UTOPIA

Ho già scritto in passato qui sullo Zibaldino in merito al migliore dei mondi possibili. Vorrei ora riprendere il discorso, argomentando su un concetto ad esso strettamente correlato, quello di utopia.

L'intelletto umano è per sua natura metafisico, nel senso che si slancia di necessità oltre l'hic et nunc dell'immediato vissuto personale per guardare al non vissuto, al non direttamente sperimentato, al possibile, appunto. In tal modo esso scopre - anzi produce - il passato e il futuro, dimensioni che già Agostino interpretava non come assolute ma come il distendersi, il prolungarsi dell'anima nel tempo.

Nel tubo, 2014

Propria dell'intelletto umano è poi la necessità di ordinare oggetti ed eventi secondo una scala di valori che vanno dal peggiore al migliore, capacità che sembrerebbe, peraltro, in buona parte condivisa con l'intelligenza animale, specie quella dei predatori. Questi ultimi, dovendo economizzare gli sforzi, sono di necessità costretti a selezionare bene le prede prima di sferrare l'attacco, al fine di massimizzare la probabilità di successo nella caccia. Applicato allo spazio delle possibilità inizialmente delimitato dall'intelletto, l'ordinamento secondo un dato metro di valore produce il concetto di migliore dei mondi possibili, che, ricondotto dalla sfera dell'operare divino alla dimensione umana e sociale, a sua volta diviene Utopia, ossia la migliore delle società possibili.

Avendo intravista la possibilità di organizzare la società in maniera differente da quella che la storia ha concretamente prodotto nel suo dispiegarsi, l'uomo sarà sempre, per sua natura, portato a chiedersi: la nostra società è attualmente la migliore possibile? E non è una domanda che si possa liquidare in maniera così banale come potrebbe sembrare all'apparenza. Se da un lato parrebbe infatti facile per chiunque immaginare società migliori di quella attuale, che certo non mancherà mai di difetti evidenti, bisogna poi dimostrare che tali assetti sociali, oltre ad essere più desiderabili in sé, sono anche possibili, ossia internamente coerenti e stabili. E questo è tutto un altro discorso.

La filosofia greca, che è figlia della dialettica politica tra le tradizionali aristocrazie terriere e i ceti emergenti "borghesi" che avrebbe infine condotto all'instaurarsi di regimi democratici in alcune delle principali poleis elleniche, si può dire nasca esattamente per porsi tale domanda. La società greca tradizionale, di stampo oligarchico e nepotistico, è la migliore delle società possibili? E se non lo è, come bisognerebbe ridisegnare le strutture di governo della polis affinché essa si orienti nella direzione dell'utopia, della migliore delle società possibili?

La Repubblica di Platone è universalmente ritenuta l'opera, tra quelle giunte ai giorni nostri, in cui viene dato per la prima volta pieno sviluppo al concetto di utopia. Non a caso, nel rinascimento - epoca in cui verranno messi fortemente in discussione gli assetti politici che avevano a lungo retto la società medievale - sarà proprio al Platone della Repubblica che guarderanno Tommaso Moro (cui si deve il termine utopia) e Tommaso Campanella nel disegnare le rispettive città ideali.

Siccome, come recita l'adagio, "la strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni", esiste tuttavia tutta una letteratura e, più recentemente, una cinematografia che hanno inteso mostrare come l'uomo, nel perseguire la migliore delle società possibili possa correre il serio rischio di ottenere in pratica risultati pessimi e, in alcuni casi, addirittura paradossali.

E con questo vengo all'opera che, nello specifico, mi ha spinto a tornare a scrivere di utopie e mondi più o meno possibili e auspicabili. Si tratta di The Lobster (L'aragosta), film del 2015 diretto da Yorgos Lanthimos e co-sceneggiato da Efthymis Filippou, che si propone proprio di mostrare gli esiti parossistici e disumani che è possibile ottenere quando ci si accinga in concreto a disegnare la migliore delle società possibili. Tra i diversi approcci pensabili, gli autori si focalizzano su quello che, per instaurare la società ideale, procede semplicemente eliminando quelle che appaiono come patenti imperfezioni.

Il tema di fondo sviluppato è, di conseguenza, essenzialmente questo: solo ciò che è perfetto ha dignità umana. Applicato alle relazioni di coppia, tale assunto implica che solo chi è in grado di dimostrare un "perfect match", un'abbinata perfetta con un dato partner (non necessariamente dell'altro sesso, anche se, ovviamente non sono accettati i bisessuali, per cui non può esistere per definizione un'abbinamento biunivoco con una e una sola persona) ha diritto a restare umano.
Ma com'è possibile dimostrare l'esistenza di una tale perfetta compatibilità?
Semplice: il simile va con il simile. E la similitudine, per essere inequivocabile, deve chiaramente riguardare innanzitutto passioni e attitudini coltivate dagli individui (se il marito suona la chitarra classica la moglie dovrà fare altrettanto, in modo che si possano esibire in duetto per parenti e conoscenti), ma non basta. Parossisticamente, la compatibilità tra le coppie dovrà spingersi fino alla condivisione delle medesime disabilità (lo zoppo va con lo zoppo, il miope col miope, il cieco con il cieco). 


