ACCIDENTI!

Ripercorrendo a ritroso i miei passi qui sullo Zibaldino, da quando ho esordito all'inizio di quest'anno, mi accorgo di aver girato e rigirato spesso attorno a uno stesso tema: come fare a catturare, a far emergere, l'essenza di cose e persone. Come si fa normalmente, arrivare alla sostanza del discorso l'ho inteso inizialmente come un processo di sottrazione, di messa a nudo: lasciato cadere tutto ciò che ha natura tributaria e transeunte emergerà inevitabilmente, mi dicevo (ammesso che ci sia), ciò che invece accessorio e accidentale non è.

Lo Zibaldino

Tale ricerca era spinta da una motivazione, ammettiamolo, parecchio tradizionale: fare i conti con la morte (ma non la propria, bensì quella dei propri cari, l'unica sperimentabile direttamente dalle persone in vita, ché la nostra morte non ci è conoscibile, in quanto, come rilevava giustamente Epicuro, quando ci siamo noi lei non c'è, e quando ci sarà lei saremo noi a non esserci più).
Solo ciò che muta ha infatti un inizio e una fine, una nascita e una morte. Se esiste un qualcosa di immutabile esso non può quindi avere né inizio né fine, eventi che implicherebbero un mutamento.

Più di recente, tuttavia,  interrogandomi sul perché gli esseri viventi nascano e muoiano, mi sono reso conto che ciò è necessario perché la vita, che può esprimersi unicamente tramite i viventi, necessita di un continuo ricambio generazionale al fine di garantire la varietà genetica necessaria a rendere la vita stessa resiliente di fronte al mutare delle condizioni ambientali.

Questa scoperta mi ha forzato a rivedere la mia visione del rapporto tra essenza e accidenti. Ciò che per l'individuo ha carattere accidentale, per la specie, per la Natura in toto, può avere al contario rilevanza sostanziale.

Ma, tornando al punto di partenza della nostra indagine, ammesso che esista questo sostrato immutabile che chiamiamo sostanza o essenza e che sia veramente di così grande interesse per noi (cosa di cui rimango convinto), che possibilità abbiamo di arrivare a conoscerlo, a farcene, come si dice, un'idea chiara?

Ebbene, secondo il filosofo inglese John Locke, empirista convinto, noi non siamo in grado di formarci idee chiare e distinte sulla sostanza, l’essenza immobile delle cose, ma solo sugli accidenti, di cui abbiamo evidenza immediata mediante i sensi.

 Questo punto mi par riecheggiare assai da vicino una celebre metafora di Aristotele, che in apertura del libro II della Metafisica paragona l’intelletto umano agli occhi delle nottole, animali notturni che vedono benissimo al buio (ossia le cose che di per sé sono più oscure, gli accidenti, il contingente) mentre sono accecati alla luce del sole (ossia delle cose che di per sé sarebbero più chiare e evidenti, le sostanze o essenze).
Sebbene compito del filosofo per Aristotele, come per Platone, sia quello di portare la speculazione a elevarsi al rango delle essenze, consentendo all’intelletto di afferrare ciò che la vista e gli altri sensi non rivelano immediatamente, nella conoscenza filosofica l’accidente non viene del tutto svalutato dallo Stagirita, tutt'altro.
Questo è infatti quanto egli scrive al riguardo nel primo capitolo del De anima (con l’immancabile frecciatina ai colleghi-avversari platonici in chiusura):

"Sembra che non solo la conoscenza di che cos’è una cosa [la sua essenza] sia utile a cogliere le cause degli accidenti delle sostanze (come in matematica conoscere che cos’è il retto o il curvo, o la linea e la superficie è utile per sapere a quanti retti siano uguali gli angoli del triangolo), ma anche, viceversa, che gli accidenti contribuiscano in larga misura a conoscere che cos’è una cosa.
Quando infatti siamo in grado di dar conto, in conformità all’esperienza, di tutti (o della maggior parte) degli accidenti, allora potremo parlare anche dell’essenza nel modo più corretto.
Principio di ogni dimostrazione è infatti che cos’è la cosa, e di conseguenza le definizioni che non consentono di conoscere gli accidenti, e neppure di congetturarli con facilità, evidentemente sono tutte formulate in modo dialettico e vuoto.”

Questo passo di Aristotele, che non conoscevo ancora quando ho iniziato a scrivere sul blog, sembrerebbe mettere definitivamente a tacere la querelle tra sostanza e accidenti, disegnando un circolo ermeneutico in cui, se l'accidente ci apre la strada all'essenza, l'essenza stessa ci consente di gettar luce sugli accidenti. Fine della storia.

Benissimo, ma che ne è stato dunque, alla fine di tutto questo discorso, della morte, dell'avversaria irriducibile e falce-munita da cui avevamo preso le mosse?
Oggi come oggi l'idea che mi sono fatto è che le persone non muoiono (nel senso di cadere nel nulla), piuttosto, come si scrive nei giornali, "scompaiono". L'apparire, con la nascita (e il successivo scomparire con la morte) della sostanza in atto si dispiega interamente nella dimensione dell'accidente (poteva darsi, ma poteva pure non darsi). E' tuttavia importante in quanto getta luce sulla sostanza, ci consente di farne esperienza. E questo vale non solo per gli esseri viventi, ma per tutte le entità munite di una qualche forma che ci appaiono popolare l'universo. La forma non si genera e non si corrompe, semplicemente appare e scompare nel tempo, il cui scorrimento è poi solo la nostra maniera di dare un ordine a noi comprensibile a un mondo che tale ordinamento assai probabilmente non ce l'ha, o ne ha uno completamente diverso.

L'essere, insegna il Maestro di Stagira, si dice in molti modi: l'esistenza (lui lo chiamava "essere in atto", energheia) è solo uno dei modi. Probabilmente nemmeno il più importante, per come la vedo adesso. Il vero essere per me si dà infatti nella dimensione, più profonda, del possibile (dynamis): solo ciò che ha potenza di essere potrà, a un dato istante, apparire come esistente in atto. E tutto ciò che ha la possibilità di essere, se ci poniamo in un orizzonte temporale infinito, non solo apparirà prima o poi con certezza, ma ritornerà (nel senso che riapparirà e riscomparirà) un'infinità di volte, proprio come affermava quel "folle" di Friedrich Nietzsche. Dio, infatti, ha certamente creato il migliore dei mondi possibili, come sostenuto da Leibniz (il Dio artigiano è naturalmente solo una metafora di comodo per l'ineffabile, che prendo a prestito dai testi sacri ebrei).  Ma poi non si è fermato lì e li ha creati tutti, i mondi possibili. Che diamine, gli venivano così bene!

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