ZIA DORA
Il ricordo che ho di zia Dora è ambivalente: da un lato c’è la zia e maestra, autoritaria e severa che non faceva nulla per farsi amare, anzi, con le sue osservazioni era sempre pungente; dall’altro una donna felice solo all’apparenza, in cerca di riscatto, cioè di un soggetto, di un essere sul quale riversare il grande potenziale di amore che albergava nel suo cuore, che, non trovando una valvola di sfogo, inaridiva ed inacidiva.
Dora era la penultima o terzultima delle sei sorelle Bernardi. Mia madre, per dire, era la terza. Orgogliosa di essere la moglie del rag. Orlando Trasanna, vice direttore della Banca Popolare, bell’uomo, ma distaccato, di cui aveva sposato anche la mamma, ‘gnora Angiolina. Erano madre e figlio originari di Larino, paese di cui entrambi, parlavano poco, e di cui lei, la madre, portava alcuni tratti caratteristici della lingua e culturali, oggetto dell’ironia di noi bambini. Era idolatrata dal figlio, che la teneva con sé come una specie di icona; quando l’ho conosciuta era molto anziana; non usciva quasi mai dalla camera che le era tata assegnata e che per anni è stata tutto il suo mondo. Aveva con sé, nell’armadio dei vestiti, una valigia sempre pronta, con su scritto “Per il Grande Viaggio”, che conteneva un completo funebre, comprendente anche le scarpe, e gli indumenti intimi.
Portava, zia Dora, un cappello con una piuma che sembrava un alpino (al tempo le alpine non erano ancora arrivate). Lo sguardo diretto, il bavero della giacca rialzato, nella foto di tre quarti posta sulla lapide al cimitero, con una spalla sporta in avanti e la testa leggermente piegata all’indietro, c’è tutto quanto era lei. Una donna sicura di sé, di carattere forte, anche fisicamente, che voleva apparire soddisfatta della sua condizione, in maniera, però un po’ troppo determinata. Esercitava nei confronti del marito un vero e proprio dominio, al quale egli si era assoggettato senza coltivare altre aspirazioni, se non, forse, quella di qualche scappatella, più sperata che fatta; certo che lei si mostrava gelosa del marito, ma – si vedeva- era un poco il gioco delle parti. La coppia menava una vita tranquilla, metodica, fatta di cose semplici ed elementari (lavoro, pasti e, l’unico lusso che si concedevano, il cinema serale).
Donna di principi sani ed austeri, aveva una sua spiritualità, ma lei metteva in evidenza più il suo lato materialistico, fisico, sanguigno. Lo stato di benessere si traduceva con un linguaggio crudo, nel regolare svolgimento delle funzioni corporali, la neve, quando lei era giovane e doveva andare ad insegnare in posti di montagna, arrivava “cossa-cossa”.
“Per bellezza e quattrini non si trema”, usava ripetere parlando di sé e lasciando intendere che il marito guadagnava molto, e lei aveva il suo stipendio, per cui stavano bene. Come maestra era molto stimata nell’ambito cittadino. Non avevano figli e questo era motivo di grande delusione per lei, non penso per lui. Delusione, rammarico, amarezza, sensazioni tutte mal dissimulate, nonostante il muro che lei alzava su questo argomento, quando ne parlava con gli altri.
La famiglia Trasanna abitava in tempi lontani, in un appartamento di Corso De Michetti, vicino all’Arco di Porta Madonna. Dall’altro lato della strada abitava la famiglia di un gerarca fascista molto noto, Preziuso, Podestà di Teramo, che aveva una figlia mia coetanea di nome Cecilia, molto bella, che io frequentavo perché era amica della mia cugina Edda, complice, nelle trame che inventavo, per entrare nelle sue grazie, ma la ragazza mirava più in alto.
Da Corso De Michetti, in seguito si trasferirono in una via parallela al Corso S.Giorgio, vicino al cinema Apollo e all’Istituto Magistrale. Ricordo che dalla finestra della cucina, si vedeva a volte, oltre i tetti delle case più basse, la terrazza del cinema, sulla quale si apriva una porticina che dava nello stanzino dell’operatore addetto alla macchina di proiezione, il quale probabilmente non disponeva di un bagno nelle vicinanze, ed ogni tanto usciva sul terrazzo e, pensando di non essere visto, dava libero sfogo alla vescica con uno zampillo potente che si proiettava per alcuni metri.
Infine vennero ad abitare nella palazzina della Casa dei Maestri, in via Fonte Regina, di fianco a noi, e lì abbiamo condiviso il pianerottolo per molti anni e tra i due appartamenti si è svolto un intenso traffico.
E’ in questa fase di maggiore frequentazione, che tra zia Dora e me, il rapporto divenne più intenso che non con gli altri e si creò tra lei e me un feeling, che andava oltre il rapporto di parentela.
