ALLITTERAZIONE

- Se io dico - cominciò Mercurio (ma sarà stato veramente quello il suo nome? E’ venuto una sola volta, non ha parlato con nessuno e poi non si è visto più) - “Silvana nella selva sentenziava tra sé e sé, anche se, tutto sommato, non diceva poi granché”, io ho fatto una (pessima) allitterazione. L’allitterazione è come una rima disseminata lungo i versi, anziché alla fine ed è meno stringente della rima. Va cioè per assonanza, non per una vera cadenza di sillabe uguali. E’ più un fatto musicale, legato al suono delle parole, come la ripetizione di un “riff” in un brano di jazz. O nel “blues” tanto caro al nostro Valter.

Savignano S.R. (RN, 2014)

- Mi ricordo di un professore di latino e di greco al liceo, un certo Ferrone, che non era delle nostre parti, - a parlare, questa volta, era una ragazza che non si era ancora presentata con un nome – il quale più che insegnare le due lingue morte, le “rappresentava”, aveva cioè doti magistrali di attore e quando ci leggeva i versi di Esiodo o di Virgilio in metrica, battendo il piede a terra, per dare il ritmo, ci faceva volare nel tempo, ed esse, le lingue tornavano a vivere, con noi, alunni ammaliati, sparsi sugli spalti del teatro greco di Siracusa, o dell’Anfiteatro romano di Verona, in un altrove colorato di sogno.

Tìtyre tu patulaé, recùbans sub tègmine fagi silvèstrem… era uno spettacolo: grosso, con un faccione che era di per sé una maschera, una fitta barba riccia, occhi allucinati, una bocca spropositata, dalla quale espelleva parole, e fumo (all’epoca era tollerato fumare in classe), assumendo le fattezze di un drago e alla fine ci parlava delle allitterazioni come melodie che fluissero dal flauto del pastorello virgiliano.

- L’allitterazione è una figura retorica, la nostra lingua ne è piena – disse Anna, la dottoressa, anche lei frequentatrice occasionale del circolo, per via dei gravosi compiti professionali –“senza ma e senza se”, “salvando capre e cavoli”, “sopra la panca la capra campa”, ecc.; consiste nella ripetizione di sillabe di parole diverse che hanno lo stesso suono, per formare una melodia o meglio una nenia. Se non erro si chiama “omofonia” ed è lo stesso dell’”onomatopeia”, solo che in quest’ultima la parola nella sua “fonia” richiama direttamente il suono dell’oggetto di cui si parla.
- Famosissima l'allitterazione quella tratta dagli Annali di Ennio: “O Tite tute Tati tibi tanta tyranne tulisti”, che sembra uno scioglilingua ma è una esclamazione di rammarico : “O Tito Tazio, tiranno, tu stesso ti attirasti atrocità tanto tremende”.

Si trovò a passare Valter, autore di splendide pagine pubblicate sulla raccolta del circolo, il quale, dopo aver preso un caffè al bancone, chiese a Sebastiano, intento a sciacquar tazze e metterle nella lavastoviglie, chi c’era di là a e cosa stessero facendo.

- E’ arrivato un certo Mercurio e sta dando lezioni di retorica. Ora stanno parlando di “al- latterazione”; ora vorrei sapere che c’entra il latte con le parole.
- Forse volevi dire “allitterazione” e non “al latte-razione”. ma forse hai ragione quella è una specie di frappè di parole. Entro a salutarli, ciao Sebastiano.

Dopo essere rimasto un po’ in ascolto, sedette in uno degli ultimi posti e tosto si intromise:
- Ho sentito parlare anche di un’allitterazione musicale, sapreste dirmi cos’è?
- Niente di particolare – Maurizio che ancora non era intervenuto quel giorno, ritenne che era arrivato il suo turno - è una specie di “refrain”, “quel motivetto che mi piace tanto”, ripetuto molte volte per farlo rimanere nella testa delle persone, che così non possono toglierselo dalla mente per un bel po’.
- Parli del “tormentone dell’estate”, quello che spacca le orecchie dei poveri bagnanti di tutte le spiagge per l’intera stagione estiva?
- Sto parlando anche della pubblicità e del pessimo uso che si fa a scopo di marketing, delle musiche più famose della nostra tradizione, per non parlare poi del vezzo delle musichette più insulse che accompagnano gli spot, che vengono ripetuti più volte nel corso di una stessa trasmissione, fino a crearti un vero e proprio senso di ripulsa.
- Perché, allora, non vedete come i pubblicitari trattano il nostro patrimonio artistico? La Gioconda che fa l’occhietto, o il Mosè che scopre di avere le corna, non ti fanno brutto?
- Oh, ragazzi, stiamo uscendo fuori del seminato – gridò allarmato Maurizio.
- Ma che seminato e seminato, disse ad un tratto Silvana, diamo a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio! (allitterazione?). Per la pubblicità delle varie marche di caffè, sono stati scomodati S. Pietro, S. Giuseppe e mezza corte celeste, senza nessun riguardo per la sensibilità dei credenti.
- Se non se ne preoccupa la Chiesa, dovremmo preoccuparcene noi? – azzardò qualcuno.
- Ma scusa, di quale chiesa stai parlando, quella di Francesco, il papa comunista, ormai in minoranza, almeno da noi, o quella di Salvini, che vorrebbe portare il crocifisso in ogni aula scolastica e vuole salvare le radici giudaico-cristiane della nostra (sua?) religione, anche se ignora quale sia.?
- Quale sia, cosa? La religione, o le radici?
- Di sicuro non sa nulla delle radici e del patrimonio, ma anche della religione! E’ sicuro che lui parli di quella cristiana, cattolica, apostolica, romana, ecumenica, votata all’accoglienza?
- Ma se l’Europa stessa non vuol sentir parlare di accoglienza, come facciamo a salvare le radici?
- Qui, stiamo pisciando tutti fuori dell’orinale, cari amici. Vediamo di filarcela prima che se ne accorga Sebastiano, altrimenti ci caccia tutti. – Dette queste parole Maurizio girò intorno lo sguardo in cerca del suo amico Valter, ma non lo trovò. Appena vista la mala parata che si era scatenata dopo il suo intervento, nell’intenzione, del tutto innocuo, se l’era svignata prima, senza che nessuno se ne accorgesse.

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