HALLOWEEN

Halloween è il corrispondente inglese dell’italiano Ognissanti. La parola deriva da un inglese arcaico “All Hallow’s Eve” che vuol dire appunto vigilia di Tutti i Santi. La festa di Halloween o di Tutti i Santi, ha radici molto antiche che affondano nella credenza, ancora viva nella tradizione di molte popolazioni mondiali, che in certi giorni dell’anno la parete che divide il mondo dei vivi dal mondo dei morti, di solito inaccessibile, si assottigli fino a diventare quasi inesistente, così da rendere possibile un qualche contatto, una forma di comunicazione tra di loro.

Le prime tracce di questa festa si trovano nella tradizione celtica di alcuni paesi britannici, segnatamente l’Irlanda, che poi, per via delle migrazioni, la esportò anche in America, dove ha assunto caratteri propri, diversi dai nostri.

Leo ed amici ad Halloween, qualche anno fa.

Qualcosa di simile esisteva anche a Roma, con una festa dedicata alla commemorazione dei morti e collocata all’origine in primavera. In un secondo momento, con l’avvento del cristianesimo, la festa fu spostata al due di novembre, di seguito a quella di Ognissanti che cadeva il primo dello stesso mese.

Due tradizioni, quindi, da un lato si compenetrano e per l’altro si distinguono, sulla stessa materia, con evidenti contaminazioni e divisioni, quella che ha avuto origine nei Paesi di influenza britannica, e quella che deriva invece dai riti latino-cristiani

Congetture varie alimentano la fantasia popolare su questo tema, immaginando processioni notturne di morti, morti che escono dalle tombe per tornare a visitare i luoghi dove essi sono stati da vivi, ecc. Compito dei vivi era quello di agevolare e rendere confortevoli queste visite, che, essendo di persone care, non avevano, all’origine carattere di orrore o di terrore; anzi i morti tornavano ed erano come quando erano andati via, con le loro sembianze, suscitando non spavento, ma piacere, anche se non era possibile da parte dei viventi, vederli.

Via via, nel tempo, la festa ha poi assunto i caratteri di cosa macabra, infestante, vero e proprio tripudio dell’orrore e del terrore che noi vivi abbiamo della morte, anche se la rappresentazione che se ne dà ha più l’aspetto del fatto folcloristico e carnevalesco che non della paura.

Chi ha scelto le prime due giornate di novembre per commemorare tutti i Santi e tutti i Morti, deve essere un genio. Esse infatti arrivano giusto in tempo per il primo sobbalzo d’autunno, il momento del distacco dalle dolci ottobrate, le quali, se vogliamo rappresentano le delizie della vita, mentre la tristezza di queste due giornate ci riporta immancabilmente all’idea della morte. Con una sottolineatura: la festa che si svolge nei paesi di area anglo-americana, si è indirizzata sempre più marcatamente verso la ricerca di effetti fantastici e truculenti, di natura però molto consumistica, mentre quella dei paesi neo latini si è sforzata di mantenere i caratteri originari di festa religiosa, con riti volti alla commemorazione delle anime dei defunti, fino a cedere, negli ultimi tempi, alla travolgente invasione dell’altra. Oggi si assiste infatti, soprattutto per opera delle giovani generazioni, ad un generale allineamento dei due rami, in un unico grande filone dove la presenza dell’horror fittizio, prevale su ogni altra raffigurazione.

La festa di Halloween, quella con maschere da zombi e delizie varie, zucche, torve di bambini che bussano alle porte con il ricatto minaccioso di “Dolcetto o scherzetto”, oggi, si svolge in tutti i paesi in cui si usa commemorare i morti con cadenza annuale, nella notte tra il 31 ottobre e il 1°di novembre. Da noi, la processione dei morti, tradizione che tra l’altro ricorre anche in paesi asiatici come il Giappone, continua a muovere, ordinatamente, con passo lento e cadenzato, come in un film appunto di Akira Kurosawa, nella notte tra il 1° e il 2 di novembre.

E’ un momento di raccoglimento e compunzione: nelle case dove la tradizione viene osservata, nelle cucine vengono lasciate tavole apparecchiate con cibi e bevande, in ricordo di quello che fu amato da quegli ospiti straordinari, si lasciano ceri accesi tutta la notte e si chiude la porta per non dare fastidio a quelle care anime che hanno quella sola occasione di tornare dove vissero.

E’ un cordoglio che dura poco, perché le esigenze della vita prevalgono nel continuum delle generazioni ed ecco quindi che sopraggiunge un contraccettivo, con l’estate di S. Martino, castagne e vino, quindi allegria. Siamo rassegnati alla morte che per questo non deve spaventarci, anche se ci piace pensare che un legame rimanga sempre tra chi è vivo e chi è morto. Con i dolci riti, che servono a tener vivo il ricordo, a rinnovare l’affetto, con una sensazione del dolore sopito dal tempo e rimasto come mestizia tranquilla, un dialogo ininterrotto, muto ma senza affanno tra due mondi paralleli.

Ai tempi di quando ero bambino, la circostanza veniva accolta da noi piccoli, con gioia, per la singolarità del momento, rappresentato dalla solennità degli adulti, che a noi sembrava artificiosa, i quali tentavano con la loro compostezza, di inculcarci buoni sentimenti come amore e rispetto per ascendenti che noi magari non avevamo nemmeno conosciuti.

C’erano le visite da fare a i cimiteri, che, nel caso nostro, erano due, perché a Teramo a quei tempi era stato inaugurato il nuovo cimitero, ma non ancora traslate le salme dal vecchio al nuovo e, quindi, capitava di avere defunti da commemorare in entrambi.

Le visite erano programmate con cura e dovevano parteciparvi tutti i componenti della famiglia; il tragitto si percorreva rigorosamente a piedi, ma a noi bambini era consentito portare con noi le castagne, da mangiare lungo il percorso.

Era come una scampagnata, con quel tanto di misterioso che i cimiteri trasmettono; credenze, tradizioni e superstizioni, convivevano tranquillamente nei nostri giovani petti. Per esempio, entrando nel cimitero, con i primi Requiem che dovevamo recitare, noi piccoli stavamo molto attenti a non inciampare per non cadere, perché sapevamo che cadere a terra al cimitero, il giorno di tutti i morti, significava morire entro l’anno. Salvo poi, quel che accadde una volta a mio fratello Vittorio, il quale, mentre tutta la famiglia era raccolta intorno alla tomba di non ricordo quale lontano parente, con piglio da esploratore, decise di dare la scalata al monumento della tomba accanto, arrivando ad abbracciarne la croce, che vi era sovrapposta, fissata ad una pesante lastra di pietra quadrata che troppo tardi l’ardito mio fratello scoprì non essere fissata al basamento principale. La pietra si mosse, mio fratello cadde e la pietra gli cadde addosso seppellendolo quasi. Miracolo, rimossa la lastra, mio fratello era illeso e, non per dire, è ancora vivo. Lunga vita, caro fratello.

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