Il quartiere nel quale eravamo andati ad abitare, piuttosto periferico, era allora in via di formazione e nuove abitazioni spuntavano come funghi. Accadde che di fronte alla nostra palazzina, sull’altro lato della strada, fu aperto un cantiere per la costruzione di un nuovo palazzo e dopo di quello altri ne vennero, quindi per molto tempo di fronte alla finestra della camera dove io studiavo era un continuo avvicendarsi di camion che scaricavano cemento ed altri materiali, mezzi da lavoro, cigolare di argani, rumori di martelli, voci di operai ed altro, per cui era impossibile studiare. Zia Dora aprì per me lo studio di zio Orlando, una specie di sancta sanctorum dove non entrava mai nessuno, nemmeno lo zio; la finestra di questo studio dava sul cortile interno della palazzina, lontano dai rumori che arrivavano là in modo molto attutito e quindi sopportabile. Lei mi ospitò durante le mattine e parte dei pomeriggi, per un periodo di tempo, abbastanza lungo, mesi e forse anni, ad intervalli, offrendomi un’oasi di silenzio e di quiete.
C’era nello studio, anche un tavolinetto con una macchina da scrivere Olivetti lettera 24, con tutti gli accessori per la dattilografia, alla quale lo zio era molto affezionato, che non era mai usata da nessuno. A me fu imposto da mia zia di rompere il tabù ed usarla, per la preparazione della mia tesi di laurea.
Mi sentii così bene accolto in quella casa, che finii col rimanere là anche a pranzo, benché la mia abitazione e il mio pranzo fossero a mia disposizione dall’altra parte del pianerottolo. Io mangiavo da solo e qualche volta con la zia. Zio Orlando mangiava un pasto molto frugale, spaghetti al burro e mozzarella tutti i giorni, e tornava subito in ufficio. La zia aveva la buona abitudine di bere a tavola un buon bicchiere di vino rosso che comprava solo per lei, il marito era astemio e a me era dato libero accesso alla bottiglia.
Nei giorni in cui aveva già pranzato con il marito, si sedeva davanti a me e, tra una portata e l’altra, mi guardava mangiare con uno sguardo di premura e di affetto trattenuto. Anche io le riservavo affetto e gratitudine. Sono convinto che in quelle occasioni, lei vedeva in me, non il nipote da aiutare, ma un figlio da amare. Quel figlio di cui avvertiva la mancanza in modo lancinante. Avevo sentito più volte che, parlando con mia madre, in momenti di tristezza e nostalgia, lei rimbrottava mia madre dicendo “Che motivi hai tu di essere infelice, che hai cinque figli ai quali appoggiarti e dovresti solo per questo essere la donna più felice del mondo?”
A volte gli zii mi portavano al cinema con loro e la zia mi faceva scivolare in tasca qualche biglietto di banca di piccolo taglio, “per i tuoi vizietti” mi diceva sottovoce.
Non sono più andato al Cimitero per motivi di deambulazione. Non appena sarò in grado di tornarci, non potrò esimermi dal fare visita alla sua tomba. Lei mi voleva bene ed anche io gliene ho voluto.
Dora era la penultima o terzultima delle sei sorelle Bernardi. Mia madre, per dire, era la terza. Orgogliosa di essere la moglie del rag. Orlando Trasanna, vice direttore della Banca Popolare, bell’uomo, ma distaccato, di cui aveva sposato anche la mamma, ‘gnora Angiolina. Erano madre e figlio originari di Larino, paese di cui entrambi, parlavano poco, e di cui lei, la madre, portava alcuni tratti caratteristici della lingua e culturali, oggetto dell’ironia di noi bambini. Era idolatrata dal figlio, che la teneva con sé come una specie di icona; quando l’ho conosciuta era molto anziana; non usciva quasi mai dalla camera che le era tata assegnata e che per anni è stata tutto il suo mondo. Aveva con sé, nell’armadio dei vestiti, una valigia sempre pronta, con su scritto “Per il Grande Viaggio”, che conteneva un completo funebre, comprendente anche le scarpe, e gli indumenti intimi.
Portava, zia Dora, un cappello con una piuma che sembrava un alpino (al tempo le alpine non erano ancora arrivate). Lo sguardo diretto, il bavero della giacca rialzato, nella foto di tre quarti posta sulla lapide al cimitero, con una spalla sporta in avanti e la testa leggermente piegata all’indietro, c’è tutto quanto era lei. Una donna sicura di sé, di carattere forte, anche fisicamente, che voleva apparire soddisfatta della sua condizione, in maniera, però un po’ troppo determinata. Esercitava nei confronti del marito un vero e proprio dominio, al quale egli si era assoggettato senza coltivare altre aspirazioni, se non, forse, quella di qualche scappatella, più sperata che fatta; certo che lei si mostrava gelosa del marito, ma – si vedeva- era un poco il gioco delle parti. La coppia menava una vita tranquilla, metodica, fatta di cose semplici ed elementari (lavoro, pasti e, l’unico lusso che si concedevano, il cinema serale).
Donna di principi sani ed austeri, aveva una sua spiritualità, ma lei metteva in evidenza più il suo lato materialistico, fisico, sanguigno. Lo stato di benessere si traduceva con un linguaggio crudo, nel regolare svolgimento delle funzioni corporali, la neve, quando lei era giovane e doveva andare ad insegnare in posti di montagna, arrivava “cossa-cossa”.