A chi non è stato baciato dalla fortuna di un "perfect match" spetta il regresso allo stadio animalesco (ma può scegliere specie e razza). Altrimenti tocca darsi alla macchia, unendosi alle schiere dei non-accoppiabili, continuamente braccati per essere eliminati, ossia ricondotti alla condizione animale che gli spetta per costituzione. L'intuizione geniale del film a questo punto sta nell'immaginare per la società segreta dei single regole altrettanto ferree e speculari a quella delle persone matched. Se per stare tra gli accoppiati devi essere obiettivamente e sinceramente bene abbinato a un altro (quelli che fingono vengono infatti severamente puniti), per stare tra i solitari devi essere altrettanto perfettamente spaiato, ossia devi essere un "perfect single". Ogni accenno di relazione amorosa viene quindi pesantemente represso. Anche nella società parallela dei solitari si persegue quindi la perfezione utopica, che è anche in questo caso rappresentata dalla soppressione del diverso.

Sarà, scespirianamente, l'amore, quello vero (che evidentemente ancora esiste e resiste), a scompaginare le carte in tale società simmetricamente utopica nella sua bipolarità. 
Il finale, struggente, della pellicola appare suggellarne il trionfo (anche se, in realtà, l'esito definitivo della vicenda non viene svelato), citando abbastanza palesemente - ma stavolta alla lettera e non in senso metaforico - l'incipit di una bellissima canzone degli U2 ("Love is blindness"): se l'amore è cecità, allora io non voglio vedere.

Qual'è, in conclusione, la morale che bisognerebbe trarre da tale fiaba, futuristica ma neppure tanto?
L'uomo dovrebbe definitivamente rinunciare a interrogarsi sul migliore degli assetti sociali possibili e affidarsi ciecamente alla natura, all'istinto, alle forze primordiali di Eros e Thanatos che guidano, in maniera oscura e insondabile, il comportamento di tutte le restanti specie viventi?
È questa la vera natura dell'uomo?

I pensatori che, come Popper, hanno voluto vedere nel Platone utopico della Repubblica il padre spirituale dei totalitarismi novecenteschi, trascurano il fatto che il filosofo ateniese è stato anche l'autore del Simposio, dialogo in cui si narra del ruolo poderoso giocato proprio da Eros nell'indirizzare verso il bello, e quindi verso il buono, l'agire umano. Non la sola ragione guida quindi l'uomo per Platone. Se, da un lato, nella Repubblica il filosofo sfida la ragione, il logos dialettico, a produrre quanto di meglio gli riesce di congegnare in termini di disegno politico-istituzionale della polis, gli esegeti contemporanei hanno mostrato come egli fosse del tutto consapevole della natura paradigmatica e asintotica di tale progetto, che non doveva essere realizzato sic et simpliciter, ma solo fornire una guida, un faro per orientarsi nelle acque cupe e brumose di un mondo che per il filosofo è e rimarrà sempre, per sua natura, in larga misura dominato dal disordine, dalle passioni, dall'irrazionalità.

Aristotele sancirà in seguito definitivamente, e da par suo, la profonda ambivalenza costituiva della natura umana, sempre in bilico tra la vitale irrazionalità dell'istinto e la logica inesorabile del logos. Nella sua Politica, lo Stagirita insegnerà infatti a guardare all'uomo come zòon lògon èchon, animale dotato di linguaggio, ossia di tecnica simbolica e astratta, ossia di pensiero metafisico. Il dionisiaco (zòon) e l'apollineo (logos) sono quindi entrambi aspetti costitutivi della natura umana e starà allora alla filosofia pratica (altro concetto innovativo che si deve ad Aristotele), ossia alla saggezza che deve guidare l'uomo nella condotta etica come nell'azione politica, trovare di volta in volta il giusto mezzo tra tali due istanze antitetiche. Non è, come invece potrebbe apparire a prima vista, un atteggiamento rinunciatario. Quello cui aspira Aristotele è esattamente l'ottimo cui mirava Platone, solo che tale punto di eccellenza egli non ritiene che vada ricercato sondando i limiti estremi dello spazio delle possibilità, ma in una posizione intermedia, che sia concretamente raggiungibile dalla società umana nella prassi storica. Tra una società totalmente dionisiaca, in cui regnino le medesime forze primordiali che governano le società primigenie e animalesche, e una perfettamente apollinea, in cui tutti i comportamenti umani siano esattamente logici e razionali, deve di necessità esistere un punto intermedio che consenta di conseguire l'ottimo compromesso tra le due istanze. Ad ogni modo, non è rinunciando a priori all'utopia di un mondo completamente retto dal logos che riusciremo mai a progredire verso l'obiettivo di trovare, nel mezzo, lo spazio per una società migliore e più giusta. Su questo punto, Aristotele rimane quindi tributario dell'insegnamento del suo Maestro.

Commenti