ISOLA CON FANTASMI

“Dopo tre ore di navigazione, avvistammo sulla superficie piatta del mare, lungo la linea dell’orizzonte, una piccola macchia sfocata che poco alla volta prendeva forma di terra, confusa nella foschia del mattino. Il cuore si stringeva in un’angoscia crescente, l’ansia di scoprire quella che sarebbe stata per noi la residenza stabile, per molto, troppo tempo. Eravamo in dieci, incatenati due per due e tenuti insieme da una catena che ci univa tutti. Guardavamo verso quella macchia che via via prendeva le sembianze di un’isola che si ergeva dall’acqua con la sua forma tozza, scabrosa, tutta rocce alla base e vegetazione selvaggia più in alto, con l’animo devastato sotto la suola delle scarpe.

La nostra imbarcazione entrò in una baia dall’aspetto ridente, ma sull’Isola gravava una nube nera che ci toglieva ogni speranza. Dietro un piccolo promontorio, un porticciolo. Le operazioni di attracco richiesero qualche tempo, durante il quale i nostri pensieri si persero in una calma senza aspettative, solo attesa passiva nel buio delle nostre coscienze desolate. Fummo fatti scendere sul molo, in fila, lungo la passerella, con le catene tintinnanti, pochi curiosi a guardarci e molte guardie intorno. Piccola sosta in gruppo, scambio di saluti fra guardie del molo e guardie appena sbarcate, poi tutti ci avviammo su una strada che dal porto andava verso l’interno. Così conoscemmo Porto Vecchio, da cui una strada portava all’ultimo dei numerosi distaccamenti del carcere, chiamato della Mortola.

Per farmi coraggio, pensavo agli uomini famosi che sono stati incarcerati in un’Isola. Loro hanno vissuto questa stessa mia esperienza, provato la stessa angoscia. Mi consolo: io sono un povero ladro, rubo per necessità. Ma penso a Napoleone all’Elba e poi S, Elena, a Sandro Pertini, prigioniero politico detenuto a Pianosa, a Gramsci, nato in un’isola, tenuto prigioniero per molti anni - “dobbiamo fare in modo che quel cervello non pensi più” aveva detto un giudice fascista - ed invece proprio in carcere egli pensò e scrisse la sua opera principale. Al romanzesco Conte di Montecristo. Già Montecristo, altra isola dell’Arcipelago Toscano, con Pianosa, Il Giglio, Capraia, Elba e poi le isole di altri Arcipelaghi, incantevoli, come Ventotene, Favignana, Tremiti, Pantelleria e Lipari, i posti più belli d’Italia trasformati in luoghi di detenzione e di pena, Terra di confino. Insensibilità dello stato per le bellezze naturali e sfiducia nei confronti dell’istituzione carceraria, che faceva affidamento sulla barriera antievasione costituita dal mare più che sull’efficienza dei sistemi di controllo”.

Avevo la macchina fotografica appesa al collo ed avevo scattato soltanto la prima delle foto che ho pubblicato in questo libro. Mi ero calato nello spirito e quasi nel fisico di un detenuto qualsiasi, che veniva condotto in carcere in un’isola. Quella scelta da noi, io e la mia compagna Luciana, era Capraia, la meno turistica, dannata già dai tempi di Dante “muovansi la Capraia e la Gorgona e faccian siepe ad Arno in su la foce…”, che non conoscevamo e che si prestava bene per questa finzione.

Dopo due giorni sapevamo abbastanza dell’isola e potevamo parlarne come uno dei 412 abitanti del Comune di Capraia. Quello che più ci interessava era la visita agli stabilimenti del carcere, chiamato in seguito Colonia Penale Agricola, in cui i detenuti potevano lavorare all’aperto. L’edificio principale, un vecchio convento di S. Antonio, conteneva gli alloggi delle guardie, più le celle dei carcerati, le stesse già usate dai frati, allineate sotto il porticato del chiostro e le diverse Diramazioni, che erano complessi edilizi dislocati in vari punti dell’Isola, a seconda dell’attività che vi si esercitava. A parte, su una collinetta, il “castelletto” del Direttore, con giardino. Le attività andavano dai lavori di agricoltura, e di pastorizia, alla lavorazione delle acciughe. Le Diramazioni avevano nomi come la Salata, l’Aghiale, l’Ovile il Caseificio e la Mortola. I detenuti che lavoravano potevano spostarsi da uno stabilimento all’altro liberamente. Curioso che nonostante questo sistema di semi libertà, tutti i locali destinati ad ospitarli fossero però dotati di sbarre alle finestre.

C’era anche un piccolo cimitero dove forse riposavano i frati insieme ai carcerati, come un bell’esempio di integrazione post mortem. Ma c’era poi tanta differenza tra la vita menata dai frati mendicanti che avevano percorso quegli stessi sentieri pietrosi e spinosi, coi loro sandali e quella costretti a trascinare questi reietti della società sotto il peso delle loro colpe? Luogo di penitenza per gli uni e di pena per gli altri. Visioni ascetiche di un Paradiso in estate e di un Inferno d’inverno per tutti.