“Per bellezza e quattrini non si trema”, usava ripetere parlando di sé e lasciando intendere che il marito guadagnava molto, e lei aveva il suo stipendio, per cui stavano bene. Come maestra era molto stimata nell’ambito cittadino. Non avevano figli e questo era motivo di grande delusione per lei, non penso per lui. Delusione, rammarico, amarezza, sensazioni tutte mal dissimulate, nonostante il muro che lei alzava su questo argomento, quando ne parlava con gli altri.
La famiglia Trasanna abitava in tempi lontani, in un appartamento di Corso De Michetti, vicino all’Arco di Porta Madonna. Dall’altro lato della strada abitava la famiglia di un gerarca fascista molto noto, Preziuso, Podestà di Teramo, che aveva una figlia mia coetanea di nome Cecilia, molto bella, che io frequentavo perché era amica della mia cugina Edda, complice, nelle trame che inventavo, per entrare nelle sue grazie, ma la ragazza mirava più in alto.
Da Corso De Michetti, in seguito si trasferirono in una via parallela al Corso S.Giorgio, vicino al cinema Apollo e all’Istituto Magistrale. Ricordo che dalla finestra della cucina, si vedeva a volte, oltre i tetti delle case più basse, la terrazza del cinema, sulla quale si apriva una porticina che dava nello stanzino dell’operatore addetto alla macchina di proiezione, il quale probabilmente non disponeva di un bagno nelle vicinanze, ed ogni tanto usciva sul terrazzo e, pensando di non essere visto, dava libero sfogo alla vescica con uno zampillo potente che si proiettava per alcuni metri.
Infine vennero ad abitare nella palazzina della Casa dei Maestri, in via Fonte Regina, di fianco a noi, e lì abbiamo condiviso il pianerottolo per molti anni e tra i due appartamenti si è svolto un intenso traffico.
E’ in questa fase di maggiore frequentazione, che tra zia Dora e me, il rapporto divenne più intenso che non con gli altri e si creò tra lei e me un feeling, che andava oltre il rapporto di parentela.
Il quartiere nel quale eravamo andati ad abitare, piuttosto periferico, era allora in via di formazione e nuove abitazioni spuntavano come funghi. Accadde che di fronte alla nostra palazzina, sull’altro lato della strada, fu aperto un cantiere per la costruzione di un nuovo palazzo e dopo di quello altri ne vennero, quindi per molto tempo di fronte alla finestra della camera dove io studiavo era un continuo avvicendarsi di camion che scaricavano cemento ed altri materiali, mezzi da lavoro, cigolare di argani, rumori di martelli, voci di operai ed altro, per cui era impossibile studiare. Zia Dora aprì per me lo studio di zio Orlando, una specie di sancta sanctorum dove non entrava mai nessuno, nemmeno lo zio; la finestra di questo studio dava sul cortile interno della palazzina, lontano dai rumori che arrivavano là in modo molto attutito e quindi sopportabile. Lei mi ospitò durante le mattine e parte dei pomeriggi, per un periodo di tempo, abbastanza lungo, mesi e forse anni, ad intervalli, offrendomi un’oasi di silenzio e di quiete.
C’era nello studio, anche un tavolinetto con una macchina da scrivere Olivetti lettera 24, con tutti gli accessori per la dattilografia, alla quale lo zio era molto affezionato, che non era mai usata da nessuno. A me fu imposto da mia zia di rompere il tabù ed usarla, per la preparazione della mia tesi di laurea.
Mi sentii così bene accolto in quella casa, che finii col rimanere là anche a pranzo, benché la mia abitazione e il mio pranzo fossero a mia disposizione dall’altra parte del pianerottolo. Io mangiavo da solo e qualche volta con la zia. Zio Orlando mangiava un pasto molto frugale, spaghetti al burro e mozzarella tutti i giorni, e tornava subito in ufficio. La zia aveva la buona abitudine di bere a tavola un buon bicchiere di vino rosso che comprava solo per lei, il marito era astemio e a me era dato libero accesso alla bottiglia.
Nei giorni in cui aveva già pranzato con il marito, si sedeva davanti a me e, tra una portata e l’altra, mi guardava mangiare con uno sguardo di premura e di affetto trattenuto. Anche io le riservavo affetto e gratitudine. Sono convinto che in quelle occasioni, lei vedeva in me, non il nipote da aiutare, ma un figlio da amare. Quel figlio di cui avvertiva la mancanza in modo lancinante. Avevo sentito più volte che, parlando con mia madre, in momenti di tristezza e nostalgia, lei rimbrottava mia madre dicendo “Che motivi hai tu di essere infelice, che hai cinque figli ai quali appoggiarti e dovresti solo per questo essere la donna più felice del mondo?”
A volte gli zii mi portavano al cinema con loro e la zia mi faceva scivolare in tasca qualche biglietto di banca di piccolo taglio, “per i tuoi vizietti” mi diceva sottovoce.
Non sono più andato al Cimitero per motivi di deambulazione. Non appena sarò in grado di tornarci, non potrò esimermi dal fare visita alla sua tomba. Lei mi voleva bene ed anche io gliene ho voluto.
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