavolo veniva situato al centro della stanza, sul lato opposto alla porta d’ingresso della cameretta, addossato a due pareti ad angolo retto. Papà era Michelangelo, Vittorio e io aiutanti di bottega. Si cominciava con la costruzione di una montagna sulla parte più profonda dello spazio a disposizione, che, da un lato digradava dolcemente verso il centro del tavolo che faceva da pianura, mentre la capanna veniva di solito collocata a metà strada tra la montagna ed il piano, in una posizione un po’ appartata.

Uno studio particolare occorreva per la collocazione delle casette disseminate sul territorio, le più piccole sul fondo, le più grandicelle, davanti, per dare l’effetto della distanza. E poi il fiume, il ponte la strada, l’osteria, la bottega artigiana e i personaggi, pastori che portavano l’agnellino a tracolla, fabbri col martello in mano, donne con il secchio dell’acqua vicino casa, tutti in piena attività, nonostante fosse notte.

Ed infine la Sacra Famiglia nella capanna tutta aperta, nel fulgore del trionfo della gloria del Bambinello.

Ultima operazione, la sistemazione delle luci, gli effetti colorati, la dissolvenza e la risorgenza.

E i re magi?

Vogliamo fare un passo indietro e vedere chi sono questi personaggi eminenti che hanno preso la scena, cavalcando di notte su cammelli lungo steppe e deserti lasciandosi guidare dalle stelle per inseguire un sogno?

Di seguito riporto uno scritto ritrovato l'anno scorso tra le mie carte, dove si parla di loro. (Vi posso assicurare che non è il 'Manoscritto ritrovato a Saragozza').

“Ancora un manoscritto ritrovato!” insorse Pancrazio esasperato: non ti sembra di esagerare con questi ritrovamenti? Cosa è questa volta un Vangelo apocrifo?”

Maurizio tacque come a far smorzare l’eco delle parole ingiuriose di Pancrazio, con le stimmate di una rassegnata pazienza sul volto, poi riprese, leggendo direttamente dal primo dei fogli che aveva in mano.

"Tanto per cominciare non erano re, ma solo astronomi ed indovini, girovaghi provenienti da diversi Paesi, accomunati dalla passione per l'osservazione degli astri, da cui traevano le loro divinazioni, seguendo i dettami di una setta religiosa cosiddetta dei zoroastriani, originaria della Persia. Ciò deve aver influito a creare la loro fama di re.

Marco Polo (Messer Marco, "Il Milione", cap. 30), dice infatti di aver visitato, intorno al 1220 d.c., le tombe dei tre re magi (all'epoca già 're'. dunque), in una città chiamata Saba, a pochi chilometri da Teheran. Ci dice anche di aver chiesto notizie in giro, per sapere di più di questi mitici personaggi, ma che nessuno seppe dargliene. Le tombe erano monumentali e portavano i nomi di Baltasar, Gaspar e Melquior.

Secondo la tradizione, essi furono indotti a partire, per i segni che 'lessero' nelle stelle (una in particolare, molto grande e luminosa), che annunciavano la profezia della prossima nascita del Messia. Ed affrontarono il lungo viaggio dal lontano oriente, fino a Gerusalemme e poi Betlemme, a dorso di cammelli, portando con loro regali da offrire al bambino che sarebbe nato. Questi doni dovevano rappresentare oltre che il loro 'status' di personaggi comunque di riguardo, quanto di più prezioso essi avessero, simbolicamente, ma anche materialmente, tali da fare onore ad un re, come essi sapevano che sarebbe diventato il bambino Gesù.

Dei tre doni recati ai piedi della mangiatoia, oro, incenso e mirra, quest'ultima, la mirra, sembra che sia, a dispetto dell'apparenza (e dell'ignoranza, che noi abbiamo al riguardo), il più prezioso, perché si tratterebbe dell'estratto di una pianta medicinale dalla quale si ricavava una resina che mescolata ad altri olii, serviva a scopi medicinali, cosmetici e religiosi, quindi salvifici.

Quale miglior dono profetico per un bambino destinato a diventare il Cristo, "l'unto del Signore"? Forse addirittura era lo stesso olio prezioso con il quale la donna di nome Maria profumò nella casa di Betania, i capelli di Gesù, suscitando l'invidia degli apostoli, o almeno di alcuni di essi, che ebbero ad affermare che quell'olio era stato sprecato, mentre si sarebbe potuto vendere ad un buon prezzo, per donare il ricavato ai poveri. Gesù invece, lodò Maria per la sua generosità e rimproverò quelli che l'avevano sgridata, perché la loro pietà per i poveri era falsa, in quanto dettata dalla gelosia e disse: "I poveri sempre li avrete con voi, me non sempre mi avete" (Gv,12, 1-8). (uno dei tanti accenni che egli faceva per far intravedere il suo destino; ma gli apostoli erano 'sordi' e al momento non potevano recepire)”.

Qui finisce la prima parte del racconto dello scritto ritrovato all’inizio di quest’anno.

Se Pancrazio è d’accordo, possiamo ora riprendere il racconto passando alla seconda.

Pancrazio si guardò intorno con sguardo truce, ma non disse niente.

“Allora vado”, cominciò Maurizio: “E' l'alba di un giorno freddo d'inverno (siamo prossimi alla fine dell'anno), quello in cui, montati su alti cammelli, vestiti sontuosamente con mantelli regali, e le insegne di uno stato straniero, ben visibili, nonostante la polvere che, per il lungo viaggio, si è posata sulle loro spalle, tre uomini si presentano alle porte di Gerusalemme e chiedono di essere ricevuti dal Re di Giudea, Erode il Grande.

