IL GELATO BIGUSTO

Ovvero perché, in metafisica come nei gelati, “tu gust’ is megl’ che uan’.

Si deve a Emanuele Kant, come noto, la definitiva condanna senza appello della metafisica, con conseguente ostracismo della medesima dal dominio del pensiero razionale, dell’episteme (non è che il pensiero metafisico non si possa più esercitare in assoluto dopo Kant, è solo che, come le pratiche sessuali più sfrenate e lussuriose, “si fa ma non si dice”, in ottemperanza alla VII Proposizione di Wittgenstein).

Senonché la filosofia greca classica (da Talete ad Aristotele, per intenderci) è per intero una metafisica, avendo posto sin da subito la ricerca del principio primo, dell’archè, alla base del discorso. Fondamento che già con l’apeiron di Anassimandro si fa una grossa fatica a tenere nel novero di ciò che è fisico, nel senso di sensibile, tangibile.

Ma la metafisica greca vera e propria “decolla” solo quando Platone intuisce che per dar conto pienamente del mondo, fisico e politico (a lui interessava il secondo, ma, come tutti i suoi predecessori, era convinto che bisognasse parlare alla nuora-physis perché la suocera-polis intendesse), un principio solo, anche quello generalissimo dell’apeiron, non basta: come rimarcato nell’esilarante spot pubblicitario Motta degli anni ottanta, al pari del biscotto gelato, per Platone anche nella metafisica due gusti/principi sono meglio di uno.

Se il divenire è infatti sempre, come testimoniato già dal celebre frammento di Anassimandro (1), un emergere dal principio indefinito, dall’apeiron, per poi ritornarvi al termine del percorso, si dà tuttavia una fase di emersione in cui l’informe si presenta momentaneamente come formato, ossia connotato da limiti e contorni che rendono la parte distinguibile dal tutto.
Di questo si erano già accorti i pitagorici, che avevano infatti strutturato l’intero universo attorno a dieci opposizioni primarie, tutte comunque incardinate su quella fondamentale tra limite/formato (peras) e illimitato/informe (apeiron), un po' come la vaniglia e il cioccolato si contrapponevano nel “biscottone” Motta dello spot.



Questo pone tuttavia due ordini di problemi: dove stavano le forme prima che emergessero dall’informe e quale sia la causa dell’apparire delle forme, quella che Aristotele avrebbe chiamato in seguito causa efficiente o motrice.

Concentriamoci per il momento sul secondo punto. Se il gelato con due gusti (apeiron e peras) viene sicuramente meglio di quello monogusto, in entrambi i casi ci sarà infatti bisogno di un gelataio, e il primo a rendersene conto fu probabilmente Empedocle di Agrigento, che nel suo modello metafisico del mondo diede al gelataio il nome di “amore” o “concordia”. (2)

Il problema del gelataio di Empedocle è che sapeva pasticciare con gli elementi, ma non si capiva come facesse a produrre un buon gelato senza avere un’idea precisa di cosa accidenti fosse un tale "dessert". Per fare il gelato non basta infatti avere gli ingredienti e l’energia necessaria a lavorarli, per fare il gelato ci vuole anche la ricetta e uno capace di leggerla e capirla.

Di ciò si rese conto Anassagora, che per primo, pare, introdusse un principio organizzatore intelligente (il Nous) che si occupava appunto di dar ordine e forma agli elementi di base, solo che, non essendo probabilmente abbastanza intelligente lui stesso (scherzo!), non lo capì e se ne servi come di una specie di Deus-ex-machina (accusa rivoltagli da Aristotele in persona, che si narra fosse stato lui stesso soprannominato il “Nous” all’interno dell’Accademia, essendo uno di quelli che non ti lasciano mai cascare una parola sbagliata, e pure parecchio permaloso, direi, a giudicare da come scrive).

Dopo Anassagora, la palla della ricerca del principio ordinatore passa a Platone. Il grande Ateniese nella sua metafisica affiancherà infatti anch'egli ai due princìpi/gusti - il principio formale o di limite (l’Uno) e quello materiale o di illimitato (la Diade di grande e piccolo) - un agente ordinatore divino, il celebre Demiurgo.

Più ancora del Nous di Anassagora, il Demiurgo platonico ad Aristotele non era piaciuto per nulla, lo considerava un’escamotage mal riuscito. Per Aristotele tutto quello che sta al mondo - divinità comprese - deve essere una sostanza, il che vuol dire essere qualcosa di ben definito, con una sua forma e un suo fine, che però deve essere suo personale (e non quindi quello del filosofo che se ne serve in base alle sue esigenze speculative 😁).

E uno dei problemi del Nous e del Demiurgo è che non si capiva bene per quale fine agissero. Del Demiurgo Platone dice che è buono, uno che ama le forme e ha in in odio il disordine, evidenziando un po’ una "caduta di stile" nell’antropomorfismo divino, che la filosofia greca aveva da sempre condannato (severissimo al riguardo era stato Senofane) e che tuttavia ci può anche stare, visto che Platone scrisse sempre i suoi dialoghi servendosi di miti e leggende, riservando i discorsi veramente “seri” alle esoteriche dottrine non scritte.