Il senso di disorientamento dei carcerati doveva essere molto grande. Ognuno di noi è un’isola e per vivere ha bisogno di collegamenti esterni, altrimenti ci si sente abbandonati.

L’isola deve aver conosciuto storie di tutti i tipi. Vite vissute nel frastuono dei marosi che si abbattevano sugli scogli, di cui non restava niente, al di fuori di un piccolo cimitero anonimo. Gli scatti del fotografo cercano di ripercorrerne il cammino, in una o molte immagini, dove ciò che conta non è l’aspetto del paesaggio, la patina del colore locale, ma la sensazione di entrarci dentro, mettere il piede dove altri mitici abitatori l’hanno messo in tempi immemorabili e pensare esattamente come loro, per carpirne il segreto. Qualcosa di tutta quella umanità deve essere rimasta in quei luoghi.

La colonia penale è stata attiva per circa un secolo e alla sua chiusura, avvenuta nel 1986 ad un certo numero di vecchi ergastolani fu concessa la grazia e furono liberati. Molti di loro, non sapendo dove andare, decisero di rimanere sull’isola, con qualche diffidenza e perplessità da parte degli isolani.

L’ombra grigia e decadente del penitenziario ora in uno squallido abbandono, non fa che aumentare la sensazione di straniamento dei luoghi e a buon diritto si parla di isola dei fantasmi, con fantasmi che hanno popolato un universo a parte, luogo di penitenza di poveri esseri dimenticati, fantasmi di isolani quasi inesistenti, fantasmi della nostra coscienza che si agitano tra le balze scoscese dell’isola.

Una settimana è durata la nostra vacanza di lavoro a Capraia. Avevamo girato ininterrottamente, lontano dai luoghi più turistici e rumorosi.

Nello zaino del viandante, una volta finito il cammino, restano le storie apprese durante il viaggio. A volte il peso è leggero, a volte no. Quello che segue è un taccuino delle impressioni e delle esperienze fatte durante quella settimana di escursione sull'Isola.

IL VECCHIO CHE GUARDAVA IL MARE

L’occhio del fotografo, come quello del pittore, guarda oltre la superficie delle cose ed indaga l’anima, cerca di cogliere quello che non si vede, la sostanza sottilissima che avvolge tutto ciò che chiamiamo realtà, che nasconde una seconda, una terza, forse un’infinita varietà di altre realtà, ma qui si sconfina nel paranormale, o per dirla col filosofo, nella metafisica.

L’isola è già di per sé una metafora. Luogo privilegiato di smisurate simbologie, nonluogo dal quale fuggire o nel quale annullarsi, sogno di ogni anima che si è persa o che vorrebbe perdersi nel vasto mare di solitudine, separatezza, per mettersi alla prova, misurarsi con l’ignoto, sprofondare nell’angoscia, per poi trovarsi nudo con se stesso. Essere detenuto in un’isola moltiplicava all’infinito la possibilità di metaforizzare l’esistenza, nella impossibilità di poterla governare.

Alcuni confondono l’occhio del fotografo con l’obiettivo della macchina; la sofisticata tecnologia di cui dispongono le macchine fotografiche oggigiorno, ha fatto sì che chiunque oggi possa fare fotografie anche apprezzabili, puntando il mirino verso il soggetto e schiacciando il pulsante dello scatto.

La macchina può essere anche un robot, ma non avrà mai un’anima, una parte sensibile per cogliere quello di cui va in cerca l’occhio del fotografo, che, in effetti è l’anima della macchina.

Finita l’escursione dell’isola, archiviati i ricordi, restavano le impressioni: le foto fatte erano abbastanza numerose, alcune belle di un senso che ridava la vita ad oggetti e luoghi sepolti, qualcosa vicino alla scoperta, che è l’arte maieutica di chi ha in mano una macchinetta e sa come usarla, eppure permaneva in me come pure nella mia compagna una insoddisfazione; non tutto era emerso come volevamo, di quello che si presentava agli occhi come un segreto del luogo, custodito gelosamente, che opponeva continue resistenze a svelarsi.

Sul molo, in attesa del traghetto di ritorno alla terraferma, mentre ci guardavamo intorno, felici ed inquieti ad un tempo, come a voler forzare il momento ed essere sul punto di carpire last minute, almeno un briciolo di quel mistero, una visione ci colpì con intensità insolita e cautamente ci accostammo per guardare meglio l’oggetto della nostra curiosità.

