IL MISTERO DELLA RUVA STRETTA

C’è una ruva nel mio ricordo, ‘la ruvetta’ la chiamavamo mio fratello ed io, affettuosamente, e non perché ne avessimo una conoscenza particolare, né perché lì fosse avvenuto qualcosa di memorabile ed affascinante, ma proprio per l’inverso, per il fatto che non ne sapevamo niente, ma eravamo portati a fare ogni sorta di fantasticherie da ragazzi, per i silenzi omertosi degli adulti, quando si parlava di quel posto e perché, deludendo ogni nostra attesa e speranza, lì, non avvenne mai nulla di così strabiliante da farci sognare ancora di più.

Tranne una volta.

La ruva è un vicolo, di per sé, un posto poco igienico e sicuro. Se poi è stretta, la cosa si fa allarmante. Mettici che può essere anche lunga e senza vie laterali di scampo, e vedrai che nessuno si azzarderebbe ad imboccarne una, senza le dovute precauzioni. Perché lungo il percorso, può capitare di tutto. La ruva è un mondo a parte, dove le garanzie normali di sicurezza e di legalità, sono temporaneamente sospese. Due persone che si incrociano in un punto centrale della ruva, debbono necessariamente sfiorarsi e solo in quel momento si sa con chi si ha a che fare.

Bagni di Mario, Bologna - 2018

La ruvetta della mia memoria, mi riporta a tempi assai lontani, quando abitavo in quella città, in quella via, fra palazzi e casupole, al centro, ma quasi periferia, abbastanza larga ed illuminata, anche di notte, dove le famiglie, ricche e povere abitavano tranquille, una accanto all’altra, pur nella diversità delle rispettive condizioni sociali, ed una ruva passava sul retro delle case, in una zona appartata, non illuminata, il cui nome, Vico degli Storni, non corrispondeva affatto alla situazione reale. Tra due muraglioni, eretti lì a difesa degli orti privati, il vicolo attraversava una zona lontana dalle abitazioni vere e proprie, ogni casa aveva il suo pezzetto di terra, che dava sul vicolo, ma le porte erano sempre chiuse. E le finestre sempre non illuminate. Se qualcosa avveniva nel vicolo, nessuno se ne accorgeva.

Ruva è termine dialettale diffuso nel meridione. In siciliano significa roveto, luogo ricoperto da rovi. Da noi i rovi non c’erano, ma la stradina godeva comunque di una pessima reputazione.

La nostra abitazione era dotata di un orticello con una porticina che usciva sulla ruva in una parte centrale di essa, bloccata con un catenaccio, dapprima, senza lucchetto. Quella porta non veniva aperta mai e noi ragazzi avevamo la proibizione assoluta anche solo ad avvicinarci. Per quale motivo ci fosse stata data quella proibizione, non l’abbiamo mai appurato, ma proprio questo mistero fatto di allusioni, parole a mezza bocca, sguardi enigmatici, ci attirava ed era una tentazione continua.

L’orticello era terreno incontrastato di noi due maschi. Le femmine, con le loro bambole, preferivano gli ambienti coperti. Noi invece passavamo molto tempo all’aperto a fare i più diversi giochi in quel piccolo pezzo di terra, circondato da muri di pietra e calce, durante le ore del giorno e le prime ombre della sera ci coglievano sempre con nostra meraviglia, annunciate dagli occhi furtivi, fosforescenti dei gatti che uscivano silenziosi sui muretti di cinta in cerca di avventure notturne.

La porta di legno, con il suo chiavistello, non sarebbe stato un vero ostacolo. Vittorio ed io avevamo già provato e constatato che il catenaccio, sebbene arrugginito, scorreva dentro le sue guide senza eccessiva difficoltà. L’ostacolo principale era invece costituito dal fatto che, nel tentativo di cancellare quella via di accesso non desiderata, delle pietre erano state posare per terra, a ridosso della porta e, con la vegetazione spontanea che si era prodotta tra i massi, mai rimossi, si era formata con il tempo uno zoccolo duro che ostruiva il passaggio, impedendo alla porta di aprirsi.

A forza di tentativi, comunque un piccolo spiraglio eravamo riusciti ad aprirlo e attraverso di esso, cominciammo la nostra esplorazione del mondo di fuori, sempre rimanendo al sicuro nel nostro.

Da quel punto di osservazione si vedevano soltanto un tratto di strada, un muro cieco e, ogni tanto, una, o due persone che passavano. Voci venivano da destra o da sinistra, sommesse. Cercavamo di capire quello che dicevano, ma riuscivamo soltanto a captare poche parole sconnesse, che non significavano niente. Maia era un nome che ricorreva nel vocio, qualche volta maia-la. Il traffico però, per quello che potevamo vedere, aumentava di sera e di notte, con un che di frenetico, come per una maggiore fretta; questo ci era sembrato nelle poche occasioni che ci furono date di trattenerci in giardino di notte.

Avevamo preparato il nostro grande giorno, anzi notte, quella in cui saremmo usciti sulla ruva a vedere cosa veramente ci fosse. Era una notte di S. Lorenzo, 10 di agosto e noi rimanemmo in giardino con la scusa di vedere le stelle cadenti. I nostri genitori, stanchi, dopo una certa ora, erano andati a letto, le sorelle e la zia Gina, anche, con la raccomandazione di non fate troppo tardi.