Aristotele, da grandissimo “rompiscatole” qual era (ma ve lo immaginate voi un giovinastro scalcagnato, orfano di padre, di origini piccolo borghesi e proveniente dagli estremi confini settentrionali della Grecia, che si prensenta all'inizio come umile alunno in un consesso, quello dell'Accademia, frequentato da tutti rampolli dell'aristocrazia ateniese e capitanato addirittura dal grande Platone, e che dopo un po', giusto il tempo di prendere un po' di confidenza, comincia a mettere in discussione tutto e tutti, incluso il "Lider Maximo"!) non si limitò a dare addosso al Demiurgo, ma contestò anche in buona misura i suoi due principi cardine.

Tuttavia la sua metafisica, che si basa su quattro "cause prime", è in larga misura ancora debitrice dell'impianto platonico. Prevede infatti anch'essa un principio, o causa, materiale (la materia prima), un principio di forma/limite (la causa formale, o forma sostanziale o essenza) e un principio agente originario (il Primo motore immobile). Se ne distigue tuttavia per la presenza di una quarta causa (la causa finale) e di tutta una serie di motori secondari, che agiscono ognuno assecondando appunto la propria causa finale, che costituisce l'obiettivo ultimo del movimento di ciascuno. (3)

I tre pilastri del sistema platonico e le quattro cause prime aristoteliche, nella religione monoteista degli ebrei, come sappiamo, vengono a collassare in un unica entità, il Dio creatore.

A differenza del Divino Architetto platonico, che può addossare almeno in parte le falle della propria costruzione all'irriducibile resistenza opposta dalla materia bruta alla sua opera ordinatrice, il Dio "onnicomprensivo" di ebrei e cristiani, non avendo nulla al di fuori di sé, deve farsi carico di tutto quello che c'è al mondo, quindi non solo del bene ma anche di tutto il male.

Con la metafisica "monogusto" dei monoteisti vediamo quindi emergere il concetto di male metafisico, inteso come carenza inemendabile di "essere" nel finito, di fronte al Principio infinito (ne ho parlato diffusamente in precedenza qui: http://www.aielli.org/2019/03/il-migliore-dei-mondi-possibili.html).
La metafisica aristotelica, "bigusto" come quella platonica, se ne distingue tuttavia in quanto non solo non prevede la presenza di un dio creatore "ex-nihilo", come quello dell'Antico testamento, ovvero di un principio posto logicamente prima e al di là del mondo, ma nemmeno di un dio ordinatore, come il Demiurgo.

Il dio aristotelico, il Primo motore immobile, è infatti solo un entità motrice che sta "nel" mondo (sebbene in posizione asintotica) e non al di là di esso, un mondo in cui convivono una a fianco all'altra sostanze sensibili e corruttibili, come gli esseri viventi, sostanze sensibili ma incorruttibili (le volte celesti) e sostanze soprasensibili (i motori dei cieli stessi), ciascuna al suo posto e nessuna debitrice ad altri, se non a se stessa, della propria essenza.

Il mondo è quindi quello che è, bello o brutto che sia, e non esiste nessun male metafisico: tutto l'essere che c'è sta nel mondo, come predicato delle sostanze che lo popolano, che sono di vari tipi ma nessuna sprovvista di un suo essere profondo e inalienabile.

Il Primo motore immobile condivide con il Demiurgo il ruolo di causa prima dell'emersione dell'ordine (cosmos) dal caos, dell'impressione del limite (peras) sull'apeiron. Ma, a differenza del Demiurgo, non è un dio provvidenziale, vive e lascia vivere, non si interessa del bene e del male nel mondo e non è quindi personalmente responsabile del fatto che quello in cui viviamo sia effettivamente il migliore dei mondi possibili, responsabilità di cui deve invece farsi carico il Divino Architetto platonico e che verrà poi enfatizzata, come sappiamo, dalla teologia sviluppata da Leibniz.

L'ordine (la vita, in particolare) sta nello spazio delle possibilità del mondo (Platone avrebbe detto delle idee), ma si tratta di farlo emergere dalla materia prima informe, che è appunto solo potenza di forma e nessuna forma in atto. Il primo motore aristotelico, senza volerlo esplicitamente, perseguendo la sua propria felicità e disinteressandosi di tutto il resto (la sua attività è notoriamente il pensiero di se stesso in quanto pensiero), si pone alla base di quel movimento astrale che poi, a sua volta, innesca il continuo rigenerarsi della vita, come spiegato da Aristotele nel De generatione et corruptione (e qui c'è lun'altra grandissima intuizione dello Stagirita, che lega a filo doppio la vita sulla Terra al sempiterno moto astrale, immergendo quindi l'uomo stesso in un divenire ciclico cosmico in cui non esiste frattura alcuna tra natura e cultura).