Era un vecchio, seduto su una seggiola, quasi sull’orlo della banchina; se ne stava appoggiato ad un bastone nodoso tenuto tra le gambe piegate, il viso scolpito, da rughe innumerevoli e profonde che facevano del suo volto una ragnatela, come quello di certe statue di pietra, consumate dalle intemperie, volgeva lo sguardo al mare, verso il largo, col mento sollevato, offrendo la sua lunga barba al vento del molo, che la faceva svolazzare, disordinatamente, sul petto e al di sopra di una spalla.

Una figura ieratica e temibile, come un dio del mare a riposo, lontano anche con la memoria dalle tempeste che doveva aver scatenato quando era sull’Olimpo.

Avvertì la nostra presenza, ma non si mosse. Senza neanche girare il viso verso di noi, ad un tratto sentimmo la sua voce, cupa e ferma, rivolta solo a noi, in quanto, intorno non c’era nessun altro,

Non andate via troppo presto, non fuggite. Tutti quelli che sono stati su quest’isola sono andati via e non sono più tornati. Restate ancora un giorno e io vi mostrerò quello che finora vi è sfuggito, il mistero dell’isola coi suoi fantasmi.

Il riferimento a quello che inconsciamente, era stato il titolo che pure noi avevamo pensato di dare al dossier raccolto, suscitò in noi molta meraviglia.

L’isola coi fantasmi? Chiesi incredulo. Perché i fantasmi?

Non ditemi che non ci avete pensato. Qui tutto parla del passato, un passato triste e bello, a seconda dei casi, con tante anime che qui hanno sofferto o trovato un rifugio, ma alla fine hanno dovuto soccombere alla malia che pervade l’isola come una gruviera e non lascia scampo. Capraia, Isola delle capre, per capre, mostra aspetti che ti avvincono e ti avviliscono. Qui ogni pietra, ogni zolla può raccontarti una storia, evocare un fantasma.

Non è così su tutte le isole?

Non so se su tutte, io conosco questa e ti posso assicurare che qui in certi giorni dell’anno, tu non ritrovi te stesso e non sai dove ti trovi. Troppo è il peso dei ricordi e per chi non li ha vissuti è peggio, perché non sa di cosa soffrire.

Ma tu chi sei?

E’ importante? Sono un vecchio molto vicino alla verità. Il mio nome è Omero, quello del mulino, qui mi conoscono tutti. Sono un oracolo e posso predirvi il futuro. Ma soprattutto posso parlarvi del passato, di quello che è stato. Siete disposti a sentire? Le storie sono molte, ma io vi racconterò solo alcune cose, sta a voi decidere se hanno senso o no.

Senza attendere la risposta, il vecchio si alzò senza sforzo dalla sedia e vedemmo che era cieco. Toccando per terra col bastone, evitò con disinvoltura l’orlo della banchina, pur rasentandola e si diresse verso la punta del porto.

Vi porto in un posto magico, ci disse, dove potremo star comodi e parlare senza fretta. Là il tempo non passa e voi farete in tempo a prendere il traghetto, se ancora vorrete farlo.

Si diresse verso una parete che si ergeva nei pressi della punta del porto, a ridosso del faro e, armeggiando intorno ad un lucchetto che lì per lì non avevamo visto, aprì una porta che dava in una stanza, forse un tempo un ripostiglio per le attrezzature del faro e dell’addetto alla sua manutenzione.

Sedete, ci disse entrando per primo e ci indicò un piccolo tavolo con alcune sedie. Accese una lampada e chiuse la porta.

Qui il mare è quasi sopra di noi. Nei giorni di tempesta le onde ci passano sopra la testa. E anche quelle hanno cose da dire. Ascoltate, questo silenzio; avete mai udito un silenzio migliore? Ma quando ruggisce, devi scappare. Nessuno resisterebbe alla furia di quelle ondate, che risentono di centinaia di anni di una morsa crudele di cui il mare è stato testimone. Non ci credete? Provate a stare qui una notte senza la luna e poi vedrete. Perché la luna? Vedete, ci indicò un punto sulla parte più alta di una parete, c’è qui un piccolo oblò dal quale nelle notti di luna, penetra un filo di luce, appena un bagliore, ma è tanto, per non perdere la testa. Quando non c’è, chiunque impazzirebbe. Ho visto l’impiccato una notte. Un vecchio ergastolano che si era suicidato il giorno in cui gli arrivò la notizia della grazia. Doveva lasciare l’isola e non sapeva dove andare. Non aveva parenti, non aveva amici. Qui all’isola nessuno lo voleva con sé. Era un maledetto e finì nella maledizione.

Era triste, con gli occhi di fuori, il collo spezzato e le parole gli uscivano dalla ferita del gozzo. Aiutami, diceva, aiutami e io non sapevo che fare.

Un’altra storia è quella di un direttore del carcere di tanti anni fa, morto assassinato, non si è mai saputo da chi. Aveva preso con sé una ragazza del paese che era scomparsa e non ricomparve nemmeno dopo la sua morte.

Si pensa che un'anima abbia armato la mano dell’assassino.

