ANCORA SULL'ESSENZA

Asserisce Aristotele che il più feroce critico del linguaggio fosse stato Cratilo. Sostenitore radicale della dottrina del Panta rei (espressione ormai divenuta di uso comune, essendo stata inclusa persino nel testo di una canzone vincitrice a San Remo), se per Eraclito era impossibile bagnarsi per due volte nello stesso fiume, Cratilo riteneva fosse impensabile immergersi nelle stesse acque addirittura per una e una sola volta.

Grecia, 2019

Fedele a tale dottrina, Cratilo avrebbe quindi smesso di chiamare cose e persone per nome, ritenendolo un esercizio vano (ciò a cui si era attribuito un nome, un attimo dopo era già irrimediabilmente mutato e avrebbe avuto quindi bisogno di un nuovo nome); si era quindi risolto, all'occorrenza, a indicarle con un dito.

Il ragionamento di Cratilo, com'è del tutto evidente, è inconfutabile. Ma allora come si spiega che non solo gli umani facciano tranquillamente uso del linguaggio, ma che anche numerose specie di animali sociali - ossia che vivono abitualmente in gruppi più o meno numerosi - si servano di suoni e gesti in maniera simbolica, come se fossero dei veri e propri codici linguistici?

Appare, da un lato, del tutto evidente che gli animali sociali, siano essi predatori i prede, hanno per natura l'esigenza di coordinare le proprie azioni, vuoi nello sferrare l'attacco, nel caso dei predatori, o nel difendersi, nel caso delle prede. Da tale esigenza di coordinamento scaturisce la necessità di dotarsi di un linguaggio che consenta agli individui del gruppo di comunicare tra loro in maniera efficace.

Gli etologi, che da tempo hanno studiato a fondo la comunicazione degli animali, hanno ormai messo perfettamente in luce come essi dispongano di numerosi segnali condivisi al fine, ad esempio, di dare l'allarme al gruppo laddove gli individui riscontrino la minaccia di un predatore.

Ma cos'è quindi che viene segnalato con tali codici?

E' noto sin dall'antichità che la sensazione può essere ingannevole. Se si immerge una mano nell'acqua fredda e l'altra nell'acqua calda e poi le si immerge entrambe in una bacinella d'acqua "tiepida" questa sembrerà fredda alla mano che prima era stata al caldo e calda all'altra mano.

Qualcosa di assai simile accade alla vista. Un oggetto collocato su uno sfondo chiaro viene percepito più scuro rispetto a quando, lo stesso oggetto, emerga al di sopra di uno sfondo di tonalità più scura.

Tale fallacia della percezione sensoriale, in particolare l'incapacità di decodificare in maniera univoca alcuni segnali ricevuti dai sensi, sembrerebbe quindi porre un ulteriore ostacolo alla possibilità di attribuire nomi o codici alle entità percepite dai sensi.

Non sono solo gli oggetti, di per sé, a mutare vorticosamente, ma ogni individuo ne ha una percezione del tutto particolare, che può differire, o addirittura essere opposta (come quando uno percepisce il freddo e l'altro il caldo nelle medesime circostanze), da quella di altri individui.

Come è possibile allora che si possa quindi giungere ad attribuire significati univoci e condivisi agli oggetti percepiti dai sensi in maniera così fallace?

Un momento: siamo proprio sicuri che di vera e propria fallacia si tratti, o non sia piuttosto una provvidenziale semplificazione?

Il fatto, ad esempio, che vediamo gli oggetti di colore diverso su sfondi di colore diverso non potrebbe semplicemente derivare dalla predisposizione innata, selezionata nel corso dell'evoluzione della specie, dell'intelletto a mettere a fuoco le forme sostanziali delle cose, sacrificando i particolari ininfluenti (come, in questo caso, la tonalità del colore)?

Vedere un predatore nell'oscurità è certamente questione di vita o di morte per la preda e individuarne la forma, ossia l'essenza, è assai più importate che non determinarne correttamente il colore. Vedere chiaro su fondo scuro e scuro su sfondo chiaro mi sembrerebbe allora la strategia ottimale, dispiegata dalla mente al fine di poter mettere meglio a fuoco ciò che è fondamentale vedere (la forma sostanziale, l'essenza), portando volutamente in secondo piano ciò che non riveste importanza cruciale, ossia quelli che noi "aristotelici" chiamiamo accidenti.

Quella che a Cratilo, nella sua battaglia ai nomi, era sfuggita era proprio la distinzione tra essenza e accidente, che Platone aveva intuito e che verrà poi sviscerata fino in fondo da Aristotele.

Ciò che del leopardo ammazza il babbuino sono infatti gli artigli e i denti (l'essenza del predatore), non gli accidenti (se ha più o meno macchie o se ha un orecchio mozzo, ma anche se è maschio o femmina). E questo il babbuino lo sa benissimo, e quando ritiene di aver individuto l'essenza di un leopardo nella penombra della savana si appresta a gridare "al leopardo" in babbuinese, fregandosene altamente del fatto che Cratilo sostiene che quello che lui ha individuato come "leopardo" un attimo dopo non sarà più lo stesso leopardo di prima.

In sintesi: Cratilo ha ragione e torto allo stesso tempo. Mettere i nomi alle cose non ha senso, se ci si perde appresso agli accidenti, alle contingenze futili e accessorie, siano esse connaturate all'oggetto stesso o alla percezione che noi ne abbiamo singolarmente. Ha invece perfettamente senso (anzi, come ho mostrato nell'esempio, può essere letteralmente questione di vita o di morte per gli animali sociali), se si passa dalla dimensione del contingente a quella dell'essenza immutabile delle cose.

I nomi si mettono alle essenze delle cose, non agli accidenti. E sull'essenza non è consentito sbagliarsi sistematicamente, perché su questo aspetto le dinamiche evoluzionistiche non perdonano. Se a un certo punto ci sono due popolazioni di scimmie al mondo, una che è in grado di distinguere bene l'essenza del predatore al buio mentre la seconda è molto meno capace di farlo, nel lungo periodo la seconda è una popolazione estinta.

Commenti

  1. Come al solito, brillante, chiaro ed efficace. Consentimi solo una facezia, nel senso di una sciocchezzuola: mia zia Gina, che per ogni occasione aveva il motto adatto, fra i più notevoli aveva quello che dice "lu genii è come l'accident, a chi coije e a chi nin coije". Dalla tua dotta dissertazione deduco che di accidente si può morire. La zia Gina non aveva del tutto torto.
    Scusa lo scherzo e complimenti.

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    1. Grazie mille Bruno. Sulla grande saggezza della filosofia popolare delle nostre terre, come sai, non nutro alcun dubbio. Dopo avere scritto parecchio sull'essenza, mi riprometto quindi di rendere giustizia alla lezione del detto della Zia Gina, cercando di fare il punto sugli accidenti (su cui ho già condiviso qualche riflessione in ordine sparso). Perché esistono, che funzione hanno? Potremmo farne a meno?

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