OBLIQUITA'
- Tutti lo sanno – disse Maurizio – alzandosi in piedi per parlare – tutto ciò che non è retto, è obliquo- e ristette un attimo per verificare che le sue parole producessero un certo effetto nella sala.
Silvana, invece, approfittò subito della breve pausa, per inserirsi lestamente nel discorso, dissentendo, come spesso le capitava di fare.
- Siamo alle solite – proruppe – quelle che non mi piacciono sono proprio queste affermazioni apodittiche con le quali introduci un argomento, perché sono lapalissiane e lasciano il tempo che trovano. Che forse tutto ciò che non è bianco, è nero? Sappiamo invece che, tra il bianco e il nero, si trovano altri colori e infinite sfumature tra un colore e l’altro, e tutto avviene per gradi, per cui non possiamo tagliare tutto con l’accetta e dire che ciò che non è buono, è cattivo.
Intervento che Maurizio non gradì e anzi lo sconcertò. La pausa si prolungò ancora per qualche secondo “giusto il tempo necessario per lasciare alla sua contestatrice la possibilità di raccogliere più consensi che non il suo incipit”, pensò con dispetto.
Fece tuttavia buon viso a cattiva sorte e replicò come poté.
- Quello che la nostra amica Silvana dice, è giusto – affermò - nel senso che tutto è relativo e non si deve generalizzare al massimo, facendo di tutt’erbe un fascio. Nel caso specifico, però, esiste una ragione per farlo, in quanto dalla parola latina formata da “ob più liquis”, che in origine significava “piegato verso”, è scaturita una sequenza di termini che hanno descritto le varie facce del male, del disdicevole, dalle forme più lievi a quelle più gravi, fino a fare delle parole “obliquo, obliquità” il concentrato di ogni cosa non sia sulla retta via. Inoltre è da dire che sulla base della contrapposizione tra questi due termini, “retto” e “obliquo”, si è costruito un vero archetipo, poiché attraverso di esse passa la linea di demarcazione tra tutto ciò che tende verso il bene e, ciò che invece è rivolto al male.
Retto, rettitudine, sono le facce del bene, obliquo, obliquità quelle del male; dritto e storto sono i due simboli, archetipi del bene e del male.
- Dal latino “obliquus”, “storto”, deriva anche il nostro “bieco” - disse Arcimboldo, arrossendo (non era molto abituato a prendere la parola in pubblico) – che dall’originario significato di “piegato”, è passato a significare in generale spregevole, malintenzionato, infido, e si applica soprattutto allo sguardo, identificando un modo di guardare che non è diretto, ma di traverso, nascondendo un intento malevolo con qualche cosa di contorto: si contrappone a “aequus”, che in latino vuol dire originariamente “piano”. In italiano l’opposto di bieco bel senso di oscuro, è dato da limpido, aperto, sereno.
- C’è dell’ostilità nello sguardo bieco di un bieco individuo, dal quale c’è da attendersi di tutto, anche astio personale spinto da cupidigia.
- Ah, Maurì! - si sentì la voce di Anchise, romano de Roma - e che me dici, allora, di “torvo”? te sei scordato, anche di “truce”, “trucido” e “tronfio”?
- Non mi sono scordato, mi hai preceduto. Tra tutte quelle che hai dianzi citato, quella che più di tutte m’inquieta è “torvo”. Se fosse vera la supposta derivazione di questo termine, forte e terribile, dal latino “torquere”, che vuol dire “torcere”, non si farebbe fatica ad affermare che essa rientra nel novero delle parole che indicano una volontà di sopraffazione, un’azione o un’attitudine ad ottenere le cose con la violenza, in ogni modo sarebbe assimilabile come il “bieco” di sopra, a quelle che fondano il loro significato nella distinzione tra retto e obliquo.
- A proposito della quale ritengo doveroso fare una precisazione. – Chiara aveva ascoltato con molto interesse ed ora ritenne di poter dire la sua. – Qui stiamo parlando di una distinzione tra retto e obliquo, tra dritto e storto, in senso morale, così come “bieco”, “torvo”, attengono ad una sfera che riguarda più la parte immateriale della persona, non alla parte fisica di essa.
