MANIGOLDO

Manigoldo è il comune mascalzone, individuo truce senza scrupoli, aduso all’inganno e alla violenza.

Era il giorno di Silvana, che aveva chiesto la parola, avendo qualcosa da raccontare.

Di etimo incerto, la parola ha una lunga storia che la vede sempre connessa a violenza e assassini. All’origine il manigoldo era l’addetto alle esecuzioni delle condanne capitali, il boia, l’assassino di professione per conto di uno stato che così pensava di fare giustizia.

MARS, Rovereto (TN) - 2017

Tra le varie ipotesi fatte a proposito dell’origine della parola, tutte abbastanza fantasiose, una spicca per l’attinenza con questa professione, facendola risalire non so per via di quale radice, al concetto di laccio, stringa, cappio, la qual cosa suscita una macabra assonanza con gli strumenti propri del boia.

La figura di questo particolare tipo di operatore sociale, identificato anche con l'attributo di carnefice, che etimologicamente vuol dire colui che fa la carne, nel senso di fare a pezzi la carne del condannato,  è quanto di più sconvolgente si possa immaginare. Una volta ammessa dalla legislazione la comminazione da parte di un giudice, della pena capitale, occorre ben che ci sia qualcuno addetto ad eseguirla. La giustizia togata comincia con il giudice e finisce col boia.

Mastro Titta, l’ultimo boia dello Stato Pontificio, viveva tranquillo in Vaticano ed era conosciuto e temuto da tutti i romani; l’ultimo boia dell’appena proclamato Stato Italiano a Torino, fu chiamato ad eseguire l’ultima sentenza di morte nel 1875. Egli viveva in incognito in una stamberga, ché se si fosse saputo che egli abitava lì, da quelle parti non sarebbe passato più nessuno tanto era l’orrore che la sua persona suscitava.

Ho deciso, dopo aver molto riflettuto, di rivelare a voi un segreto che finora è conosciuto solo da me e da un’altra persona che è qua dentro, ma che non citerò.

Un giorno siamo andati, io e questa persona in una casa che sembrava abbandonata e sulle cui pareti erano delle scritte che apparivano come messaggi, taluni palesi, molti altri criptati, tra persone che evidentemente frequentavano quel ritrovo, quasi certamente in tempi diversi, altrimenti non si capirebbe la necessità di lasciare messaggi scritti, di cui era difficile capire il senso, non soltanto per l’oscurità delle parole, ma per il fatto che queste scritte erano disseminate in più parti della casa, come ebbi modo di accertare in un secondo momento, senza nessun ordine logico o cronologico.

Decisi di decifrare quelle parole lasciate, forse dimenticate su delle pareti, per comprendere il significato di quello strano modo di procedere. Perciò mi recai in quella casa più volte, in ore diverse ed attesi, sicura che prima o poi, qualcuno si sarebbe fatto vivo. Ho passato lì dentro molto tempo e quelle scritte mi ossessionavano; non riuscivo a staccarmene. Ad ogni minimo rumore, mi nascondevo in uno sgabuzzino che era in quella che era stata una cucina, da dove, tenendo la porta socchiusa, avrei potuto vedere chi fosse entrato e cosa facesse.

Ora quella casa è stata ristrutturata e le scritte – immagino - cancellate, però io ho con me una serie di fotografie che in quel tempo feci, a futura memoria.

La prima cosa che mi venne in mente, osservando quel labirinto di parole, fu che più di un tema dovevano fare da filo conduttore per la decifrazione del senso che doveva esserci nell’intento di chi aveva nel tempo, accumulato tutta quella zavorra con la speranza che forse un giorno qualcuno si sarebbe provato a districarla.

Alcuni sembravano messaggi d’amore, altri di morte, minacce, insulti. Talvolta delicati pensieri, desideri, ambizioni, credenze. In un punto remoto dal resto degli scritti, compariva una strana immagine, come un disegno rozzo e rudimentale di una forca.

Ecco una sera che stavo assorta davanti alla parete più scarabocchiata, sentii di sotto alla scala, la porta aprirsi. Senza fare il minimo rumore, corsi nel mio nascondiglio con il cuore – potete immaginare – che mi scoppiava nel petto. Facevo fatica a trattenere il fiato in subbuglio. Per fortuna lo sgabuzzino nel quale mi ero nascosta era abbastanza lontano da dove sentivo i passi dello sconosciuto, o sconosciuta che era entrato, e si aggirava cauto.

Ero lì da alcuni minuti e nella casa regnava il silenzio. Scostai leggermente la porta, per avere un più ampio raggio di veduta, e, ad un tratto, mi apparve, contro la parete della stanza accanto, una porta che prima non avevo notato, ed ora era aperta. Uscita allo scoperto, mi accertai che il visitatore non era nella stanza, allora ritenni che fosse entrato in quello che a tutta prima era per me un passaggio segreto.

Il rischio era grande, ma io avevo l’assoluta necessità di scoprire quello che stata succedendo. Camminando sulla punta dei piedi raggiunsi, il punto in cui si poteva vedere cosa c’era dietro quella porta. Dava su una scalinata che scendeva fino ad un locale sotterraneo, da dove sentivo provenire dei rumori, e vedevo una tenue luce spostarsi da un punto all’altro del locale. Ovviamente non osai affacciarmi, per paura di esser scoperta; appena sentii che l’individuo sotto stava per risalire, tornai a nascondermi nello stanzino.