Il Re dà disposizioni perché gli stranieri siano accolti degnamente, ed abbiano modo di ristorarsi e riposarsi, dopo di che egli sarà disponibile a riceverli con tutti gli onori. Il grande portone della reggia si chiude alle loro spalle. Uno dei tre è nero di pelle ed entra per ultimo, il suo volto sembra di ebano scolpito e lucido. I suoi occhi chiari si girano intorno e mandano lampi di improvviso bagliore”.

Questo frammento porta la data del18 dicembre ed in quel momento il presepe non è stato ancora completato. I re magi non si vedono. Sono all’interno del palazzo di Erode che dà loro istruzioni sulla via del ritorno, fingendo di essere interessato a conoscere dove nascerà questo presunto re per poterlo onorare e li prega quindi di ripassare da lui per renderglielo noto.

Uscendo, i tre saggi hanno già realizzato che non ripasseranno da dove sono venuti, ma faranno un percorso diverso per tornare alle loro terre, proprio per non dover rivedere il tiranno, sulle cui reali intenzioni non nutrono alcun dubbio.

Vedo che questa storia va un po’ per le lunghe e forse non finirà mai.

Comincio a dubitare che il titolo che ho dato al presente “sequel” di quella riflessione che intendevo fare sul presepe, rimasto disseminato nel tempo, di “Paralipomeni”, secondo il significato che ho anticipato sopra, sia del tutto arbitrario. Se, infatti, lo scopo di questo discorso era di portare a compimento la storia di un presepe, che era rimasto incompiuto, dobbiamo constatare che, lungi dall’essere raggiunto, ha maggiormente accresciuto il senso di incompiutezza dell’opera, se di opera si può parlare.

La domanda è: ci piace o non ci piace questo presepe?

Da noi il presepe rappresenta l’unità della famiglia e la sua unicità. Siamo tutti felici perché ci ritroviamo davanti al presepe e intorno a una tavola apparecchiata. L’atmosfera è sempre allegra e c’è abbondanza di tutto, di cibo, di sorrisi, di saluti, e di auguri ripetuti fino allo spasimo. C’è da chiedersi quanta parte della gioia sia dovuta alla devozione per la ricorrenza dell’Avvento, e quanta invece tenda solo ai piaceri della tavola. Ma siamo veramente più buoni? Ritrovare l’intimità della famiglia, in una circostanza come questa, non ha senso, senza un minimo di devozione, che non è solo credere e basta, ma credere in qualcosa. Quanto meno per rispetto della tradizione. Significa essere cristiani amare il Presepe? Siamo ancora a questa domanda? L’essenziale è che ci sia empatia. Noi oggi assistiamo al fenomeno dei migranti con tante Marie, di cui molte di colore, incinte che cercano un rifugio, una stalla, una grotta, per partorire.

Presepi tragici, per nulla addolciti da canti e dolcetti, che ci opprimono con la loro liturgica ricorrenza.

E noi, inermi a guardare. Quando finirà questo Natale? La vignetta straziante di un disegnatore satirico ha proposto la visione agghiacciante di un presepe sottomarino, pieno di personaggi che galleggiano a mezz’acqua, tanti fantasmi che popolano i fondali del nostro mare, come contraltare ai presepi viventi di alcune località nostrane!

“Le religioni sono state da sempre strumenti di potere, usati dai tiranni per sottomettere le popolazioni.” Dice laconico Pancrazio.

“Cosa senz’altro vera, ma sembra di risentire la “religione oppio dei popoli” di bolscevica memoria. “cosa c’entra questo con la tradizione del Natale?”, interviene Chiara; “tradizione che, consumismo o non consumismo, si è estesa un po’ in tutti i Paesi del mondo, anche a quelli dell’estremo oriente i più refrattari alla penetrazione del proselitismo cristiano. Penso che la religione sia venuta prima della politica e dello Stato. Le prime organizzazioni statuali hanno avuto come capi uomini che avevano la doppia veste di politici e religiosi, talvolta considerati dai sudditi come semidei, ed in questa seconda veste, è chiaro che si servivano della religione a fini politici.

In tutto questo marasma, il presepe che fine ha fatto? Altro che paralipomeni. Qui siamo ancora ai prodromi. Ci toccherà tornarci il prossimo anno, posto che ci sia ancora il Natale.

Cos’era? Una pernacchia per caso? Quel rumore sconveniente che si era udito alla fine della dissertazione di Maurizio.

“I prodo…che?” ripete l’osceno sberleffo.

Tra gli ultimi ad uscire, Pancrazio avanza lentamente con il fazzoletto in mano e si soffia rumorosamente il naso mentre si guarda intorno con aria beffarda.

Buon Natale a tutti, ragazzi!



P.S. Con la moda delle “serie” cinematografiche, attualmente in voga, soprattutto per quel tipo di cinematografia che va sotto il nome di “fiction”, che fa a gara con la moltiplicazione delle così dette “stagioni” di cui si compongono, una parola come “paralipomeni” dovrebbe trovare il suo terreno di coltura, trattandosi di un fenomeno tipicamente basato su un susseguirsi di aggiunte, di continuazioni, di ampliamenti di parti del racconto trascurate a suo tempo e quindi godere di una grande popolarità e vasta risonanza, essendo essa una parola molto dotta e di significato univoco.

Così non è, per il fatto di essere difficile da pronunciare e per niente mnemonica. Ma il difetto principale consiste nel fatto di non recare in sé, alcun sintomo della sua pregnanza semantica, potendosi, bene, a parer mio, porsi addirittura come il prototipo del contrario verbale dei termini onomatopeici. (nota di Maurizio, il certosino delle “bucce”).

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