La notte del naufragio della Essex, la nave passeggera che finì sugli scogli per il mancato funzionamento del faro del Semaforo, morirono in molti, compreso un detenuto del carcere, nel tentativo di salvarli. L’elettricista addetto alla manutenzione fu denunciato e processato: si seppe che quella notte non era al suo posto perché era con una donna.

L’incendio di un’ala del Castello, la nostra Fortezza di S. Giorgio, in una notte di vento, domato solo al mattino del giorno successivo, con l’intervento di tutta la popolazione, dei detenuti e stranieri di passaggio, manda ancora bagliori nelle notti di grande turbolenza atmosferica.

Tacque col mento poggiato sul petto. Poi si riebbe, sollevò di nuovo il capo e

Volete altre storie? Disse con voce bassissima, e facendo appello alla sua memoria, pescando nel mucchio dei suoi ricordi, cominciò.

L’ORA DEI FANTASMI

E’ questa l’ora in cui sull’isola, se tu sei fuori, se tu combatti con le ombre, puoi vedere cose straordinarie. Per una notte, l’isola riassume le sembianze dei tempi passati, di quando il carcere era molto frequentato. I vecchi luoghi si rianimano, le ansie, le angosce tornano. C’è animazione alla Punta della Teglia, al capo nord una barca di pescatori sta per prendere il largo, sfidando la grande onda spinta dal maestrale che incessante batte sugli scogli. E’ una barca di forzati; sono forse fuggiti dal carcere? No, hanno il permesso per farlo. Lo fanno per il bene di tutti. Sfidano la morte. Non hanno nulla da perdere direbbe qualcuno, ed invece sì, hanno il coraggio che non vogliono perdere. Per riaffermare la loro dignità di uomini.

Tra gli scogli di Porto Vecchio, uomini in fila, vengono fatti scendere da una scaletta. Sono ammanettati ed una lunga catena li unisce uno all’altro. Sono stanchi, avviliti, nuove braccia per i lavori del carcere. Hanno perso la dignità, li opprime la colpa. Uomini in divisa ed armati, assistono allo sbarco.

La salata, l’ovile, la Mortola, l’Agliata sono luoghi vivi dove uomini si aggirano come formiche, si incontrano, si salutano e seguitano il loro percorso.

Mentre il vecchio parla, immagini come quelle descritte, si affollano nella nostra mente e intanto poco alla volta, i nostri sensi si rilasciano, come in un sonno incipiente.

Ombre che non trovano la pace, continua a dire l’oracolo ed il sopore, come un filtro magico, assale noi ascoltatori.

Quanto tempo siamo rimasti così? Ipnosi? Catalessi? Non sappiamo dire. Quando ci siamo ripresi, Omero aveva assunto le sembianze di un aedo e declamava frasi senza senso.

Ad un tratto, rianimandosi, inanellò un nuovo racconto.

IL NIDO DELL’AQUILA

C’era un nido nella roccia, un nido di aquila nel punto più alto della scogliera, che scendeva a picco per circa trecento metri e si apriva su una piccola baia, accessibile solo dal mare. La vista da lassù era di una bellezza abbacinante.

Tobia l’aveva scoperto in uno dei suoi pellegrinaggi lungo i sentieri dell’isola, e se lo era tenuto segreto come un talismano; quel posto doveva essere la sua oasi di ristoro per l’anima e il suo rifugio, perciò non doveva essere conosciuto da nessuno, che fosse un secondino o un carcerato.

Era il detenuto più anziano del penitenziario ed ormai nessuno badava più a lui, in virtù di quel regime di semilibertà concessa a tutti i detenuti dal direttore del carcere, per risparmiare sui sistemi di sorveglianza, ma soprattutto in considerazione del fatto che dall’isola era assolutamente impossibile fuggire. D’altro canto i carcerati, molti dei quali ergastolani, una volta sbarcati sull’isola, erano come cancellati dal mondo ed a lungo andare diventavano anche sconosciuti a loro stessi. Si confondevano con i muri e i sassi, le rocce, o le onde del mare, guardiani inesorabili e facevano parte integrante del territorio. Un territorio dimenticato da tutti, come non esistesse.

Eppure il regime di semilibertà garantiva un trattamento molto più umano di quanto non sarebbe stato se avesse previsto la reclusione diurna e, logicamente notturna. Là invece i luoghi di ricovero erano disseminati nell’isola e i carcerati entravano ed uscivano a piacimento, tranne per le ore notturne, in cui tutti dovevano rientrare ai loro posti.

Quello che mancava era la speranza. Nei più anziani financo il benché minimo elemento di entusiasmo era morto da tempo.

Tobia era un fantasma tra i fantasmi, quasi invisibile, nessuno chiedeva di lui. Il direttore doveva essersi dimenticato della sua esistenza ed egli viveva sospeso, cercando di essere sempre meno visibile e non dare motivo a nessuno di ricordarsi di lui.