- “Truce” vuol dire violento, minaccioso, è l’atteggiamento del manigoldo - disse Marta. – Mentre “trucido”, è una derivazione di “truce”, con l’aggiunta di un’ulteriore pennellatura che pesca nel viscido; il trucido, alle altre “qualità” sopra dette, aggiunge una compiacenza allo sporco, al lurido.
- “Tronfio” potrebbe non fare parte di questa rassegna, perché non appartiene al settore del retto-obliquo, se non marginalmente. Tronfio è il presuntuoso, pieno di sé, che si rende ridicolo per la sua supponenza.
- Piuttosto sarebbe il caso di parlare della obliquità in sé che è una categoria, e sarebbe quella predisposizione a non essere diretti, immediati, genuini, ma al contrario, sospettosi, studiati, finti, tenebrosi, artefatti.
- Un po’ come l’ambiguità? – chiese una voce dal fondo. Chiara strizzò gli occhi per individuare chi aveva parlato e riconobbe Paolina, una delle ultime arrivate.
- Per semplificare diciamo di sì - rispose – ma tra le due cose c’è una notevole differenza. L’ambito dell’ambiguo è quello dell’incertezza: un discorso può avere un significato, ma può averne anche un altro e un altro ancora; in mancanza di chiarificazioni da parte di chi lo ha pronunciato, si rimane nel dubbio. Ancora più diversa è l’equivocità, dove si ravvede un fondo di maggiore oscurità: l’equivoco è proprio prendere una cosa con un’altra diversa, o anche contraria. Qui i può essere malizia sia da una parte che dall’altra. Esempio, tu dici bello, io intendo brutto, intenzionalmente e porto avanti l’equivoco fin quanto possibile.
- E de’ sghembo ce poi dì quarcosa?
- Si, sghembo, sderenato, malcavato e financo stortignaccolo e più ritorto di un cavatappi.
- Mo’ ce semo. Annamosene a magnà va, che qua pe’ oggi avemo chiuso. 'A Maurì: non t’abboffà!
Silvana, invece, approfittò subito della breve pausa, per inserirsi lestamente nel discorso, dissentendo, come spesso le capitava di fare.
- Siamo alle solite – proruppe – quelle che non mi piacciono sono proprio queste affermazioni apodittiche con le quali introduci un argomento, perché sono lapalissiane e lasciano il tempo che trovano. Che forse tutto ciò che non è bianco, è nero? Sappiamo invece che, tra il bianco e il nero, si trovano altri colori e infinite sfumature tra un colore e l’altro, e tutto avviene per gradi, per cui non possiamo tagliare tutto con l’accetta e dire che ciò che non è buono, è cattivo.
Intervento che Maurizio non gradì e anzi lo sconcertò. La pausa si prolungò ancora per qualche secondo “giusto il tempo necessario per lasciare alla sua contestatrice la possibilità di raccogliere più consensi che non il suo incipit”, pensò con dispetto.
Fece tuttavia buon viso a cattiva sorte e replicò come poté.
- Quello che la nostra amica Silvana dice, è giusto – affermò - nel senso che tutto è relativo e non si deve generalizzare al massimo, facendo di tutt’erbe un fascio. Nel caso specifico, però, esiste una ragione per farlo, in quanto dalla parola latina formata da “ob più liquis”, che in origine significava “piegato verso”, è scaturita una sequenza di termini che hanno descritto le varie facce del male, del disdicevole, dalle forme più lievi a quelle più gravi, fino a fare delle parole “obliquo, obliquità” il concentrato di ogni cosa non sia sulla retta via. Inoltre è da dire che sulla base della contrapposizione tra questi due termini, “retto” e “obliquo”, si è costruito un vero archetipo, poiché attraverso di esse passa la linea di demarcazione tra tutto ciò che tende verso il bene e, ciò che invece è rivolto al male.
Retto, rettitudine, sono le facce del bene, obliquo, obliquità quelle del male; dritto e storto sono i due simboli, archetipi del bene e del male.
