FORSE

“Il forse è la parola più bella del vocabolario italiano, perché apre alle possibilità, non certezze…Perché non cerca la fine, ma va verso l’infinito”. Non sarà – forse - la citazione più illuminante di Giacomo Leopardi, ma è certamente molto bella. E’ tratta dallo Zidaldone.



“Forse perché della fatal quiete tu sei l’imago, a me sì cara vieni o sera” (Foscolo, Alla Sera).

Questa vuole essere una modesta escursione nel mondo del “forse”, che è un po’ il fragile perno su cui ruota la nostra esistenza. L’unica domanda alla quale non possiamo rispondere con un forse, è quella sulla certezza della nostra morte; alle altre, sì, nel senso che il forse è possibile.

Forse è foriero di dubbio, che a sua volta, semina incertezza ma apre a tante possibilità. A seconda di come lo si usa. La via che non presi era forse quella giusta? Forse che eri tu quella che mi esortava a prenderla? No. Non eri forse tu quella che mi invitava a non prenderla? Sì.

Un salto nella storia. Di Roma agli albori: siamo al tempo dei sette re.

C’era o non c’era il vento sul Gianicolo, il giorno in cui un sortilegio rivelò all’etrusco Lucumone, emigrato da Tarquinia a Roma, che presto sarebbe diventato re di quella città con il nome di Tarquinio Prisco?

Forse che sì. Forse che no.

Negli annali è scritto: “Ad Ianiculum forte ventum erat”. Secondo una prima, frettolosa traduzione, sembra di sì, il vento c’era ed era anche abbastanza forte. Traduzione maccheronica, secondo alcuni. Secondo altri, invece il “forte” di cui alla celebre frase, è da intendere nel senso avverbiale di “per caso”, per cui il vento non ci entrerebbe affatto, dovendosi interpretare l’inciso con un “fu un caso che il fatto avvenisse lì”. Libero il vento di esserci oppure no, il recensore non vi fece caso o non ce ne ha dato notizia. Il suo interesse era rivolto non al fatto che fosse, o meno, una giornata ventosa, quanto piuttosto alla casualità dell’evento (1), tutt’altro che irrilevante, del sortilegio, che doveva portare all’incoronazione del quinto Re di Roma, cinquecento anni prima di Cristo. E non era il primo straniero fatto re a Roma.

“Forte” in latino infatti significa, sia forte, aggettivo, quanto, “per caso, fortuitamente” ed è un avverbio. Il “forte” avverbio ha a che fare con la sorte? Se una cosa avviene per caso, non sarà anche un segno del destino? Ed il sortilegio, che è divinazione, non si lega – forse – con la sorte?

L’origine del “forse” è in “fors” latino che vuol dire “la sorte, il caso”, ma anche, fato, destino. “Forse” vuol dire tutto ciò ed altro ancora. “For-sit”, che sia così, quindi non un’attesa passiva, “avvenga che può”, di un evento incerto, ma una attiva partecipazione affinché ciò che si desidera, si avveri. Quindi la speranza.

“Sorte” in latino si dice “sors” ed è analogo a “fors”. La sorte è la fortuna e la fortuna è rischio. Si tenta la fortuna al gioco. I due centurioni che avevano inchiodato Gesù alla croce, si giocarono la sorte per il possesso dei suoi stracci, tanto all’uomo non servivano più. Per farne cosa? Forse regalarli ad uno schiavo. Peccato non averli conservati, oggi avrebbero un valore immenso. Insieme alla Sindone potrebbero raccontare l’intera storia della Passione.

Il bello è che questo piccolo avverbio, assolve al suo compito, con elegante noncuranza, in quanto si tiene in disparte. L'eleganza infatti consiste nel fatto di non farsi notare, riuscendo a dare sapore a molte salse con il buon gusto di non presentare mai il conto. Il forse è timido, modesto, accomodante, fortuito.

Un altro esempio mi piace citare, che viene ancora dal mentore di questa parola, ed è tratto dal suo “Canto Notturno del Pastore Errante dell’Asia”, che è un lungo monologo del protagonista un pastore che ha le sembianze del Poeta il quale, mirando la luna che, muta, illumina un paesaggio desolato, si interroga sul senso della vita:

Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
E' funesto a chi nasce il dì natale.

Nel nostro tempo di relativismo esasperato, è bello trovare delle conferme. Scoprire che già nel passato qualcuno cercava non delle certezze, ma delle possibilità. Non cose finite, ma in fieri. Mere eventualità. Probabilità, cose che possono accadere, un giorno, forse, oppure non succedere mai.

Con un filo di sottile ironia, che amaramente ci fa capire quanto fosse profondo lo sconforto in lui, ancora Leopardi, parlando della felicità, si esprime così : quest’anno non abbiamo avuto motivo di essere felici, ma con l’inaugurazione del nuovo calendario (ricordate la conversazione con il venditore di almanacchi?), accadrà - forse- qualcosa che cambierà la nostra vita e ci riempirà di gioia, non è vero, forse? Dove un barlume di speranza, nonostante tutto, trapela dal suo patetico aggrapparsi a quella domanda finale: non è forse vero? Come quasi a crederci davvero. Come naturalmente sarebbe logico per tutti attendersi. Ma per lui, solo per lui cosa mai sarebbe stato possibile aspettarsi dal futuro? Oltre alla gioia intellettuale, a quella continua intuizione di un infinito che sta dietro l’ermo colle, come dietro ad ogni cosa, quella apertura grande dell’anima, gli infiniti silenzi ai quali aspirava, il suo spirito? Forse non erano proprio questa sua estrema sensibilità, unita alle sue condizioni fisiche le fonti della sua inquietudine? Forse era possibile avere delle certezze in quelle condizioni?

Certezze che non si hanno nemmeno sulla ubicazione della tomba del grande poeta, la cui salma, secondo una ipotesi non so quanto attendibile, potrebbe essere finita nelle fosse comuni, dei morti di colera, malattia che allora imperversava a Napoli, dove egli soggiornava, ospite dell’amico Ranieri, il quale, secondo un’atra ipotesi alternativa, potrebbe aver venduto parti del suo cadavere per esperimenti scientifici. Incertezze, ipotesi, una sequela di forse.

In chiusura, voglio narrarvi del valore di un “forse”, come estrema speranza, sulle labbra di un uomo condannato, ma non vinto.

Oreste, questo il nome italiano col quale si faceva chiamare, che per più di quaranta anni aveva fatto della sua comparsa sulla nostra spiaggia in due distinti periodi dell’anno, all’inizio e alla fine della stagione balneare, una consuetudine alla quale ci aveva abituato, un anno, al momento di salutarci, perché lui ripartiva, mi confidò di essere seriamente malato e di doversi sottoporre, al suo rientro in Germania, ad un delicato intervento chirurgico. Nel fargli i miei auguri per una totale e rapida guarigione, gli dissi che lo aspettavo per l’anno successivo. “Forse”, mi rispose, e guardandomi con un volto ispirato, che gli vedevo per la prima volta, aggiunse: ”se Dio vorrà”. Dio volle, per altri due anni, ma l’uomo non era già più lo stesso, il terzo non venne.



1) La questione potrebbe complicarsi, ove si tenga conto delle modalità in cui il sortilegio si verificò. Sembra che un’aquila, piombasse sul capo dell’etrusco, togliendogli il cappello, facendoglielo volare in alto e riposandoglielo infine sulla testa in perfetto stato. Non mi dite che non sarebbe stato importante sapere se tirava vento oppure no, in quel momento, piuttosto che accertare se fu per caso che l’evento si fosse verificato lì.

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