Avevamo lavorato tutto il giorno a rimuovere i sassi davanti alla porta di legno del giardino ed a strappare le erbacce. La porta ora si apriva in modo da consentire il passaggio, con un po’ di sforzo, a me, che ero più grande, senza difficoltà a Vittorio, che non si tratteneva, da quanto era elettrizzato. Appena il pertugio fu aperto, infatti, sgattaiolò fuori e io dietro di lui. Calcammo quel terreno, per brevi tratti, saltellando, come anni dopo vedemmo fare dai primi astronauti sbarcati sulla Luna. Finito il lavoro, rimettemmo tutto a posto, per mascherare l’apertura, in modo che non venisse scoperto, con pietre posticce e sterpi in abbondanza.

A fianco della porta, in prossimità del muro di cinta, c’era un roseto le cui diramazioni coprivano in parte la porta stessa. Bisognava fare attenzione nell’uscire a non graffiarsi contro le sue spine. Quando vedemmo spegnersi la luce del soggiorno di casa, trepidanti per l’emozione, ci accingemmo all’impresa. I sassi e gli sterpi furono presto rimossi, il catenaccio e la porta aperti quel tanto che si poteva ed uscimmo, io per primo e mio fratello subito dietro.

Il vicolo era buio e lì per lì non vedemmo niente. A sinistra la strada sembrava deserta; un paio di coppiette, appoggiate al muro, si distinguevano appena, nel buio della strada, mentre a destra, a distanza di circa cinquanta metri, c’era un certo movimento, che si faceva più fitto intorno ad una casupola sull’altro lato della via, il cui ingresso era rischiarato da una debole luce emessa da una lampadina appesa proprio sopra di esso. Un capannello di uomini ed alcune donne sostavano nei pressi della casa e sembravano in attesa, come di un turno. Da essi emanava un brusio, debole, soffocato, come si sente in chiesa, di più persone che parlassero sottovoce.

Fermai Vittorio che marciava senza esitazione incontro al gruppo e ci addossammo al muro per non essere notati.

Aspettiamo, gli dissi sottovoce, non ci conviene arrivare fin là e farci vedere. Questa gente tra poco se ne andrà e noi potremo avvicinarci e vedere cosa succede. Ci nascondemmo in una anfrattuosità del muro ed aspettammo. Dalla casa uscivano ogni tanto persone e altre entravano. Fino a quando per strada non rimase più nessuno. Fu il nostro momento di avvicinarci e, tenendoci sempre rasenti al muro, ci incamminammo al buio verso quel lume.

La casa, bassa, di un solo piano, era cinta ai lati e sul retro da un cordolo di cemento, dove Vittorio ed io ci appostammo, nel buio, e con il cuore in gola, iniziammo l’esplorazione del luogo. Le finestre erano chiuse da persiane vecchie e cadenti; due di esse erano illuminate ed una luce rossa trapelava dalle aperture delle persiane sgangherate. Con molta cautela ci avvicinammo alla prima. Non si vedeva granché, ma da un’anta mancava una delle fasce di legno e da lì fu possibile vedere di più. Nella stanza c’era un letto che sembrava sospeso in aria, perché tutt’intorno, si sollevavano colonne di fumo che impedivano la vista sottostante. La luce, rossa e quasi accecante, a tratti sbiadiva e quasi si spegneva, per poi riprendere vigore. Sul letto, una donna, grassa e brutta, con una grande faccia e la bocca storta, vestita in maniera bizzarra, sembrava un’araba dei fumetti, sul capo una specie di turbante con molti lustrini, una veste larga, che la copriva tutta, tranne le spalle e due enormi tette, in parte coperte dai capelli, lunghi e disordinati, che le scendevano fino alla vita. Davanti a sé, sul letto, aveva una palla di vetro ripiena di qualcosa che si muoveva, e intorno, molta gente, con i volti fissi su quella scena che a noi ragazzi apparve terribile.

Sentivamo le gambe molli e non riuscivamo a staccare gli occhi dalla tremenda strega che faceva gesti con le mani, sopra la palla di vetro ed aspettava per vedere come nel liquido si formassero figure o altro.

A scuoterci, all’improvviso l’abbaiare furioso di un cane a poca distanza da noi. Ci guardammo terrorizzati, Vittorio fece per mettersi a correre, io lo trattenni.

Non correre, gli dissi, altrimenti il cane ci salta addosso. Dobbiamo andare via piano e cercando di non farci vedere. Accucciati nel buio, rifacemmo il giro della casa, verso la strada e, una volta usciti, ci precipitammo verso casa. Prima di rientrare nella porta del giardinetto, vedemmo che alcune persone erano uscite da quella casa e guardavano intorno, per capire perché il cane avesse abbaiato.

Chiusa la porta, tirato il catenaccio, rimesse le pietre e gli sterpi, con grande prudenza per non svegliare i dormienti, rientrammo in casa e ci mettemmo subito a letto. Quella notte non dormimmo.

Nessuno seppe niente della nostra bravata; qualche giorno dopo, però trovammo la sorpresa che al catenaccio della porta del giardinetto, era stato applicato un lucchetto grande, che troncò di colpo ogni nostra ulteriore iniziativa.

Passarono anni, prima che finalmente si svelasse il mistero di quel vicolo e quella casa, quando ormai la causa dello scandalo era ormai del tutto superato. Una sera nel vicolo c’era stata un’irruzione della polizia e alcune persone vennero arrestate, tra cui la maga e due sue figlie.

Appurammo così che la vecchia megera aveva esercitato per anni la professione di fattucchiera ed aveva truffato ingenti somme di danaro, ad una quantità di ingenui che si rivolgevano a lei per i più svariati servizi, letture della mano, guarigioni impossibili, sedute spiritiche.

Inoltre, sempre nel vicolo, e nella casa, da parte delle figlie della maga, della stessa orchessa e di altre donne, si svolgevano traffici illeciti ed una intensa attività di sesso a pagamento, non in regola con le leggi fasciste dell’epoca, sulla prostituzione esercitata legalmente nelle case chiuse.

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