SGABUZZINO

Avete presente il bugigattolo? Ma, sì, suvvìa, non fate i finti tonti, e chi potrebbe aver dimenticato quanto detto già con parole alate a proposito di quel luogo magico che è il bugigattolo? (detto da chi? Ma, da me naturalmente: v. nello Zibaldino il post omonimo pubblicato il 7 agosto 2019!) Ah, ma allora dite sul serio? Non l’avete letto? E io che credevo…che ognuno di voi se ne fosse fatta una copia, per rileggerla in ogni momento di tempo libero, come modello insuperabile di scrittura, in cui poter ammirare il livello al quale si può giungere, coniugando come è stato fatto mirabilmente in quel brano, l’inconsistenza della materia, con l’ampiezza del senso che ad essa si può dare con le parole. “Multa paucis”, dicevano i romani. Non lo dicevano? Fa niente, il significato è lo stesso: dire molte cose con poche parole. Ovvero raggiungere il massimo effetto con i minimi mezzi a disposizione.



“Ed ora”, dite voi, “dopo il grande successo del bugigattolo, questo ci vuole riprovare con lo sgabuzzino? Impresa impossibile”, penserete tutti, “primo perché lo sgabuzzino è molto più stretto del bugigattolo, secondo in quanto l’esperienza insegna che il “sequel”, quel secondo o terzo capitolo che in genere si fa seguire ad un film di successo, quasi mai raggiunge la fama del modello originario”.

“Senza contare”, ma questo anche se lo pensate, non verrà mai da voi palesato, “che ogni limite ha una pazienza – come diceva Totò - e quindi non puoi venire ancora una volta a romperci le palle con argomenti pretenziosi e di nessuno interesse”.

“Avanti, vediamo: che sarebbe ora questo sgabuzzino di cui dovremmo sentire l’urgenza di parlare? La bacinella di barbiere scambiata per l’elmo di Mambrino? O la scarpetta di cristallo che calza solo al piede di Cenerentola, oggetti, in sé, di scarso valore, ma resi celebri dalla penna di un autore di genio?”

Avete finito? Ora parlo io: avete tutti torto, qui parliamo di cose serie.

Chiamasi sgabuzzino un locale piccolo e senza finestra, usato per lo più come ripostiglio di oggetti che non si usano più, o non si usano molto spesso. Niente a che vedere, per esempio con le soffitte, ampie, scomode, poco o niente illuminate, con vecchi mobili accatastati, tele di ragno dappertutto, dove già posando il piede sul primo gradino della scala sulla quale si deve salire per accedervi, si respira l’atmosfera gravida di mistero che sappiamo di trovarvi, quella di certi luoghi dove segreti antichi giacciono sepolti, in attesa di essere scoperti, vecchie lettere d’amore con macchie di ruggine che sembrano sangue, nascoste in fondo ad un cassetto, un vecchio archibugio dell’epoca garibaldina, una trina tarlata dentro un vecchio baule, un computer danneggiato, con dentro la memoria del disco fisso, emblema del tempo che stiamo vivendo, finito in mezzo ai residui di un passato remoto.

E se il bugigattolo, (ah! se aveste letto l’articolo che lo riguardava, ve lo ricordereste), in origine era la porticina basculante che si lasciava a piè delle porte per far passare il gatto, tanto che per un certo tempo non fu che “il buco del gatto”, lo sgabuzzino, che secondo alcuni, attraverso un passaggio linguistico, da “stambugio” a “stamberga”, alla fin fine, deriva da “stanza” con l’aggiunta di “bugio” che significa “buco”, altro non è che un “buco di stanza”. Una stanza ridotta ai minimi termini.

Niente di misterioso, o straniante, lo sgabuzzino è bene illuminato ed ordinato: quando in casa non si trova una cosa, l’ultimo rifugio è lo sgabuzzino, che è il luogo dove finisce ciò che non serve o serve poco, come ho detto, ma da cui non vogliamo separarci ancora del tutto. Una specie di archivio corrente della nostra memoria, mentre le cose portate in soffitta sono quelle più ingombranti che vogliamo tenere lontano dalla nostra vista, ma delle quali non osiamo ancora sbarazzarci, per un debito di memoria che abbiamo con il nostro passato e vanno così ad ingrossare l’archivio storico di ognuno di noi.

Consentitemi un’ultima boutade: e la gattabuia cos’è? E’ il carcere come lo vede il buontempone. “Sai quel bellimbusto che ingannava tutti credendo di farla franca? Finalmente è finito in gattabuia!”. L’origine della parola invece è severa: viene dal greco “catogheia” , che vuol dire sotterraneo ed è un fatto che le antiche carceri erano tutte situate in sotterranei. Le “segrete” dei castelli, i “Piombi” di Venezia, dove fu ospite anche Giacomo Casanova, il famigerato Spielberg di Silvio Pellico, i sotterranei di Castel Sant’Angelo, ove fu detenuto anche Benvenuto Cellini, che fu protagonista di una fuga rocambolesca, finita purtroppo con un nuovo incarceramento, e dove c’era una cella, chiamata San Marocco, divenuto con l’uso, Sammalò, dove si veniva calati dall’alto e che era di dimensioni così ridotte, che il detenuto non poteva assume la posizione sdraiata e nemmeno quella seduta.

Dalla stessa parola greca derivano i termini semi dialettali di “catoio” o “catuio”, che accentuano la tristezza di questi luoghi di pena, in cui si poteva essere sottoposti a sofferenze inaudite. Apprezziamo pertanto di più l’uso vagamente ironico della gattabuia, che secondo alcuni deriverebbe da “gattaiola”, altro termine per dire “bugigattolo”, sinonimo di sgabuzzino.

Entrambi, gattabuia e bugigattolo, chiaramente derivanti dalla figura del gatto, ladro per eccellenza, sono termini il cui significato è concentrato, nel primo caso, quello di gattabuia, nell’idea del buio da cui è caratterizzato il luogo in cui il gatto vive (metafora del carcere), nel secondo, quello del bugigattolo, nel “buco” dal quale lo stesso animale domestico è libero di uscire e rientrare a suo piacimento.

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