- Dal latino “obliquus”, “storto”, deriva anche il nostro “bieco” - disse Arcimboldo, arrossendo (non era molto abituato a prendere la parola in pubblico) – che dall’originario significato di “piegato”, è passato a significare in generale spregevole, malintenzionato, infido, e si applica soprattutto allo sguardo, identificando un modo di guardare che non è diretto, ma di traverso, nascondendo un intento malevolo con qualche cosa di contorto: si contrappone a “aequus”, che in latino vuol dire originariamente “piano”. In italiano l’opposto di bieco bel senso di oscuro, è dato da limpido, aperto, sereno.
Museo Civico Archeologico di Atene - 2019 |
- C’è dell’ostilità nello sguardo bieco di un bieco individuo, dal quale c’è da attendersi di tutto, anche astio personale spinto da cupidigia.
- Ah, Maurì! - si sentì la voce di Anchise, romano de Roma - e che me dici, allora, di “torvo”? te sei scordato, anche di “truce”, “trucido” e “tronfio”?
- Non mi sono scordato, mi hai preceduto. Tra tutte quelle che hai dianzi citato, quella che più di tutte m’inquieta è “torvo”. Se fosse vera la supposta derivazione di questo termine, forte e terribile, dal latino “torquere”, che vuol dire “torcere”, non si farebbe fatica ad affermare che essa rientra nel novero delle parole che indicano una volontà di sopraffazione, un’azione o un’attitudine ad ottenere le cose con la violenza, in ogni modo sarebbe assimilabile come il “bieco” di sopra, a quelle che fondano il loro significato nella distinzione tra retto e obliquo.
- A proposito della quale ritengo doveroso fare una precisazione. – Chiara aveva ascoltato con molto interesse ed ora ritenne di poter dire la sua. – Qui stiamo parlando di una distinzione tra retto e obliquo, tra dritto e storto, in senso morale, così come “bieco”, “torvo”, attengono ad una sfera che riguarda più la parte immateriale della persona, non alla parte fisica di essa.
- “Truce” vuol dire violento, minaccioso, è l’atteggiamento del manigoldo - disse Marta. – Mentre “trucido”, è una derivazione di “truce”, con l’aggiunta di un’ulteriore pennellatura che pesca nel viscido; il trucido, alle altre “qualità” sopra dette, aggiunge una compiacenza allo sporco, al lurido.
- “Tronfio” potrebbe non fare parte di questa rassegna, perché non appartiene al settore del retto-obliquo, se non marginalmente. Tronfio è il presuntuoso, pieno di sé, che si rende ridicolo per la sua supponenza.
- Piuttosto sarebbe il caso di parlare della obliquità in sé che è una categoria, e sarebbe quella predisposizione a non essere diretti, immediati, genuini, ma al contrario, sospettosi, studiati, finti, tenebrosi, artefatti.
- Un po’ come l’ambiguità? – chiese una voce dal fondo. Chiara strizzò gli occhi per individuare chi aveva parlato e riconobbe Paolina, una delle ultime arrivate.
- Per semplificare diciamo di sì - rispose – ma tra le due cose c’è una notevole differenza. L’ambito dell’ambiguo è quello dell’incertezza: un discorso può avere un significato, ma può averne anche un altro e un altro ancora; in mancanza di chiarificazioni da parte di chi lo ha pronunciato, si rimane nel dubbio. Ancora più diversa è l’equivocità, dove si ravvede un fondo di maggiore oscurità: l’equivoco è proprio prendere una cosa con un’altra diversa, o anche contraria. Qui i può essere malizia sia da una parte che dall’altra. Esempio, tu dici bello, io intendo brutto, intenzionalmente e porto avanti l’equivoco fin quanto possibile.
- E de’ sghembo ce poi dì quarcosa?
- Si, sghembo, sderenato, malcavato e financo stortignaccolo e più ritorto di un cavatappi.
- Mo’ ce semo. Annamosene a magnà va, che qua pe’ oggi avemo chiuso. 'A Maurì: non t’abboffà!
Commenti
Posta un commento