Era non solo il più vecchio di età, ma anche il condannato, detenuto da più tempo nell’isola. A volte gli sembrava di non essere vissuto mai fuori dal carcere. Della sua vita precedente stentava a ricordarsi, di come poteva essere stato felice, di cosa facesse, di come mai si trovasse lì. Uxoricidio e omicidio erano parole che aveva sentito pronunciare al processo di tanto tempo prima, ma erano parole vuote. Chi? Quando? Non riusciva a ricordare.

Aveva una bella moglie, questo sì, se lo ricordava. Una donna, Anna, per la quale aveva perso la testa. Giovanissimi, entrambi, avevano fatto mille pazzie. Prima di sposarsi, facevano l’amore nel pagliaio, di notte, tutte le notti. Poi da sposati non vedeva l’ora di smettere di lavorare per tornare a casa da sua moglie.

In seguito, cosa era successo? Soriano, quel gattaccio del Soriano, il figlio del proprietario del terreno coltivato da suo padre, una sera era uscito furtivo da casa sua, e, vistolo, cercò di scappare, giù per il pendio. Egli cosa fece? Entrò in casa? lo rincorse, cosa? Non c’era verso di ricordarselo. In tribunale, tra le prove fu portato il fucile da caccia del padre, ma egli non capì a cosa fosse servito.

Annina, la cara Annina era morta, ma a lui non fu dato vederla, perché i carabinieri lo arrestarono la sera stessa, a duecento metri dalla casa ed anche Soriano era morto, con una fucilata in pieno petto. Non ricordava di aver visto Anna prima di morire, né dopo morta. Ergastolo a vita. La sua vita era finita lì.

Ora era nel nido che era stato dell’aquila ed ora era suo. Lontano dal mondo, lontano dagli uomini, solo con i suoi pensieri e il vuoto davanti a lui e il mare sotto risplendente, abbagliante, come i suoi ricordi spezzati.

Non era possibile che avesse ucciso la sua Anna, mentre Soriano meritava la fine che aveva fatto, qualunque cosa avesse commesso. Era certo che l’avesse insidiata, forse violentata e poi uccisa. Chi gli aveva sparato aveva ben fatto.

Ma adesso il suo spirito si sollevava, come l’aquila dal nido e volava per l’immensa distesa del mare, volteggiava sugli scogli, sfiorava l’onda salmastra e si immergeva nel più profondo dei sogni, finalmente libero.

Sono storie vissute sulla pelle di noi isolani, gente strana, fuori dal mondo, se soffre non te lo dice, se gioisce, piange. Volete sentire ancora? Tempo ce n’è, non temete. Il vecchio sembrava sempre più irreale, lo sguardo vuoto, fisso davanti a sé, le mani nodose, con grosse vene sul dorso, poggiate sul tavolo.

Sentite questa:

IL SEMAFORO

Che fai tu qui? Cominciò a raccontare, e le parole fluivano come un fiume, lente ma inarrestabili.

L’uomo era un relitto e ciononostante aveva un che di fiero, di militaresco, nel portamento.

Sono tornato a vedere il mio semaforo. Ho passato metà della mia vita qui e non mi andava di morire senza rivedere questi luoghi in cui si è consumata la mia giovinezza.

Il custode indirizzò il fascio di luce della sua lampada sul viso dello sconosciuto ed illuminò il suo sguardo. Aveva occhi spiritati ma non sembrava essere un folle.

Sai che qui non si può entrare di notte. E’ ancora zona off limit della Marina Militare ed io ho il compito di allontanare eventuali intrusi.

Questo colloquio notturno avveniva sulle alture del Monte Arpaia, all’ingresso della struttura fantasma denominata Il Semaforo, di cui rimaneva in piedi lo scheletro di una costruzione in ferro, di forma rettangolare, priva di tetto, senza porte né finestre. Il tempo non è oggi, non è ieri, ma è un adesso collocato negli anni lontani in cui avvenne la dismissione di quel punto di avvistamento che all’epoca, prevedeva anche una torretta che si innalzava sul tetto della costruzione con un faro, che era servito per decenni come unico punto di riferimento luminoso, per la navigazione notturna nel canale tra l’Isola e la non lontana Corsica, ed era un presidio militare della Marina, che vi teneva una piccola guarnigione alloggiata in una palazzina accanto.

Ho prestato servizio qui come marò per venti anni, disse lo spiritato, riparandosi gli occhi dalla luce della lampada, con una mano alzata sul viso. Non dico che siano stati i migliori della mia vita, ma ero giovane ed a quell’età la vita è fatta di sogni. Quando ho cessato il servizio e sono stato congedato, è sembrato che la mia vita fosse finita.

Ho capito, disse il custode, ma io ugualmente non posso farti stare qui e quindi ti prego di andartene. Puoi tornare domattina, insieme ai turisti che verranno qui in escursione e potrai raccontarmi la tua storia se ti fa piacere.