Nulla riuscii ad appurare circa l’uomo che mi passò vicino, io dentro lo sgabuzzino con lo spiraglio aperto trattenendo il respiro e lui che si aggirava fuori, a pochi passi da me, sempre senza mostrarmi il suo volto. Infine sentii che si allontanava, si avviava verso l’uscita ed infine la porta d’ingresso che si chiuse, con uno scatto della serratura, ma ancora non mi fidavo. Lasciai il mio nascondiglio, guardandomi intorno come dovessi vedermelo da un momento all’altro comparire alle mi spalle. Ma ero invece sola e ancora tramortita.

Attirata e terrorizzata dall’idea di scendere quelle scale dietro la porta segreta, attesi per riprendermi e poi mi volli assicurare che la porta d’ingresso della casa fosse ben chiusa, quindi mi accinsi alla rischiosa operazione.

Ogni gradino era una fitta al cuore. Accesi la lampada che avevo con me ed illuminai il fondo della scalinata e l’ingresso di una stanza completamente buia. Feci girare il fascio di luce lungo le pareti di quel luogo, che mi apparve abbastanza vasto e conteneva alcune cose, come un tavolinetto apparecchiato come un altarino, una sedia, un giaciglio dove sdraiarsi per dormire, ed una serie di armadietti disposti lungo tutte le pareti.

Mi addentrai con passo incerto nella stanza. Sul tavolino era un candelabro con sette bracci e relative candele; a fianco i fiammiferi per accenderle. Non potetti resistere all’impulso e, con mano tremante, sfregai un fiammifero contro la scatola e passai la fiamma sullo stoppino di ogni candela. L’ambiente si illuminò abbastanza bene.

Mi guardavo intorno sbalordita. Negli armadietti erano custoditi in bell’ordine alcuni oggetti di cui ignoravo la natura. Corde e stringhe, cappucci e piatti, mozziconi di sigarette, tutto etichettato con cura. Impiegai qualche tempo a capire che le corde erano cappi, ad ogni cappio era legata un’etichetta; cominciai a leggere: Antonio Casale ed a fianco una data, Vincenzo Mascarpone, un’altra data, Ailè Man Cascè, un’altra ancora. Le date erano tutte della seconda metà del 1800.

Ad un piatto era allegata la dicitura: ultimo desiderio minestra di fagioli. Alle cicche di sigarette: concesse al paziente numero tre sigarette, rifiutata la quarta.

Ero confusa ed inorridita: quelli esposti erano reperti di altrettante esecuzioni capitali fatte da uno o più boia, conservati per il gusto malsano di qualche appassionato di cose macabre. Se non si trattava addirittura dell’archivio di un “esecutore di giustizia”, ed il locale fosse la sua tana segreta, nella quale era vissuto nei tempi della sua attività.

Era però evidente che quel museo criminale, anche se costituito ai tempi delle esecuzioni, era stato tenuto e curato da qualcuno, che di generazione in generazione, voleva conservare memoria di quella che era stata la carriera di un boia, di un manigoldo, secondo l’origine del termine.

L’individuo che si era recato lì quella notte, doveva essere l’ultimo discendente di una stirpe maledetta del cui capostipite si intendeva venerare la memoria, attraverso i reperti del suo lavoro.

L’ultimo boia togato della provincia di Teramo si chiamava Antonio Cesarini, detto “Caracoccia” e proveniva dalla Val Vibrata. Fu incaricato della esecuzione dei responsabili dello sterminio di un’intera famiglia, avvenuto per motivi ereditari in località Villa Brozzi di Teramo.

Nella nostra ridente cittadina, si conservano ancora i resti di un’importante opera viaria, nota purtroppo come il Ponte degli Impiccati, perché su di esso, o forse più verosimilmente nei pressi di esso, venivano effettuate le esecuzioni capitali comminate dalla magistratura locale. Si tratta di uno dei più vecchi reperti archeologici della città, perché la sua origine risale all’inizio del XII secolo d.c.

Sono tornata in quella casa in compagnia dell’altra persona che è qui con noi, che era l’unica alla quale avevo raccontato questa storia. Ebbene, intendevo mostrarle la stanza degli orrori, e per prima cosa, l’ho condotta giù per la scalinata, nello scantinato. La stanza era vuota. Di tutti i reperti da me visti, nessuna traccia. L’ignara accompagnatrice mi guardava dubitosa, era spaventata e nello stesso tempo incredula. Ci lasciammo con disappunto, non sapendo cosa pensare, io del fatto di cui ero stata testimone, l’altra del racconto che le avevo fatto, sulla cui attendibilità mostrava di nutrire dei dubbi.

E’ passato molto tempo da allora e la casa nella quale era custodito quel segreto, è stata ristrutturata ed è stata acquistata da un possidente di S. Egidio alla Vibrata, che vi si è trasferito con la sua famiglia. Sulla targa posta accanto al campanello del portone, si legge

“Dott. Antonio Casarini, Fisioterapista
Specialità: cervicale e torcicollo”

Commenti