Il ruolo del primo motore è quello di garantire che tale processo di rigenerazione delle sostanze sensibili, nel passaggio della forma dalla potenza all'atto e viceversa, avvenga eternamente e senza soluzione di continuità. (4)

Di tali sostanze soprasensibili non ce n'è tuttavia una sola, ma sono tante quanti i motori che animano le sfere celesti (Aristotele ne conta 55 nel libro XII, pur riconoscendo che c'erano controversie con gli astronomi Eudosso e Callippo su tale numero). Il primo motore però è l'unico ad essere perfettamente immobile, gli altri muovono essendo a loro volta mossi. Egli è quindi effettivamente il fulcro del sistema, un elemento cruciale senza il quale l'intero universo regrederibbe allo stadio di pura materia prima indefinita e le forme, per come le conosciamo, a mera potenzialità astratta.

Tuttavia, sebbene esista per Aristotele un motore primo, senza il cui movimento l'universo si cristallizzerebbe in una stasi mortale, è pur sempre vero che nella sua ontologia tutte le rimanenti sostanze contribuiscono al moto complessivo, ognuna movendo se stessa e causando a sua volta il movimento altrui, col muoversi ciascuna in vista del proprio fine. (5)

A ben guardare, nel cosmo aristotelico, vige quindi precisamente l'asserto con cui Dante chiude la Commedia: è l'amore (con la "a" minuscola) "che move il sole e le altre stelle", quell'eros che il maestro Platone aveva santificato nel Simposio e che sempre spinge le sostanze, dalla prima all'ultima, alla ricerca della felicità, da intendersi in senso greco come eudamonia, ovvero capacità di conoscere il proprio daimon ("conosci te stesso") e di perseguire l'eccellenza nell'ambito dei confini da esso tracciati. L'anima per il pensiero greco classico non è infatti possesso individuale ma entità convissuta e sociale, una sorta di abito (hèxis) che si riceve in prestito alla nascita e che poi bisogna riconsegnare alla collettività al termine del percorso, e pure in buono stato. (6)

Io trovo la metafisica aristotelica della sostanza estremamente "democratica" e una base formidabile su cui poggiare le fondamenta politiche ed etiche della società umana: un mondo in cui tutti quanti gli uomini, che fatti non furon "a viver come bruti", sono chiamati ad agire come "motori" responsabili, ossia come agenti che nel perseguire l'obiettivo della propria felicità (la causa finale individuale) sappiano operare con virtù, misura e ponderazione, consci del fatto che uno solo al mondo (e non si tratta di un uomo) muove rimanendo immobile, mentre tutti gli altri muovono venendo essi stessi mossi, in uno spazio e in un tempo condivisi in cui è possibile, e quindi doveroso, agire in maniera da trovare una sistemazione dignitosa per tutti (e no, Aristotele non era né schiavista né sessista, ma su questo tornerò in seguito).



NOTE

(1) "principio delle cose che sono è l’illimitato [apeiron]… donde le cose che sono hanno la generazione, e là hanno anche il dissolvimento secondo la necessità. Infatti esse pagano l’una all’altra la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo". (www.filosofico.net)

(2) Dovendo poi dar conto non solo dell’apparire del gelato dai quattro elementi (che nel suo modello svolgono sostanzialmente il ruolo dell'apeiron, pur essendo già di per sé un minimo formati, in quanto appunto quattro elementi distinti tra di loro) ma anche del suo scomparire per ritornare agli elementi stessi, al gelataio dovette poi contrapporre una specie di “divoratore di gelati”, che chiamò “odio” o “discordia”.

(3) La causa finale è poi quella che realmente qualifica le sostanze individuali, rappresentando (almeno per l'idea che me ne sono fatto io) il vero "principium individuationis" nel suo sistema (io sono distinto dall'altro perché perseguo un mio fine individuale, più che per il semlpice fatto che il mio corpo materiale non coincide con quello dell'altro).

(4) Ciò è plausibile in quanto Aristotele dimostra nella Metafisica che sono del tutto pensabili (nel senso che non si cade nell'assurdo e non si viola il principio di non contraddizione affermandole) sostanze che siano pure forme e, in quanto tali, eterne e ingenerate. Non sono invece sostanze gli universali platonici (idee, generi o numeri che siano), proprio in quanto affermandone l'esistenza si viola il principio di non contraddizione, dato che, ponendo l'essere al di fuori degli enti, che "sono" solo in quanto partecipano di un'idea universale, si afferma che l'essente (la sostanza), allo stesso tempo e sotto le medesime condizioni, è non è.

(5) Qui c'è anche la grandezza della fisica aristotelica, al cui cardine vi è il concetto di "moto naturale", sciaguratamente persosi con la fisica moderna, che è poi il moto erotico che spinge tutte le sostanze (pure quelle inanimate!) ad "andare dove debbono andare" (avrebbe detto Totò). Perché nel mondo immaginato dallo Stagirita c'è posto per tutti e tutti hanno il loro posto, si tratta solo di raggiungere tale posizione di elezione, ponendo e ponendosi gli interrogativi giusti ("scusi, vigile, dove dobbiamo andare per andare dove dobbiamo andare?").

(6) « La stessa cosa sono il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi mutando trapassano in quelli e quelli ritornano a questi. » Eraclito, “frammento 22”

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