Non coi turisti, amico, non son tipo da turismo, io sono qui per un bisogno sentimentale, per ritrovare i legami con ciò che mi appartiene, che fa parte di me. Debbo immedesimarmi coi miei fantasmi, debbo ritrovare ciò che ho perduto.

Dopo un attimo di esitazione,

Entra, disse il custode e condusse con la lampada in mano l’uomo verso un punto interno della struttura, passando da uno dei tanti lati aperti. Questa è nottata di ricordi.

Nel centro di quella che non era una stanza, ma un luogo indeterminato, erano sparse delle cassette di legno. L’uomo, posò la lampada per terra e presa una cassetta, ci si sedette sopra, invitando l’ospite a fare altrettanto.

Dimmi come ti chiami e perché sei venuto. Sono stato assunto dopo la dismissione del faro, ma ho conosciuto diversi marò che qui hanno prestato servizio. Anch’io ho passato sull’isola gli anni più belli della mia giovinezza: faccio parte di quei prigionieri, fortunati o sfortunati, che dopo la chiusura del carcere furono condonati e scelsero di rimanere, integrandosi con gli abitanti dell’isola, che da principio non volevano saperne di accoglierci. Ho sposato una di loro ed ora non mi aspetto altro dalla vita.

La mia ragazza, cominciò lo sconosciuto nonché, a suo dire ex marinaio, era la figlia di un secondino che viveva qui con la famiglia. Il padre non era contento, perché, diceva, i marinai erano famosi per non mantenere le promesse. Ma noi ci vedevamo di nascosto nel laboratorio della stazione meteorologica, che di notte era deserta. Per molto tempo, la nostra felicità fu totale. Ma poi qualcosa andò storto: il padre della ragazza mi denunciò al direttore del carcere il quale si rivolse al comandante, che dispose il mio trasferimento su un’altra isola, con effetto immediato. Promisi all' innamorata che sarei tornato, ma in effetti così non è stato.

L’uomo si arrestò in preda alla commozione, poi riprese:

So che lei ha sofferto molto, ma io mi lasciai sopraffare dalle difficoltà e non riuscii a mantenere la mia promessa. Ma questa è acqua passata.

Poi, con finta disinvoltura passò ad un altro argomento:

Ma dunque, se ho capito bene, nel periodo in cui io ero al Semaforo, tu eri internato nel penitenziario?

Colonia agricola, rispose il custode, in seguito colonia penale all’aperto, una sperimentazione del sistema carcerario italiano che sembra abbia dato buoni frutti. Noi producevamo vettovaglie, cibo, vino, miele, verdure e c’era anche un settore che si dedicava alla pesca e alla salatura delle acciughe. Per il carcere, ma anche per gli abitanti dell’isola, che quando avevano bisogno di mano d’opera ricorrevano a noi per assumerci, non solo per il basso costo, ma per la competenza che avevamo nei vari mestieri. Perché stavo qui? Avevo commesso uno dei così detti reati minori, violenza, lesioni, danneggiamenti. Una sera, al bar ci fu una discussione che finì male, una questione di donne.

Ma tu, dimmi, marinaio, cosa sei venuto a cercare in quest’isola?

Il silenzio, disse inaspettatamente l’interpellato, guardandosi intorno con occhi allucinati. Tutte le volte che ho pensato a quest’isola, una cosa mi ha sempre colpito, senza che io all’epoca me ne rendessi veramente conto: il grande silenzio che potevi sentire, pur tra i sibili del vento; un silenzio palpabile, che ti seguiva dovunque. E i colori, colori che non ricordavo di aver visto in nessun altro luogo. I colori della natura, delle albe, dei tramonti, ma soprattutto del mare, colori cangianti, dal blu cobalto ad un celeste paradisiaco, dal verde prato al rosso dei sargassi. Un caleidoscopio.

Io invece ricordo l’avvilimento della nostra condizione di prigionieri, la nostra vergogna nel tripudio di questa natura selvaggia che invitava alla trasgressione. Il cupo delle notti, il tedio dei giorni, il sole implacabile dei campi, il lancinante dolore dei ricordi. E il silenzio, quel silenzio che nei dormitori, di notte, mi pesava sul petto come una pietra tombale. Uno spasimo senza speranza, ogni giorno uguale a tanti altri tutti uguali.

Il vecchio marinaio era assorto in un pensiero che sembrava assorbirlo completamente.

C’eri tu quella volta che naufragò una nave all’altezza di Punta delle Cote, in cui dovemmo prodigarci tutti per salvare quanti più passeggeri era possibile, a rischio della nostra vita ed i carcerati ai quali affidammo le barche della Marina, salvarono più persone di tutti gli altri e alla fine tornarono a riconsegnare le barche, anziché tentare di evadere? Quella era per loro una condizione favorevole alla fuga che non si sarebbe verificata mai più, ma essi non ne approfittarono.

