SORDIDO

Un lunedì arriva la notizia: sta per tornare Ottavio, guarito dalla sua malattia ed ansioso di far parte del gruppo dello Zibaldino. Passò poco tempo ed il buon siciliano apparve. Quasi irriconoscibile, agli occhi di Maurizio e Chiara che lo conoscevano, ancor più anonimo sembrò agli altri che non lo conoscevano, ai quali fece l’impressione di un ometto smunto, emaciato, vivo solo nello sguardo e nel viso rotondo che richiamava l’aspetto di un gufo.

Museo della Guerra di Rovereto (2017)

Raccontò di essere stato molto malato e di aver affrontato un periodo di depressione, che aveva curato con un lungo soggiorno a Porto Empedocle, durante il quale aveva effettuato frequenti visite alla Valle dei Templi e alla Scala dei Turchi, nei suoi pellegrinaggi silenziosi e, soprattutto, alla casa natale di Pirandello, dove solitamente chiedeva di poter sostare nello studio del grande scrittore e drammaturgo, verso sera, da solo, a luce spenta, in attesa di poter entrare in contatto con gli spiriti dei personaggi delle sue opere e, chissà, forse con lo stesso spirito di lui, che si immaginava come un grande lenzuolo con due buchi per gli occhi, sempre allucinati, ed il pizzetto visibile in trasparenza. Una notte, in particolare, eludendo la sorveglianza del custode, si era nascosto dietro un armadio, ed aveva visto cose strabilianti, di cui adesso aveva gran desiderio di narrare, senza trovare però le parole e l’occasione adatte. Gli altri, quelli ai quali avrebbe voluto comunicare le sue emozioni, erano sempre distratti ed egli non voleva sprecare l’occasione più opportuna che prima o poi sarebbe capitata. Quello che aveva da dire, avrebbe richiesto concentrazione e disponibilità d’animo, che non gli sembravano al momento doti riscontrabili nel contesto in cui di volta in volta, si trovava.

Entrò a far parte del gruppo con naturalezza, per alcuni giorni ascoltò quello che dicevano gli altri, poi, un giorno chiese la parola.

Voi tutti sapete quello che ho passato negli ultimi mesi della mia vita e di quanto io sia stato male, con un tormento nell’anima che non mi abbandonava mai, che cercavo di curare con dosi abbondanti di umanità e di spiritualità visitando luoghi e ritrovi propizi a questo scopo, per la fiducia che volevo conservare verso il genere umano. All’origine di questo mio malessere, ci fu un episodio che ha segnato la mia vita per sempre. Nella terra più bella della mia Sicilia, nei luoghi più affascinanti, dove è possibile trovare le tracce di una grandezza ed una magnificenza assolute, a testimonianza di ciò che lo spirito umano può produrre, ho conosciuto anche l’abisso dell’orrore. Del massimo di bestialità e di assenza di ogni minimo sentimento umano, in creature, all’apparenza uguali a noi, ma di tutt’altro genere.

Vagabondando un giorno da Selinunte, verso l’interno, era quasi sera quando sono arrivato presso un casolare diroccato, semisepolto da una vegetazione selvaggia, in una posizione isolata e squallida, a ridosso di una collina. Per curiosità, sono entrato e dopo poco tempo mi seno reso conto che quel posto era il covo di banditi. In un locale sotterraneo, al quale si accedeva attraverso una botola, c’era un giaciglio accostato alla parete dalla quale pendevano delle catene. Che facevano pensare che lì qualcuno fosse tenuto prigioniero.

Con la poca luce che filtrava dalla botola, ho visto l’ombra di un ragazzo, pallido, capelli lunghi disordinati, sporco fino all’inverosimile, adagiato dolorante sul giaciglio, le catene che gli stringevano le caviglie sanguinanti. Aveva occhi grandi vuoti. Ho sentito di sopra qualcuno muoversi e mi sono nascosto dietro un paravento. Sono scesi in due, un uomo rude, con una barba ispida spinosa, occhi senza espressione ed un ragazzo che si muoveva saltellando, e balbettava come fa uno scemo.

“Avanti, fallo – gli ha detto l’uomo – il capo ha detto che lo devi fare tu”.
“No, non le faccio io ‘ste cose” rispose il ragazzo, torcendosi con tutto il corpo, prendendosi la testa tra le mani e piangendo disperato.
“Fallo, se non vuoi che ti ammazzi – ripeté il truce – prendi il coltello, quello non se ne accorgerà nemmeno, non vedi come è ridotto. Gli fai un piacere.”
“No, no, no. Non lo faccio.”
“Allora ammazzo prima te e poi l’altro”, disse l’energumeno.

Si udì un gran trapestio. Stavo per uscire dal mio nascondiglio, per tentare di impedire il duplice delitto, ma fui colto da un malessere acuto e svenni.

Quando rinvenni nel covo non c’era nessuno. Pochi giorni dopo lessi su un giornale locale che nei pressi di Selinunte i sicari di un boss mafioso avevano ammazzato un ragazzo tenuto come ostaggio, figlio di un collaboratore di giustizia il cui nome era tenuto segreto e che il suo cadavere era stato sciolto nell’acido. Quale non fu il mio orrore, quando, nel ricordo, mi apparvero le immagini di due grossi bidoni e di una vasca, nascosti sotto i rami di un albero tagliato, abbandonati sul retro di quella catapecchia da incubo, che prima di allontanarmi da lì, avevo avuto modo di vedere.

In nome e alla memoria di quel ragazzo, di cui non conosco il nome, vittima della più bestiale violenza, intitolo il discorso di oggi “Sordido” per condannare senza appello la sporcizia, il sudiciume, il marcio che si nasconde nel petto, non nell’anima, che non ce l’hanno, di certi uomini che uomini non sono e nemmeno bestie, perché le bestie agiscono per istinto e sono quindi innocenti, anche quando commettono ferocie, mentre costoro agiscono solo per crudeltà, in quanto non riescono a concepire altro. Sordido e puzzolente è il fiato che esce dalle loro bocche mortifere, ché la merda in loro arriva fino alla gola con reflussi da cloaca.

Maurizio rinunciò ad ogni commento. Chiara, commossa, piangeva sommessamente, cercando di non darlo a vedere. Silvana e Lidia tacevano con gli occhi bassi.

Al bar, dopo, tutti mogi, a chiedere qualcosa di forte.

- E’ morto qualcuno? Chiese il cliente abituale, il quale sperava di sbafare anche questa volta.

Ma nessuno rispose.

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