Sì che c’ero, ricordo esattamente, fu una notte di tempesta.

Mare forza sette, precisò subito l’ex marinaio; onde alte due metri. Il faro era spento per un guasto all’impianto elettrico, la nave si incagliò sugli scogli e rimase in balia delle onde, con bordate che spazzavano il ponte, scaraventando i poveri malcapitati che non riuscivano a mantenersi, in mare, che cercavano di aggrapparsi alle rocce per non essere inghiottiti.

Alla guarnigione eravamo solo in sei; se non ci fossero stati gli internati del carcere a darci una mano, saremmo riusciti a fare ben poco. Ma in quella circostanza essi dimostrarono di avere una buona disposizione nei confronti degli altri, senso di solidarietà e coraggio. Uno di loro morì in circostanze che non fu possibile accertare.

Certo, non eravamo appestati, ma solo poveri diavoli sfortunati, condannati per una ragione o per un’altra, ma tutti uomini uguali a quelli che stanno in libertà.

Fu la notte in cui fummo scoperti dal padre della ragazza, all’interno del laboratorio di meteorologia, mentre facevamo l’amore e lui riferì tutto al comandante ed il nostro sogno fu interrotto.

I due uomini tacquero ed il silenzio regnò sovrano.

Seduti sulle cassette, piegati in avanti, erano uno di fronte all’altro, immobili. Ad un tratto quello che si era qualificato come il custode del posto, alzò la lampada sulla faccia del suo compagno e, guardandolo a fondo negli occhi, ancora una volta gli disse:

Ora devi dirmi per quale motivo sei qui; io non credo alle nostalgie che dopo tanto tempo ti portano a rivisitare luoghi che hai conosciuto in passato. Ci deve essere un motivo più profondo e tu mi devi dire quale.

Io qui ho lasciato la mia anima, cominciò in tono lugubre l’interrogato. Per tutta la mia vita io non ho fatto che pentirmi di non aver saputo conservare l’unico bene che avevo avuto ed ora ho deciso di fare tutto quanto è possibile per rimediare a questo sbaglio. Rivoglio la mia felicità, voglio ciò che era mio ed ho perduto.

Era la figlia di una guardia carceraria, mi hai detto, vero? Aveva occhi azzurri e capelli biondi, non è così?

Si chiama Maria ed è mia moglie. La più incantevole delle mogli. A me non ha mai voluto bene, ma me lo anticipò con sincerità, quando accettò di sposarmi. Disse che non sarebbe riuscita ad amarmi, perché amava un altro e non poteva farci niente. Si era ammalata per lui e non era mai guarita. Mi assicurò però che con me sarebbe stata onesta e rispettosa e così è stato.

Seguì un minuto di cupo silenzio.

Tu dunque sei quell’Antonio di cui lei mi ha parlato alcune volte. E sei qui per cosa? Credi che sia possibile, marinaio, invertire la rotta, ora, quando siamo alla fine del viaggio? Non credere che ti lascerò fare quello che hai in mente. Sei pazzo se ti illudi che lei ora lascerà tutto quello che ha qui, per seguirti non si sa dove.

Le ho scritto, disse l’uomo tra i denti. Sono già d’accordo con lei. E’ più di un anno che prepariamo questo piano. Ella è con me, Maria è mia. Sono convinto che ha già pronte le valigie.

Ti sei bevuto il cervello, marinaio, non permetterò mai che mi abbandoni. Ne varrà della vita. Vuoi Maria? Dovrai passare sul mio corpo.

Il semaforo ha smesso da tempo di dare il segnale, si passa non si passa. Ora il faro è giù in basso, il carcere è uno spettrale residuo di un’epoca passata della quale sei rimasto prigioniero. Anche la gente del luogo è cambiata. Dovrai commettere un reato grave come l’omicidio, per ottenere quello che pretendi, ma non ti spetta.

Facciamo così: ora ti accompagno da lei e le dirai che è stata tutta una follia, se ha fatto i bagagli, come tu dici, ma io non credo, li disfaccia e tu domani prendi la prima nave e te ne vai.

Vedi, marinaio, noi siamo vissuti in una gabbia, disse il vecchio carcerato. La gabbia è questo semaforo che rassomiglia ad una gabbia per canarini, ma i canarini siamo noi che ce la siamo costruiti addosso, questa gabbia nella quale siamo rimasti prigionieri, tu con le tue colpe, dalle quali sei sempre fuggito, io per espiare le mie.

I silenzi, i colori, le nostalgie, puah! Tu sei tornato perché torturato da qualcosa che ti morde dentro. E non è il rimorso per aver lasciato la povera Maria. Ci deve essere molto di più.

Forse vuoi parlarmi ancora di quella notte, del naufragio, di come avvenne che di colpo il semaforo non funzionò più, di chi era tenuto a controllare che funzionasse regolarmente e non lo fece; di quell’elettricista che non era un elettricista, ma un marò, un marò che guarda caso quella sera era chiuso nel laboratorio meteo con una donna e non si accorse di quello che stava succedendo. Forse mi vorrai dire anche di come morì quel povero carcerato, mandato a fare una missione impossibile, come portare il capo di un cavo, a nuoto, in quel mare tempestoso, fino alla nave incagliata, per fornire ai poveri disperati un appiglio per tornare fino a riva, tenendosi al cavo che avrebbe dovuto essere steso fra l’imbarcazione e la riva.

Io dal mio canto potrei dirti di chi andò dal secondino, padre della ragazza, a denunciare che la figlia stava con quel marò nei locali del laboratorio e di come questi si precipitò dal comandante della guarnigione per fargli constatare la mancata consegna. Un atto vile, lo so, ma non così grave come quello denunciato.

D’altronde, se veramente hai scritto a Maria, proponendole la fuga, vuol dire che sei un vecchio rimbambito. Avresti illuso quella povera donna ancora una volta. Non ti vergogni? Sei un essere spregevole.

Mi accorsi che questa scena madre, degna di un mediocre film melodrammatico, si stava svolgendo autonomamente nella mia testa, affollata dalle molteplici narrazioni che avevo stipato fra le cose da riportare a casa. Ormai, in quella condizione, distinguevo a fatica ciò che era accaduto realmente da ciò che era frutto della mia immaginazione. Mi rilassai ancor più e lasciai scorrere liberamente le immagini che mi si formavano davanti.

Ancora Omero, non aveva detto, non so dove, non so quando, la vita è un sogno? Ed il vecchio marinaio, non aveva forse risposto voglio uscire da questo sogno, voglio cancellare questo Semaforo che per me ha segnato sempre rosso. Invidio quei carcerati che, anche se non erano sempre contenti, erano almeno rassegnati. Per loro tutto era nella norma, avevano deragliato nelle loro vite, ma ora avevano un solco da seguire e lo seguivano, in pace con le loro coscienze, sapendo di stare pagando il loro debito e null’altro.

Ma io, io, dove troverò mai pace?

Le prime luci dell’alba, intanto, fugavano fantasmi invisibili tra le balze e i boschetti. L’odore del mirto aveva un piacevole effetto afrodisiaco che serpeggiava su per i sentieri. Per un attimo, tutta l’isola rimase avvolta come in un velo di nebbia che la faceva sembrare irreale, sospesa in aria, sul mare.

IL RITORNO

La lampada mandava una luce sempre più tenue ed il vecchio ad un tratto tacque. Sembrava addormentato ed emetteva un mormorio incomprensibile.

La mia compagna ed io ne approfittammo per alzarci ed uscire, senza far rumore, chiudendo la porta alle nostre spalle. Con nostra meraviglia trovammo che era ancora giorno, il traghetto era attraccato al molo, in attesa del momento della partenza.

Ancora un poco storditi, per l’effetto che ci avevano fatto i racconti del vecchio cieco, salimmo la scaletta sul fianco della nave e, giunti sul ponte, ci affacciammo alla murata. Sul molo, nel punto dove prima lo avevamo avvicinato, vedemmo Omero, seduto sulla sua sedia, appoggiato al bastone che aveva tra le gambe, il mento in alto, offerto al vento e la lunga barba svolazzante. Nel momento stesso in cui noi guardammo lui, egli alzò un braccio in segno di saluto e fu tutto. La piccola folla che si era adunata sulla banchina, ancora in attesa di salire sulla nave, ci coprì la visione del vecchio.

Quando, dopo pochi minuti, terminato l’imbarco, la nave tolse gli ormeggi e cominciò a fare la manovra di distacco dalla banchina, sul molo non era rimasto nessuno.

“Hai trovato quello che cercavi?” mi chiese Luciana con i suoi occhi grandi nei miei.

“Penso che tornerò a Capraia, ancora una volta” le risposi, guardando lontano, mi sembrava di scorgere le coste della Corsica, ma era un effetto ottico, “non come turista, piuttosto come documentarista di stati d’animo, anche se non rinuncerò a bagnarmi in quelle acque cristalline, come d’altra parte era consentito fare ai carcerati più meritevoli e facevano comunque anche gli altri, di nascosto. Sento che lì qualcosa, o qualcuno mi chiama, forse i fantasmi dell’Isola che sono stati evocati. Debbo recuperare una dimensione umana che mi sembra di aver perso tra quelle mura e quegli scogli."

Con l'occhio della memoria, ad un tratto, mi accorsi di aver visto, sulla punta estrema del porto, un manifesto a lutto. L'unica cosa che era ancora leggibile, data la distanza, ed il cattivo stato di conservazione del manifesto, affisso là probabilmente da tempo, era il nome del morto, Omero e un cognome, che non feci in tempo a leggere.

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